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«Perché la Chiesa non può addolcire l’etica sessuale»

Il cardinale Willem Jacobus Eijk, arcivescovo metropolita di Utrecht, già presidente della Conferenza episcopale dei Paesi bassi, ha da poco pubblicato Sull’amore – Matrimonio ed etica sessuale. Grazie all’editore Cantagalli, che lo distribuisce in Italia, ho realizzato questa intervista via mail. Spiace che il coraggio mostrato sostenendo i Dubia riguardo all’Amoris Laetitia non abbia aiutato Sua Eminenza a rispondere alle domande sull’esortazione apostolica di papa Francesco, sulla Fiducia supplicans e sull’Ultima cena queer dell’inaugurazione delle Olimpiadi.
Eminenza reverendissima, la morale sessuale è il terreno in cui oggi si registra la distanza maggiore fra mondo e Chiesa?
«È certamente così. Nell’annunciare Cristo e la sua risurrezione, la Chiesa incontra anche molti fraintendimenti, ma in genere la gente non si emoziona per questo. Tuttavia, l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla sessualità tocca le persone nella loro vita personale. La sua proclamazione può suscitare le emozioni necessarie».
Quali sono le cause della rottura della connessione tra matrimonio, morale sessuale e procreazione, la triade che ha orientato la vita collettiva fino alla metà del Novecento?
«Una causa diretta, ovviamente, è la secolarizzazione associata all’odierno individualismo. L’individuo autonomo decide da solo ciò che crede; per inciso, spesso segue inconsciamente l’opinione pubblica. Di conseguenza, il matrimonio non è più visto come un’istituzione creata da Dio con determinate intenzioni da cui derivano norme per l’esperienza del matrimonio e della sessualità. Nell’epoca attuale, gli individui scelgono quale interpretazione dare al matrimonio o ad altre relazioni sessuali. Anche il facile accesso al materiale pornografico crea un’immagine distorta della sessualità umana».
Le cause di questa rottura sono esterne o esistono anche responsabilità della Chiesa e della sua predicazione?
«Sono principalmente cause esterne. Gli insegnamenti della Chiesa in generale, e certamente quelli sul matrimonio e sulla sessualità, sono stati accolti con incomprensione, poiché la cultura occidentale è cambiata radicalmente a partire dagli anni Sessanta con l’aumento dell’individualizzazione e della secolarizzazione. Ciò non toglie che anche la Chiesa sia stata inadempiente, poiché nell’ultimo secolo la catechesi è stata trascurata».
La morale sessuale è scomparsa dalla predicazione perché fino agli anni Sessanta del secolo scorso è stata troppo presente?
«No, la morale è scomparsa dalla predicazione perché negli anni Sessanta la cultura occidentale ha subito cambiamenti radicali e di conseguenza è stata poco ricettiva alla proclamazione dell’insegnamento della Chiesa».
In quei decenni essere cristiani coincideva con l’irreprensibilità nel comportamento sessuale dettata da un moralismo fatto di divieti?
«Non è vero. Fino ad allora, gli occidentali vivevano in una cultura profondamente cristiana. Vita e fede erano intrecciate. La Chiesa, con le sue numerose celebrazioni, processioni e pellegrinaggi, era al centro della vita della maggior parte delle persone. Fino agli anni Sessanta, le norme relative al matrimonio e alla sessualità venivano predicate ma non spiegate. Quando Paolo VI pubblicò l’enciclica Humanae vitae nel 1968, non esisteva un’analisi teologica o filosofica della natura del matrimonio sulla base della quale si potesse chiarire perché l’uso della contraccezione, a prescindere dall’intenzione o dalle circostanze, è sempre un atto moralmente cattivo. La situazione è cambiata solo quando Giovanni Paolo II ha esposto la sua teologia del corpo nella catechesi tenuta durante l’udienza generale. In essa descrive il matrimonio come un dono totale reciproco dell’uomo e della donna, che riflette il dono totale reciproco tra Cristo e la sua Chiesa o quello tra le tre Persone divine nella Trinità. Così, è comprensibile spiegare perché l’uso della contraccezione è moralmente malvagio: il dono reciproco degli sposi non è allora totale, perché a livello fisico il dono reciproco della genitorialità è bloccato».
Nella predicazione è rimasta troppo implicita la proposta di un modello alto del matrimonio come imitazione dell’amore fra Cristo e la Chiesa?
«Nelle omelie manca comunque una chiara spiegazione dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio. Per inciso, è anche deplorevole che relativamente pochi teologi morali si occupino di teologia del corpo».
I coniugi che si accostano al sacramento sono adeguatamente aiutati a comprendere che si tratta di una via privilegiata alla santità, con tutto quello che può comportare?

