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«Canto contro l’Europa che impone leggi assurde»

Dopo 50 anni di carriera in cui ha scritto per sé, per i Decibel e per grandi interpreti della musica italiana, e dopo 40 vite (senza fermarmi mai), la ricca autobiografia pubblicata da La nave di Teseo, Enrico Ruggeri conserva l’energia per creare un album come La caverna di Platone, da oggi disponibile in digitale, in cd e in doppio vinile (con 5 bonus track). Tredici brani schietti, tra citazioni personali e memorie, attraversati da una gran voglia di autenticità, e che non disdegnano di prendere posizione sulla guerra, sugli inganni del pensiero ufficiale e sull’Europa.
Non bisogna mai sentirsi appagati, Ruggeri?
«Essere appagati non è una bella situazione per un artista. Credo di avere ancora tante cose da dire e raccontare».
L’album si apre con Gli eroi del cinema muto, un brano commovente ma non nostalgico, che tratteggia le figure di quegli attori che rendevano tutte le sfumature dei sentimenti «senza una sola battuta»: un bel punto di vista rispetto alla società parolaia attuale.
«È il mio pezzo preferito».
Perché?
«Mi sono commosso anch’io, scrivendolo, perché è una bella storia. Quando è arrivato il sonoro la generazione di super-divi degli anni Dieci, Venti e Trenta del secolo scorso è stata spazzata via dal futuro. Quasi nessuno è sopravvissuto a quello tsunami. È un pezzo malinconico ed epico, in cui mi pare di aver dosato bene gli ingredienti. Sono contento che l’album inizi con un “Benvenuti” (a questi eroi)».
Trasmettevano la gamma dei sentimenti senza parlare.
«Con lo sguardo dovevano comunicare una sensazione. Arte complicata».
Figure che sono un monito per il nostro presente alluvionato di parole?
«Siamo immersi in un diluvio di parole superflue. Grandi testi ce ne sono sempre meno, sproloqui sempre di più».
Il leit motiv del brano successivo, Il Poeta, dedicato a Pier Paolo Pasolini dice: «Il libero pensiero ha un prezzo da pagare». È questa la lezione che deriva dalla sua vicenda?
«Ma anche da quella di Socrate o dai tanti bruciati sul rogo, da Oscar Wilde a Ezra Pound, fino a Pasolini. Dagli intellettuali scomodi. Come si dice oggi, Pasolini era un personaggio divisivo. Come se uscire dalla narrazione corrente sia in sé stesso un difetto. Invece, i grandi erano e sono divisivi, perché esserlo significa stimolare il dialogo e il confronto. Giorgio Gaber era divisivo, Pasolini super divisivo, persone che non piacevano a tutti».
Nel brano successivo «piovono rose e spade nel cielo di Milano», anche se «non si vede il sole…». Milano è l’avanguardia italiana, possiamo esserne soddisfatti?
«Dal punto di vista della vitalità sì, da tanti altri no. È una città divisa, qui lo dico nell’accezione peggiore, esasperata, violenta. Tuttavia, resto ottimista perché ha in sé un humus di collegamento con il futuro che mi fa ben sperare».
Qual è il suo sguardo sulla morte di Rami Elgaml e i fatti che ne sono seguiti?
«È una brutta storia, strumentalizzata, sulla quale è difficile prendere posizione. Diciamo che le regole vanno rispettate. Ma purtroppo oggi è difficilissimo fare gli agenti o i carabinieri in una città come Milano, dove si deve sempre stare attenti. C’è un’esplosione sociale qui, come in tutta Europa, e purtroppo si specula. Vedo più la caccia all’errore che alla soluzione».
E di come vengono trattati carabinieri e poliziotti cosa pensa?
«Gente che guadagna poco più di mille euro al mese non si merita di essere attaccata. Sto citando Pasolini».
Nella canzone pacifista Zona di guerra, ripete «qui Dio non c’è».
«È una canzone che parla del fatto tragico di per sé della guerra. Ancora più atroce quando colpisce una città abitata da bambini, come a Gaza, perché diventa una strage di innocenti».
«Qualunque sia, Dio non c’è».
«È un posto dove ci sono il Dio dei cristiani, il Dio degli ebrei e quello degli islamici: comunque sia, non c’è. Non si vede».
Che rapporto ha con il sacro?
«Sono un credente, con tutte le perplessità e le fatiche di essere un credente. Ma lo sono».
La caverna di Platone che dà il titolo all’album parla dell’«ultima ingannevole illusione»: qual è questa illusione?

«Pensiamo che ci stiano mostrando la verità, invece ce ne sono mille. Siamo come i prigionieri della caverna che vedevano solo una proiezione del mondo reale e poi scoprono che non esiste una verità assoluta».
Siamo ingannati?
«Più che altro siamo smarriti: leggi una cosa, poi vedi il contrario. Anche sui social si combattono guerre e rischiamo di restare vittime delle tante versioni che ci danno».
Anche l’amore tra un uomo e una donna può essere un’illusione?
«È un’illusione bellissima, che ci porta avanti. Non si può stare da soli, la vita è condivisione e l’amore è la forma più intensa di condivisione».
Poi c’è un brano enigmatico che parla di un problema che accomuna tutti, puoi essere un barbone o un’ereditiera, un tossico o il padrone del sistema: qual è questo problema?
«È il male di vivere, il bisogno di felicità che non dipende da fattori esteriori e passeggeri. Altrimenti non si spiegherebbe perché a New York vanno tutti dallo psicanalista, mentre nell’Africa nera dove si muore di fame, la figura dello psicanalista non c’è».
Invece, «il problema» c’è anche lì?
«Sì, ma lì hanno anche altri problemi. Ognuno ha priorità dettate dal proprio stato psicologico e dalla propria condizione sociale».
La ricerca della felicità accomuna il barbone e l’ereditiera?
«È difficile da raggiungere, indipendentemente dalla collocazione nella scala sociale del mondo».
In Das Ist Mir Wurst (Non mi importa ndr) mette a confronto la storia della grande Europa con le sue cattedrali e i suoi teatri, con «l’Europa delle banche, delle multinazionali, dei centri di potere, della manipolazione del pensiero» che «non è la mia Europa».
«Sono due concezioni opposte. Quand’ero bambino sentivo parlare del sogno di un’Europa comunitaria, unita dalla cultura e dalla fratellanza. Invece, viviamo in un luogo in cui all’improvviso ci danno delle regole. Una mattina ci svegliamo e se proviamo a bere da una bottiglietta d’acqua non si stacca più il tappo, poi dobbiamo cambiare la macchina e mettere il cappotto alla casa perché ce l’ha chiesto l’Europa. Questa Europa è una somma di leggi cervellotiche, non decise dai cittadini. È la protervia del potere ai danni della gente».
Canzone coraggiosa.
«Mi è venuta così e non sono tornato indietro».
La bambina di Gorla è dedicata a sua madre?
«Mia madre insegnava tre giorni alla settimana nel quartiere Gorla a Milano. Per fortuna sua e mia, perché altrimenti non sarei nato, la bomba su quel quartiere cadde in un giorno in cui non aveva lezione. Naturalmente è un racconto che ho ascoltato fin da quando ero bambino. La giornata della memoria per rendere omaggio a quei bambini dimenticati si celebra il 29 ottobre».
Lei ha scritto molte canzoni per le donne e sulle donne. Come prima più di prima parla della solitudine di una donna nel difendere il suo amore: pensa che oggi il contrasto ai femminicidi che funestano la nostra quotidianità sia efficace?
«È un po’ strumentale. Si parla di patriarcato, ma in realtà il patriarcato era una situazione in cui l’uomo aveva un potere tale che la donna non poteva andarsene. Il patriarcato è stato un errore storico grave, ma oggi è diverso. Soprattutto, i giovani non sanno accettare un “no”. Perché sono abituati ad avere tutto. Così succede che se lei ne va con un altro l’uomo impazzisce: piuttosto che con un altro, meglio con nessuno. Mi sembra che sia la disabitudine alla sconfitta, l’incapacità a metabolizzarla, a produrre tante di queste situazioni».
In Cattiva compagnia, dice: «Se soffri di solitudine probabilmente sei in cattiva compagnia… Perdendo occasioni, mi sono seduto lontano dai buoni»: è la sua storia artistica?
«Direi di sì. Raramente sono stato parte di una maggioranza, ho sempre fatto la mia corsa da un’altra parte, sia artisticamente che concettualmente».
Torna in mente il ritornello della canzone su Pasolini: «Il libero pensiero ha un prezzo da pagare».
«Si gira attorno a quell’argomento, andando controcorrente si paga un prezzo salato».
Mi fa un esempio?
«Non appartenendo a nessuna corrente musicale, non rientro nei circoli di quelli che si invitano tra loro. Al contrario, nel mio programma musicale (Gli occhi del musicista, in onda su Rai 2 ndr) ho invitato Davide Van De Sfroos, Eugenio Finardi, Cristiano De André, gente che non va mai in tv».
Cultura alta e bassa: Gloria di Umberto Tozzi ha la stessa dignità della Locomotiva?
«Sono due canzoni diverse. La Locomotiva ha un bellissimo testo e basta, Gloria ha un testo meno pregnante, ma è cantato e arrangiato benissimo. Giocano in due campionati diversi».
La canzone impegnata è più pregiata o no?
«Le componenti di una canzone sono tante. Spesso quella d’autore non ha grande musica e ha arrangiamenti un po’ sciatti, poi c’è l’interpretazione. Io ho cercato di scrivere bei testi, lavorando parecchio per proporre arrangiamenti innovativi. Nella categoria della canzone d’autore tra coloro che hanno dato importanza agli arrangiamenti mi vengono in mente Franco Battiato e Fabrizio De André con Mauro Pagani».
In Benvenuto chi passa da qui, cantata con suo figlio Pico Rama, dice: «C’è un bambino in me, chiede solo di essere amato per quello che è». Anche in Il cielo di Milano c’è un bambino che giudica noi adulti. Che padre è Enrico Ruggeri?
«Un padre che fa fatica a fare il padre perché oggi è un ruolo compresso, travolto di tanti fattori. Pico ormai ha 34 anni, ma con i due adolescenti è più difficile. Una volta una spiegazione e l’esempio del padre contavano per 80% nella formazione di un ragazzo, adesso contano il 10%. Siamo una voce in mezzo a mille».
È un padre amico?
«In teoria non bisognerebbe esserlo. Sono un padre civile e cordiale, ma pronto a intervenire».
Arrivederci e addio, che parla del nostro rapporto con il tempo, chiude l’album: che cosa vuol dire questo doppio saluto?
«Vivendo il presente, non sappiamo mai se il nostro saluto è un arrivederci o un addio».