«Nell’arcidiocesi di Utrecht organizziamo corsi di matrimonio che illustrano la teologia del corpo e l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia. I partecipanti, giovani coppie che intendono sposarsi in Chiesa e di solito scelgono consapevolmente di farlo, sono entusiasti: <Che bello, non l’abbiamo mai sentito prima>, è la loro reazione. Sono anche aperti a ciò che la Chiesa suggerisce riguardo alla contraccezione e al possibile uso di mezzi naturali per il controllo delle nascite».
Come la comunità cristiana può testimoniare la bellezza del matrimonio, unione feconda e «per sempre», a fronte di mode e unioni chiuse in sé stesse e spesso passeggere?
«Le migliori coppie di sposi esperti che vivono il loro matrimonio secondo le intenzioni di Dio possono testimoniare la bellezza del matrimonio come legame indissolubile aperto al trascorrere della vita umana. Nel fare questo, dobbiamo essere consapevoli del fatto che non è così facile ottenere un matrimonio felice. Le persone non sono perfette. Per questo motivo, i nostri corsi di matrimonio prevedono serate tenute da coppie di sposi esperti che mostrano ai giovani le difficoltà che possono aspettarsi nella loro vita matrimoniale e come possono affrontarle».
Perché a proposito della teoria gender papa Francesco dice che «la rimozione della differenza è il problema non la soluzione»?
«Ci sono spesso aspettative irrealistiche riguardo alle applicazioni della teoria del genere. Ciò è particolarmente vero per la teoria del genere di più ampia portata, che sostiene che il genere – i ruoli sociali di uomini e donne – può essere completamente dissociato dal sesso biologico. Ciò significa che un uomo che pensa che il suo genere sia quello di una donna può avere il suo sesso biologico adattato al genere femminile che ha scelto come identità attraverso trattamenti ormonali e procedure chirurgiche che alterano il sesso. Si tratta di un’aspettativa irrealistica. Al massimo si possono cambiare gli organi sessuali e le caratteristiche sessuali secondarie, come la voce e i peli del corpo, ma dal punto di vista del suo genere genetico rimane un uomo. Deve continuare ad assumere ormoni femminili per il resto della sua vita. Inoltre, il trattamento di riassegnazione del sesso comporta la sterilizzazione. Ci sono anche persone che si sono sottoposte a un trattamento di riassegnazione del sesso in giovane età e se ne pentono. Non è possibile annullare il cambiamento di sesso».
Quali sono le cause dell’esplosione della teoria del gender?
«La teoria del genere trae origine dal femminismo radicale degli anni Sessanta e Settanta. Le femministe vedevano nella contraccezione ormonale la liberazione della donna dal ruolo di genere che la società le aveva imposto in passato. Questo ruolo di genere significava che la donna doveva concentrarsi principalmente sul suo compito di procreare e crescere i figli. Dopo essersi liberata da questo ruolo grazie alla contraccezione, sarebbe stata finalmente in grado di scegliere la propria identità di genere. Questa idea è stata presto estesa a tutte le persone: ognuno dovrebbe essere in grado di fare ciò che vuole dal punto di vista sessuale».
I cattolici hanno consapevolezza sufficiente che la condanna della contraccezione da parte della Chiesa è motivata dal fatto che ricorrervi significa impedire a Dio di «di usare l’atto coniugale nell’ambito del suo piano di creazione per far nascere un nuovo essere umano»?
«Temo di no. Fino agli anni Sessanta, i cattolici vedevano generalmente il proprio figlio come un dono di Dio. L’uomo e la donna realizzano il concepimento attraverso il rapporto coniugale. Dio crea un’anima e la riversa nel frutto rendendolo un essere umano vivente. Ora, molti cattolici battezzati non vivono più il bambino come un dono di Dio. Come i non cattolici, parlano di “prendere” o “fare” un bambino».
Assistiamo a un’espansione del diritto dei genitori di avere o non avere figli: mentre si considera l’aborto un diritto da stabilire nelle Costituzioni, allo stesso tempo si ritiene un diritto avere figli con qualsiasi metodo, compresa la maternità surrogata. Qual è il suo pensiero in proposito?
«Il diritto all’aborto e il diritto ad avere figli attraverso le tecniche di inseminazione artificiale sembrano in contraddizione. Uno sguardo più attento mostra che non è così. Nelle tecniche di fecondazione artificiale, come la fecondazione in vitro, la maggior parte degli embrioni umani creati in laboratorio va persa. Dopo che la coppia ha ottenuto il numero di figli desiderato una volta attraverso le tecniche di fecondazione artificiale, il resto degli embrioni rimane in laboratorio. Questi embrioni vengono distrutti o consumati nella ricerca medica. L’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede del 1987 sulle tecniche di fecondazione artificiale, Donum vitae, sottolinea che l’accettazione dell’aborto indotto rende accettabile la grande perdita di embrioni nella fecondazione in vitro».
Confrontando la radicalità del catechismo cattolico con la pervasività dei modelli che promuovono l’individualismo e l’edonismo bisogna accettare che i cristiani siano un’esigua minoranza nel mondo contemporaneo?
«Il fatto che i cristiani siano sempre più una minoranza è una conseguenza dei cambiamenti culturali che fanno sì che Cristo e il suo Vangelo non siano più compresi e accettati dalla maggioranza. È stato suggerito che la Chiesa attirerebbe più persone se fosse disposta a modificare il suo insegnamento sulla moralità del matrimonio e sull’etica sessuale. In primo luogo, la Chiesa non può farlo, perché il suo compito è annunciare le intenzioni di Dio sulla creazione e non può cambiarle. Ma in secondo luogo: il mondo del protestantesimo mostra che soprattutto le chiese liberali, che hanno una visione molto ampia della morale, sono state le prime a svuotarsi».