 

La Verità, 17 gennaio 2025

«Con un libro da mezz’ora do l’assalto ad Amazon»

Una vita da film. O da grande documentario. Fate voi. Se un regista, un produttore o un editore s’imbattessero in Riccardo Ruggeri potrebbero farsi venire delle idee. Vivesse negli Stati uniti, lo coprirebbero di chissà quanti premi e onorificenze. Di self made man così ne nasce uno ogni vent’anni. Da operaio della Fiat a Ceo di società quotate a Wall Street, tipo la New Holland (fusione Fiat-Ford di macchine per movimento terra ndr). Dalla portineria di 12 metri quadri, camera e cucina per cinque persone, alla corte della regina Elisabetta d’Inghilterra che lo premiò personalmente con il Queen’s Award. Licenziato dalla Fiat  per eccesso di successo (parole di Umberto Agnelli), si è specializzato nella ristrutturazione di aziende tecnicamente fallite: «Gli imprenditori mi davano le chiavi perché si fidavano e io, da amministratore delegato, agivo come fossi il padrone, rianimando il cadavere». Poi consulente strategico di Enel, Rai, Ferrero… Negli anni Novanta ha battezzato una serie di startup: «Quattro, per l’esattezza. Una è stata un flop colossale che mi è costato parecchi soldi. Due sono andate molto bene e le ho vendute. La quarta si è trasformata in azienda di famiglia, il cui successo non è merito mio». Ora, a 86 anni, Ruggeri sta scrivendo un altro capitolo della sua storia e continua a sfornare idee con la vivacità di un trentenne. L’ultima delle quali è il rivoluzionario «Libroincipit». Sul sito di Zafferano.news è acquistabile il primo, a sua firma: Editoria & Amazon. Romanzo autobiografico.

Ci racconta quest’ultima genialata?

«Certo. Ma dobbiamo arrivarci per gradi perché è il traguardo di un processo intellettuale molto lungo e complesso».

Mi armo di pazienza.

«Finita la stagione delle startup ho deciso che avrei continuato a lavorare a titolo gratuito, come per un servizio pubblico. Nel 2006-2007, a più di 70 anni, mi sono chiesto quale fosse il settore più difficile nel business. L’editoria tutta, giornali e libri, stava entrando in una crisi profonda. Mi ci sono buttato».

E sono nati Grantorino Libri e Zafferano.news, giornale online per abbonati seppur gratuito e senza pubblicità.

«Prima è nato il Cameo, il mio format giornalistico. Un adattamento del “Gonzo journalism” inventato da Hunter Stockton Thompson che ho conosciuto a Washington nel 1980. Un giornalismo molto sofisticato che può essere veritiero senza essere rigidamente oggettivo, fatto di racconti di 15 – 20.000 battute, che mescola elementi reali a interpretazioni soggettive ed esperienze personali. Il Cameo ne è una versione ridotta e Zafferano è la sua estensione a livello di testata alla quale collaborano autori a titolo gratuito».

Una testata di commenti e riflessioni?

«Zafferano è un simil-quotidiano, non c’è bisogno che esca tutti i giorni. Le notizie arrivano dalla tv e da internet, ma i commenti non scadono come lo yogurt. Prendiamo il caso Morisi: è fuffa o estremizzazione? A me interessa la riflessione sul potere. In un tweet ho scritto “Il Potente è colui che durante il giorno esercita il potere in purezza e al calar delle tenebre si fa sopraffare dall’impudicizia”».

Torniamo all’editoria e al «Libroincipit».

«Qualsiasi idea consta di due fasi, la visione e l’execution, la realizzazione. In questo caso la visione è cambiare il processo editoriale dei libri, ripensando la filiera editore autore lettore. Oggi tutti i costi sono a carico dell’editore che si deve avvalere di editor, grafici, informatici e di una serie di strutture che valutino il ritorno economico del prodotto. I grandi editori che hanno assorbito i marchi minori e gestiscono le due maggiori catene distributive controllano la filiera completa. Ma il cuore se l’è preso Amazon, che sta cambiando radicalmente il mercato».

Cosa può fare il «Libroincipit»? E qual è la sua execution?

«Cambiare il libro e il modo di produrlo. Se vogliamo che sia letto e non solo pubblicato dobbiamo fare in modo che non richieda più di mezz’ora del nostro tempo».

Perché?

«Trenta minuti sono il tempo standard di tutte le attività umane 2.0, dal sesso al cibo, dal parto col cesareo al morire con l’eutanasia olandese, alla messa domenicale. Mezz’ora è il tempo di lettura di 30.000 battute, in pratica un lungo incipit. E in 30.000 battute si può dire tutto. Esempio: sulla filosofia di Amazon avrei potuto scrivere 600 pagine, ma chi le avrebbe lette?».

Come fa l’autore a diventare editore?

«Il più penalizzato dal mutamento del mercato è l’autore. Ognuno di noi lo è potenzialmente. Molti giornalisti, accademici, persone comuni sognano di pubblicare un libro perché è una grande soddisfazione per chi vive di lettura e scrittura. Ma la corte degli autori di regime monopolizza la fascia dei lettori abituali, una fetta che va riducendosi. Per questo bisogna trasformare l’autore in editore a basso costo e per questo io metto a disposizione Grantorino».

In che modo?

«Non avendo scopo di lucro, posso fornire il protocollo del format “Libroincipit”, la competenza editoriale, marchio compreso, grafici e informatici per la versione digitale e stampatore per quella cartacea. In cambio chiedo solo un fee, un piccolo canone per l’affitto del know how di Grantorino. Inoltre, metto a disposizione la piattaforma di Zafferano con i suoi 15.000 abbonati ai quali far conoscere la pubblicazione. Infine, l’autore può andare autonomamente dai grandi distributori o gestire un proprio mercato e l’incasso è tutto suo. Non ci sono percentuali di diritti e costi superflui».

Che differenza c’è rispetto agli editori che già pubblicano a pagamento?

«Gli editori a pagamento vivono sugli “autori a proprie spese” che Eco chiamava la “vanity press”. Alla base c’è un accordo a pubblicare un certo numero di copie a spese dell’autore. L’editore stampa giusto quelle e si prende anche i soldi dell’autore, che però appaga la propria vanità vedendo pubblicato il suo libro. Io invece cedo le facility dell’editore e se il libro vale l’utile è tutto dell’autore».

Sparisce la disintermediazione degli editori com’è avvenuto con i social network e il giornalismo professionistico?

«In un certo senso uccido l’editore per salvare l’autore. Trasformandolo in editore, lo rendo protagonista. Puntando sulla logistica, Amazon fa il contrario e ci trasforma in consumatori. Tra qualche anno ci porteranno anche il cibo e vivremo stesi sul divano di cittadinanza».

Da disoccupati retribuiti?

«Ma sempre più sudditi di Jeff Bezos, il più intelligente dei tycoon della Silicon valley».

Perché?

«Perché ha capito che se al posto del prodotto metti al centro il processo, cioè la logistica puoi dominare il sistema. Amazon è avviato a diventare uno dei grandi monopoli mondiali. Non a caso sta entrando nel cinema e nella tv, settori apparentemente lontani. Presto sarà nel sistema bancario perché conosce lo stato patrimoniale di tutti i suoi clienti. È il più grande negozio virtuale del mondo, costruito sull’abbattimento dei costi. Adesso Bezos va sulla luna. Estremizzando, si può dire che il vero presidente dell’Occidente è lui».

Cosa vuol dire, come scrive, che la sua aspirazione non è la ricchezza, ma un mondo a immagine e somiglianza di Amazon?

«Per esempio, che negli Stati uniti sta investendo cifre importanti sugli asili».

Perché?

«Sull’immediato ci rimette, ma ridisegna il metodo educativo. Va nelle periferie più scalcinate e finanzia un asilo per avere gente adatta a quella che chiamo “atmosfera Amazon” o addirittura “stile di vita Amazon”. Partendo dai giochi la vita diventa un grande negozio. Dalla culla alla tomba, come si diceva del sistema svedese, Bezos lo applica sul serio. Ha investito miliardi di dollari su qualcosa che appare marginale, ma in termini strategici non lo è».

Scrive che Amazon è la nostra nuova Bibbia laica: dobbiamo rassegnarci?

«Io non lo faccio. Intanto, cominciamo a conoscere il sistema di cui si decantano meraviglie perché ti consegna un libro in 24 ore. Mi chiedo: salvo casi eccezionali, che bisogno c’è di avere un libro in 24 ore? Non è mica una medicina. È un processo che non accetto, devo poter scegliere. Con Amazon sono totalmente dipendente come lo erano gli imperatori romani dal cavallo che gli portava i dispacci di guerra. Se si azzoppava il cavallo, perdeva la guerra. Noi però non siamo in guerra. Per questo ho creato Grantorino libri e Zafferano».

Come spazi di libertà?

«Non producendo utili, rifiutando la pubblicità che mi viene costantemente offerta, siamo indipendenti dall’Agenzia delle entrate e non facendo politica politicante indipendenti anche dalla magistratura».

Perché affida questo progetto alle sue nipoti come il chiostro nel quale resistere al Ceo capitalism?

«I miei figli e le mie nuore si dedicano all’azienda di famiglia. Alle mie nipoti non costerà niente e non ci guadagneranno niente. Non sono creature concepite per il business, ma per una forma di resistenza, uno spazio di libertà. Prima di dormire esco sul terrazzo e guardo le stelle o quando mi alzo al mattino e vado a guardare le erbe aromatiche e officinali. Con questo modello di vita mi posso permettere dei privilegi intellettuali ormai rari».

Per questo vive in Svizzera?

«È un’altra scelta d’indipendenza. Premesso che è trent’anni che vivo all’estero, amante feroce della libertà, senza ismi, considero solo la Svizzera e Israele gli ultimi due “chiostri” di libertà. Stare qui vuol dire stare in un luogo tranquillo, dal quale si vede il mondo come da un balcone fiorito. Modalità ottima per chi ha il privilegio di riflettere e di scrivere».

 

La Verità, 2 ottobre 2021

«Il mio programma su Rai1 era ok, ma l’hanno chiuso»

Poliedrico e versatile, Enrico Ruggeri continua a navigare controcorrente. Musicista, conduttore televisivo e radiofonico, autore di romanzi, presidente della Nazionale cantanti, non ha paura di prendere posizione senza sottoscrivere il pensiero unico. Anzi. «Uno dei vantaggi dell’invecchiare e di avere una carriera consolidata», riflette in questa intervista, «è che non mi può succedere niente di grave se dico qualcosa in cui credo».