 

La Verità, 3 agosto 2024

«Il Papa vuole essere pop come un influencer»

Atti impuri. Argomento scabroso, teologicamente incandescente e attualissimo. Ha a che fare con la dottrina della sessualità e del matrimonio. Con il ruolo della donna e i rapporti nelle coppie dello stesso sesso. Con gli abusi e le violenze dei preti e la pedofilia: ferite apertissime nella Chiesa. Se ne occupa in Atti impuri, appunto, per Laterza, la storica e femminista Lucetta Scaraffia, con approccio distaccato e chirurgico.

Da che cosa nasce questo saggio?

«Dalla scoperta che l’unico dei Dieci comandamenti che ha cambiato formulazione è il sesto, ed è quello che riguarda il comportamento sessuale. Ha smesso di essere “Non commettere adulterio” ed è diventato “Non commettere atti impuri”. Il cambiamento è avvenuto nel Cinquecento e solo nel 1992 è tornato alla formulazione originale».

Qual è lo scopo del libro?

«Trovare le radici dell’atteggiamento della Chiesa di fronte agli abusi sessuali. La Chiesa ha dimostrato una grande difficoltà a risarcire le vittime. Anzi, ancor prima, ad accettare che esistano. Il suo sguardo è concentrato sul colpevole, che diventa peccatore in quanto ha trasgredito il sesto comandamento».

Perché preferisce la formulazione: «Non commettere adulterio»?

«Perché allude a una rete di rapporti sociali. Allude alla rottura di un legame di fiducia all’interno di una famiglia e di una comunità».