Perfetto, allora. Cominciamo dal bilancio del tour estivo nelle piazze e nei teatri?

«Il bilancio è ottimo,:ci siamo molto divertiti sia noi della band che la gente che ci ha seguito. In giro c’è molta voglia di concerti».

Ha notato qualcosa di diverso nel pubblico rispetto a prima della pandemia?

«Quasi due anni di astinenza l’hanno caricato di attesa e di entusiasmo. Ho visto molta voglia di viaggiare per partecipare ai concerti: in Abruzzo c’erano ragazzi che arrivavano dal Piemonte, in Veneto dalla Toscana. Di solito, alle mie serate, a un certo punto tutti si alzano e si ammassano sotto il palco. Purtroppo adesso non è possibile, perciò a volte circola anche una voglia repressa».

Ha notato nuove preferenze riguardo al repertorio?

«Ho fatto 35 album e ogni sera cambiamo la scaletta. E anche se alcune canzoni vanno sempre proposte, non replico mai lo stesso concerto. Conosco persone che non ci sono mai venute, ma non conosco persone che siano venute una volta sola».

Dalle richieste ha constatato che c’è maggiore attenzione a canzoni più esistenziali?

«Io abbino temi profondi a musiche coinvolgenti. Se ti chiedono di ascoltare una determinata canzone non sai se è per la densità dei testi, per la musica ritmata o per entrambe le cose».

Come si gestisce un tour nelle piazze e nei teatri con tante restrizioni?

«Per fortuna non c’è più l’obbligo delle mascherine e si possono vedere le persone in faccia. Certo, l’arena non è piena a causa del distanziamento, ma ci accontentiamo. Meglio fare concerti così che non farli per niente».

Nei giorni scorsi la Nazionale cantanti di cui è presidente si è impegnata con la onlus creata da Paolo Brosio per la creazione di un ospedale di Pronto soccorso a Medjugorje. Che cos’è esattamente la Nazionale cantanti?

«Intanto è uno strumento per difendere i deboli. 100 milioni di euro in beneficenza in quarant’anni non sono poca cosa. È una meravigliosa esperienza di volontariato, molto più che una serie di partite di calcio in posti strani. Giocando a calcio, andiamo a incontrare la sofferenza dov’è. Sono orgoglioso di collaborare a questi progetti».

A volte, quando si sente parlare della Partita del cuore si avverte un retrogusto di buonismo.

«Il buonismo è fatto di parole. Se costruire ospedali e strutture per il trapianto del midollo significa essere buonisti, mi va bene esserlo. Ci sono persone che sono sopravvissute anche grazie alle nostre partite».

Lei arriva dopo le presidenze di Mogol e di Gianni Morandi…

«Mogol è il fondatore, quello che ha avuto il sogno e ha acceso la scintilla. Forse non tutti ricordano che nel 2000, grazie a Mogol, Shimon Peres e Yasser Arafat s’incontrarono per l’ultima volta a una nostra partita. Morandi ha consolidato il progetto, rendendolo popolare e realizzando manifestazioni con decine di migliaia di persone. Adesso ci sono io».

Che differenza c’è fra la vostra storia e quella del Concertone del Primo maggio?

«Qui si vola più alto del dibattito politico nostrano, fatto più per avere consensi che per reale convinzione. Un conto è dire no alla guerra, un altro prendere un aereo militare e andare a Sarajevo durante la guerra dei Balcani. Oppure a Bagdad o sulla Striscia di Gaza. Noi usciamo dal mondo delle parole ed entriamo in quello dei fatti. Non a caso abbiamo incontrato persone come il Dalai Lama e Gorbaciov».

Ora il fatto è il Pronto soccorso a Medjugorje, ci è mai stato?

«Mai. Sono stato a Lourdes, ma non a Medjugorje. Anche Brosio è un visionario e in questo progetto è assecondato da Andrea Bocelli e da persone come Sinisa Mihajlovic e Al Bano che, anche se non gioca a pallone, è in prima fila con noi».

È stato a Lourdes da credente?

«Certo. Vi ho percepito una vibrazione particolare, diversa rispetto a qualsiasi altro posto del mondo. Devo dire che, avendo visto prima tutto il merchandising delle bancarelle, ero un po’ prevenuto. Ma poi, una volta dentro la grotta, capisci che non sei in un posto come gli altri. C’erano anche Morandi e Celentano…».

Quand’è successo?

«Una quindicina d’anni fa».

Chi ebbe l’idea di andarci?

«Celentano. Eravamo andati a Lourdes con la Nazionale e Adriano si era aggregato, senza giocare. Una volta lì, propose di visitare la grotta».

Andaste solo voi tre?

«C’era anche Claudia Mori. Fu una sensazione forte, anche Celentano ne fu toccato».

Qualche giorno fa ha sorpreso un suo tweet in cui elogiava l’intervento di Javier Prades al Meeting di Rimini intitolato «Il coraggio di dire io». Che cosa l’ha colpita in particolare?