Non rischia di essere ripetitiva del nono comandamento: «Non desiderare la donna d’altri»?

«Certo. Però l’adulterio è un fatto, una realtà che avviene e danneggia i rapporti sociali. Quello trattato nel nono comandamento è un peccato di intenzione e di desiderio».

Che ha una radice nel vangelo di Matteo: «Chi guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio in cuor suo».

«Perché, in realtà, i desideri tendono a realizzarsi».

La formulazione è cambiata quando è insorta la variegata casistica di trasgressioni che riguardano la sessualità e il rispetto del corpo «tempio di Dio»?

«La formulazione diventa “Non commettere atti impuri” quando l’attenzione si sposta solo sull’individuo che compie l’atto e la sessualità trasgressiva comincia a essere concepita come impurità. Quindi, il colpevole peccatore deve tornare puro. Non conta nulla la persona con cui ha commesso l’atto».

Un cambiamento di prospettiva importante.

«Fino all’epoca moderna la Chiesa controllava anche l’ordine pubblico, garantendo che nelle comunità non prevalesse la violenza. In quest’ottica i peccati più gravi erano l’ira, la superbia e l’invidia perché innescavano azioni di sopraffazione. Invece, con la nascita degli Stati nazionali, sono le istituzioni statali ad assumere il compito di garantire l’ordine pubblico. A quel punto la Chiesa si preoccupa di consolidare il suo unico ambito di supremazia, che è quello del comportamento sessuale e delle relazioni private».

«Non commettere atti impuri» equipara l’adulterio, la contraccezione, la masturbazione, l’omosessualità, la pedofilia, la prostituzione. Come si poteva formulare un comandamento per ognuno di questi peccati?

«Il problema è che vengono messi sullo stesso piano peccati che non diventano violenza verso altri, come la masturbazione e la prostituzione, e azioni come l’abuso e lo stupro nelle quali ci sono delle vittime».

L’errore è aver inglobato lo stupro e gli abusi, la violenza sul partner non consenziente?

«La Chiesa non mostra attenzione alla questione del consenso che oggi è diventata centrale nel giudicare le trasgressioni sessuali».

La Chiesa si preoccupa della conversione del cuore. Gli effetti sulla vittima e la riparazione delle conseguenze delle azioni del peccatore sono il terreno della carità e dell’azione pastorale?

«L’unico comandamento che Gesù ha lasciato è “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi”. Questo è l’unico comandamento della tradizione cristiana. La conversione del cuore deve comprendere anche la carità e la responsabilità verso gli altri. È fondamentale per un cristiano. Questa definizione del peccato deriva da una concezione maschile della sessualità».

Perché?

«Perché per gli uomini esiste una forma di piacere anche in un rapporto di abuso e stupro, mentre per le donne no. Il sesto comandamento e il diritto canonico considerano la vittima come complice, anche se non volontaria, della trasgressione. Perché è un piacere impuro al di fuori del legame matrimoniale, l’unico accettato dalla morale cristiana».

Non riesco a vedere in che modo la Chiesa consideri complice nel piacere il non consenziente.

«La vittima non viene considerata tale. È solo una persona coinvolta nella trasgressione del sesto comandamento».

Queste debolezze attraversano parti consistenti del clero e fanno dire ad alcuni teologi e vescovi che la soluzione potrebbe essere l’abolizione del celibato dei preti e il sacerdozio femminile. Lei cosa ne pensa?

«Penso che non è una soluzione magica. Sappiamo che gli abusi avvengono anche nelle famiglie e con uomini sposati. Però nel matrimonio c’è una donna che controlla l’uomo e sta attenta a quello che combina».

Quindi è favorevole?

«Forse sì. Sarebbero meno soli, e questo è importante. Ma anche la fine del celibato avrebbe risvolti negativi. Sarebbe una soluzione a doppio taglio».

Per esempio?