«Per prima cosa che sia riuscito a rendere fruibile per tutti un filosofo come Kierkegaard, passando per Pirandello e arrivando ai Queen. Rendere vivo e attuale un pensiero che di solito mette soggezione non è un fatto di tutti i giorni. Poi mi ha colpito il fatto che una riflessione così fosse accompagnata da applausi simili a quelli di un concerto. Non tutto è perduto se ci sono ragazzi che vivono una ricerca più alta e non ascoltano solo la trap».

Cosa voleva dire scrivendo a commento di quell’evento che «il mondo non è solo carta velina»?

«Che non c’è solo l’effimero, un mondo di gente che si agita per cose inutili, vacue. Sentire Prades che parla in un posto affollato di ragazzi è un segnale confortante».

Ha colpito anche lei come alcuni cronisti il fatto che davanti alla platea del Meeting i leader politici si siano confrontati senza litigare o alzare la voce?

«I politici hanno capito che al Meeting se litighi fai brutta figura perché quello è il luogo del confronto».

Ha detto che molti suoi colleghi temono di suscitare disapprovazione, lei non ha paura di schierarsi?

«Uno dei pochi vantaggi dell’invecchiare e di avere una carriera consolidata è che non mi può succedere niente di grave se dico qualcosa in cui credo. Molti artisti sono terrorizzati all’idea di perdere consensi. Perciò si limitano a pronunciarsi contro la guerra, contro la povertà e contro la violenza sui bambini. Tutto bene, ragazzi: ma forse bisognerebbe entrare un po’ più nel merito».

Dobbiamo essere soddisfatti per il fatto che oggi il rock italiano sia rappresentato dai Maneskin?

«Io ci vedo due notizie positive. La prima è che, in un periodo in cui domina la trap, si compone musica al computer e il successo si misura con le visualizzazioni, i Maneskin vanno in cantina a provare e suonare. La seconda è che, dopo anni in cui lo stereotipo italiano prevalente è stato pizza e mandolino, oggi si scopre che gli italiani sanno anche fare rock».

Quindi, soddisfatti e appagati dai Maneskin?

«Al di là del loro specifico valore, sono un passo avanti rispetto a ciò che ci ha rappresentato finora».

Ora che Charlie Watts è morto abbiamo scoperto che tra i Rolling Stones ce n’era uno che è rimasto 60 anni con sua moglie.

«Il vero trasgressivo era lui, visto l’andazzo. Nel suo libro, Keith Richards scrive che il suono degli Stones era dovuto al lieve ritardo della batteria di Watts e al lieve anticipo della sua chitarra. Non a caso, non c’è mai stata una band in grado di rifare le loro cover. Mentre ce ne sono mille che rifanno i pezzi dei Beatles, dei Queen, di Vasco. Quel suono è solo loro, e Charlie Watts ne era uno degli artefici».

Era anche la dimostrazione che si può fare rock ’n’ roll senza rovinarsi di sesso e droga?

«Infatti lui stava dietro, alla batteria, mentre Richards stava davanti. Ci sono l’immagine e la sostanza. Il rock è fatto di tante componenti diverse e sul palco si vivono traumi positivi e negativi. C’è chi reagisce drogandosi e chi riesce a crearsi una realtà tranquilla quando smette di suonare. Ricordiamoci che chi va sul palco fa la cosa più stressante del mondo».

Parlando di palco, lei aspetta di tornarci con un nuovo disco?

«Sì. In tutto questo periodo ho scritto parecchio. Il mio è lo studio più bello d’Europa, però non lo affitto. Prima ci trovavamo a fare musica e poi andavamo tutti a cena insieme. Con il Covid suoniamo e poi offro tamponi a tutti. Abbiamo un sacco di pezzi pronti, aspettiamo di vedere che cosa succede a ottobre, nella speranza di pubblicare il disco e ripartire…».

Invece, in televisione?

«La televisione è vittima di strani meccanismi. Il programma Una storia da cantare su Rai 1 è andato talmente bene che non mi hanno più chiamato».

Prego?

«Chi è arrivato alla direzione di Rai 1 (Stefano Coletta ndr) dopo il mio programma con Bianca Guaccero non poteva ammettere che la gestione precedente (Teresa De Santis ndr) aveva fatto qualcosa di buono, come portare le canzoni e le storie di Fabrizio De André o Sergio Endrigo nella prima serata del sabato. Perciò il contratto non è stato rinnovato».

È un giudizio molto duro.

«Audience e costi di produzione sono facilmente verificabili. Abbiamo fatto ottimi ascolti con una produzione che è costata dieci volte meno di tanti programmi appaltati all’esterno. Ma questa è stata la mia condanna. Così è se vi pare. Invece, su Rai 2 ho condotto Musicultura».

Poi ci sono la radio, i romanzi… da dove nasce questo eclettismo, insolito tra i cantautori?

« Avendo una formazione plurima, mi piace raccontare la vita in mille modi diversi. Non credo che molti dei miei colleghi, forse escluso Francesco De Gregori, abbiano letto Il Capitale di Marx. Io sì».

Se è per questo il cantautore di riferimento del Pd è Fedez, mentre De Gregori almeno sulla vicenda dei concerti in pubblico si è esposto…

«Ed è stato un segno di grande apertura mentale».

 

La Verità, 27 agosto 2021

Ruggeri: «I social annullano la competenza»

Asciutto e con la pelata liscia da duro del cinema americano, nell’anno dei suoi sessanta, Enrico Ruggeri accelera ancora. Resuscitati i Decibel, la band della felice stagione punk di fine anni settanta, parte per un nuovo tour con date a Bologna, Sassari, Nuova Goriça, Vercelli. Tutto senza dimenticare la radio, i romanzi gialli, i concerti da solista: Ruggeri è uno degli artisti più poliedrici e meno allineati del rock italiano. Lo incontro nel suo studio di registrazione, periferia sud est di Milano.

Da dove nasce la reunion dei Decibel?

«Da un atto irregolare. Quest’anno compio 60 anni. E sempre quest’anno è il quarantennale dal primo disco dei Decibel e dalla nascita del punk. Mentre sono trent’anni da Si può dare di più e Quello che le donne non dicono. In occasione di questi anniversari, la prima cosa da non fare è quello che fanno tutti, ovvero il classico album di duetti. Un modo stantio di celebrarsi. Ho pensato di risentire i miei amici, per capire se avevano qualche pezzo nel cassetto. Mi hanno travolto. Ispirando l’idea di realizzare un disco per noi, magari in cento copie in vinile. Poi, un giorno ho fatto ascoltare i pezzi ad Andrea Rosi, presidente di Sony music, mio amico da quando eravamo ragazzi. Gli ho detto: “Prova a sentire. È roba di nicchia, non ti riguarda”. Dopo tre brani ha spento: “Nicchia un cazzo”. Così abbiamo finito d’incidere e il disco è uscito in pompa magna con tanto di cofanetto, brani storici dei Decibel, fotografie. Ho solo chiesto che facessero un marketing da musica classica».

In che senso?

«Nel senso che quando ero bambino il rock era una forma di protesta nei confronti degli adulti. Oggi è uno stile dell’anima. Prendi uno di 65 anni, ne aveva 18 quando morì Jimi Hendrix. Ai concerti dei Decibel vengono i sessantenni e i quindicenni, accomunati dal punk».

Sul suo sito ha lanciato l’hashtag #punksnotdead. Che cosa può dire il movimento punk al momento attuale?

«Il manifesto del movimento punk è scandalizzare i borghesi. Epater les bourgeois, dicevano i poeti francesi. In musica significa proporre qualcosa di diverso dall’omologazione imperante. I dischi sono tutti uguali. Fatti dagli stessi tre arrangiatori con gli stessi suoni e le stesse miserie letterarie. I Decibel in concerto salgono sul palco e suonano. Che c’è di strano? Oggi i concerti iniziano con sequenze di suoni registrati in studio e i musicisti sul palco si aggiungono alle sequenze».

I Decibel: Enrico Ruggeri con Silvio Capeccia (a sinistra) e Fulvio Muzio

I Decibel: Enrico Ruggeri con Silvio Capeccia (a sinistra) e Fulvio Muzio

E andando oltre la musica?

«Per secoli fare musica voleva dire essere artisti. Oggi è diventata una rivalsa sociale, un mezzo per fare soldi. Come giocare a calcio. I genitori di oggi sperano solo che il proprio figlio faccia il calciatore o il cantante».

Per tanto tempo ha frequentato la canzone d’autore francese. Oggi?

«Le parole che usiamo nelle canzoni non sono fonemi buttati lì. La lezione dei grandi cantautori francesi è raccontare gli stati dell’animo con grande poesia. Ma questo si può fare anche col rock. In Noblesse oblige ci sono anche canzoni struggenti, che parlano dell’anima. Non è tutto electro pop. Per me oggi il pop è il nemico. È omologazione, appiattimento, piaggeria».

Nei confronti di che cosa?

«Del mercato. Del pensiero unico che c’è anche nella musica».

Nel 2015 ha scritto una canzone intitolata Centri commerciali. Che cosa pensa della polemica sul lavoro domenicale?

«I centri commerciali hanno sostituito l’oratorio. Una volta si usciva di casa, si andava all’oratorio e li c’erano tutti. Non c’era whatsapp. Adesso si va nei centri commerciali dove decine di ragazzini con lo smartphone in mano non parlano nemmeno tra loro. Poi magari si lamentano della società. Ma non fanno nulla per cambiarla».

Nel video i giovani sono accovacciati nei carrelli.

«Perché la merce sono loro. Il consumismo li ha mercificati».

Il suo tratto distintivo è la capacità di reinventarsi?

«A sessant’anni è obbligatorio».

Negli ultimi anni si è scoperto anche giallista e romanziere.

«Ho scritto un libro per Feltrinelli, poi quattro romanzi. A me piace raccontare delle storie agli altri. Ci sono dei momenti in cui la canzone ti va stretta».

Ha fatto anche televisione. Ora conduce Il falco e il gabbiano su Radio24.

«È sempre lo stesso principio. Anche in tv raccontavo storie agli altri. Ora lo faccio alla radio. L’importante è non cambiare la propria linea. In tv andavo quando Luca Tiraboschi, allora direttore di Italia 1, mi disse: “Non sei tu che devi andare in tv, ma è la tv che deve venire da te”. Ho smesso perché ho un’idea precisa del mio essere e del mio presentarmi. Non sono disposto a cambiare pur di andare in televisione. Quando mi sono accorto che avrei dovuto assoggettarmi a delle regole di mercato non l’ho più fatta».

La guarda?

«Le partite. Guardo di più Sky Arte e Rai 5».

Due canali che hanno il suo stesso eclettismo.

«Da Caravaggio ai Deep Purple. Raramente su Sky Arte c’è un programma che non m’interessa».

Tra le sue forme di espressione qual è quella in cui si riconosce e che la gratifica di più?

«Mi riconosco in tutte, anche se ho sospeso la tv. La gratificazione maggiore viene dai concerti. In radio parli a persone che non vedi. I libri li scrivi per lettori che in gran parte non conosci. Sul palco c’è l’applauso e l’amore ti torna indietro immediatamente».

Da autore di canzoni di successo per Loredana Bertè e Fiorella Mannoia non le è mai piaciuta la mitologia sui cantautori: perché?

«Ho scelto di percorrere strade autonome. Detesto gli stereotipi e il modo d’intendere i cantautori cui lei si riferisce è stato uno stereotipo, al di là del fatto che abbiano scritto canzoni splendide».

Oggi è tramontata la stagione dei cantautori o solo quel modo di intenderli?

«Purtroppo è finita quella stagione a favore di una peggiore. Se non altro, i cantautori scrivevano opere profonde, anche se a volte abbinate a musiche non eccelse. Però erano storie importanti. Oggi il ruolo della canzone è un riempitivo, semplice evasione per la massa».

Colpa di chi? Della televisione, delle case discografiche?

«Le case discografiche non hanno più denaro da investire sui talenti veri e devono pensare all’immediato».

Cosa pensa dei talent show? Sono utili a innalzare il livello della produzione musicale?

«I talent show portano alla ribalta bravi cantanti. Resta da vedere se saranno in grado di portare avanti a lungo linee editoriali e contenuti profondi».

Pico Rama, autore di ragamuffin, figlio di Enrico Ruggeri

Pico Rama, autore di ragamuffin, figlio di Enrico Ruggeri

I giovani di oggi possiedono le doti per reggere le sfide del presente?

«C’è un 80% che vive in modo passivo e condizionabile. E un 20% di ragazzi curiosi e irrequieti. Mi auguro siano quelli che faranno strada».

Uno dei suoi figli, Pico Rama, un rapper emergente è tra questi.

«Più che il rap suona il raggamuffin (un sottogenere del reggae). Il fatto che sia difficilmente inquadrabile è la cosa che mi piace di più di lui».

Avete inciso un duetto insieme. Qual è il consiglio su cui insiste di più?

«Non è uno che accetta molti consigli. La cosa che apprezzo è che non ha l’ambizione di vendere dischi, ma di comunicare qualcosa di sé».

Tornando a lei, il fatto di non essere allineato ha comportato dei costi nella sua carriera?

«Dal primo giorno a oggi».

Ricorda qualche episodio?

«Non ci sono episodi. Ci sono posti dove non t’invitano, o dove non ti citano. Magari leggi un articolo dove si elogiano i cantautori e il tuo nome è omesso. Il mobbing nel nostro mondo è semplice, basta chiamare qualcun altro».

Può esemplificare?

«Preferisco non dettagliare. A volte hai la sensazione che quella cosa tu l’avresti fatta meglio di quello che la sta facendo in quel momento».

A Sanremo però è di casa, ne ha vinti due.

«A Sanremo m’invitano».

La escludono da certi talk show?

«Diciamo che non vado particolarmente di moda. La parte glamour della tv mi ritiene troppo intellettuale. La parte intellettuale mi ritiene troppo poco allineato».

Che cosa non le piace dell’Italia di oggi?

«Il conformismo buonista».

Un esempio?

«La sintassi. Quando sento dire “ministra” mi si accappona la pelle. E poi non mi piace il fatto che tutti esprimano opinioni senza informarsi. Quando non capisco bene una cosa, sto zitto».

La democrazia orizzontale è una conquista dei social media.

«Oggi Marilyn 99 ti dà consigli sulla vita».

È una critica al grillismo?

«Non solo. È che non esistono più gli esperti. Non si rispetta chi ha studiato. Qualche anno fa quelli di destra difendevano il metodo antitumorale di Luigi Di Bella e quelli di sinistra dicevano che era un ciarlatano. Né gli uni né gli altri erano qualificati a esprimersi. Io credo che prima ci si debba laureare in immunologia».

La stessa sottovalutazione della competenza si sta ripetendo sui vaccini.

«Uguale. E la Cecenia? Io non ho un’opinione sulla Cecenia e non mi vergogno a dirlo. Prima vai lì tre mesi a parlare con la gente, poi ti ascolto. Nel mio campo, prima passi tre anni in studio di registrazione e poi scrivi cosa pensi del modo in cui ho registrato il disco. Internet ha annullato la competenza. Siamo tutti capi del governo, ministri degli Esteri o dell’Economia».

Non crede alla democrazia virtuale.

«È falsa democrazia».

Invece, che cosa le piace dell’Italia?

«Penso che l’Italia non ce la farà, ma molti italiani sì. Continueranno a crollare ponti. E continueremo a vedere aree dismesse e ospedali che non funzionano. Ma allo stesso tempo continueremo a vedere eccellenze in tanti campi».

Perché secondo lei l’inventiva italiana non riesce a contagiare le istituzioni?

«Per la distanza tra la gente e la politica. Una distanza ormai incolmabile».

 

La Verità, 23 aprile 2017