«Gli interessi della famiglia potrebbero distoglierlo dalla cura dei fedeli, sia dal punto di vista finanziario che emotivo. Poi il comportamento magari trasgressivo dei famigliari potrebbe nuocere alla sua autorevolezza nei confronti dei fedeli… Lei si immagina un prete con figli drogati o bulli?».

La sessualità è il terreno nel quale i Papi sperimentano maggiore solitudine, come confermò Paolo VI ad Alberto Cavallari il 3 ottobre 1965: «Si studia tanto, sa… Ma poi tocca a me decidere. E nel decidere siamo soli…». Perché?

«Perché da quando è iniziata la rivoluzione sessuale nei primi decenni del Novecento la Chiesa si è trovata a vivere dentro una tendenza storica che promuoveva una morale opposta a quella che aveva sempre insegnato, cioè  in una situazione fortemente contraria al nuovo spirito del tempo».

È la stessa solitudine di cui ha parlato papa Francesco intervistato da Fabio Fazio a proposito dell’autorizzazione concessa alla benedizione delle coppie omosessuali contenuta nella Fiducia supplicans?

«Quella è tutta un’altra cosa. In realtà, la decisione di benedire le coppie omosessuali è stata fatta per rispondere alla una tendenza storica in atto di riconoscimento degli omosessuali. Quindi, il Papa non è solo e diverso dalla mentalità comune, ma si adegua al fluire del pensiero corrente. Caso mai è solo rispetto a gran parte della Chiesa che non approva quella decisione. È un tipo di solitudine completamente diversa».

Che cosa pensa della decisione del presidente del Dicastero per la dottrina della fede Víctor Manuel Fernández?

«Penso che non ce n’era alcun bisogno perché, in realtà, le cose sono rimaste come prima. Cioè, è sempre stato possibile per un sacerdote benedire i singoli individui, senza domandare loro se sono buoni o cattivi. Il problema riguarda le coppie, ed è stato specificato che non possono essere benedette in quando coppie omosessuali».

Cosa pensa del fatto che papa Francesco ha detto che chi critica questa dichiarazione non conosce a fondo la materia?

«Penso che l’abbia detto per difendersi dalle polemiche, ma non è vero. È un modo per impedire di criticare una dichiarazione che è nulla perché nella sostanza non fa che ribadire un’azione che già si può compiere».

Nei giorni scorsi Francesco ha detto che «il sesso è un dono di Dio»: è un passo avanti?

«No. L’aveva già detto Giovanni Paolo II nella sua teologia del corpo e nel libro Amore e responsabilità».

Lei si sofferma sulla controversa formulazione del sesto comandamento, ma papa Wojtyla l’ha riportata all’origine. Si tendono un po’ a rimuovere le innovazioni del suo pontificato, ma con lui e Benedetto XVI la Chiesa si è ravveduta, o no?

«Ravveduta non è la parola giusta. È tornata su alcuni punti rifacendosi alle origini della dottrina cristiana. Chi ha riportato alla formulazione originaria il sesto comandamento è stato l’allora cardinale Ratzinger, nel nuovo catechismo. Ed è stato sempre Ratzinger, cioè Benedetto XVI, nella lettera pastorale ai cattolici d’Irlanda del 2010, a dire che gli abusi erano stati perpetrati “contro” le vittime e non “con” le vittime, come prevedeva la formulazione precedente».

Che cosa rappresenta questo papato dopo quelli di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI?

«A me sembra che ci siano stati cambiamenti importanti come l’attenzione alla terra e all’ecologia che ha aperto una sfera nuova di impegno dei cattolici. Però, per il resto, mi pare che abbia generato molta confusione».

Ambientalismo, teoria gender, migranti: la Chiesa è troppo allineata al pensiero unico?

«Più che altro è silente rispetto ai numerosi punti in cui il  pensiero unico si allontana dalla dottrina cristiana, perché parlare la renderebbe impopolare. E il Papa ha scelto la popolarità».

Qualche giorno fa ha detto che si comporta come un influencer. L’influencer influenza scelte e comportamenti dei seguaci come fa anche un’autorità morale, o no?

«L’influencer deve cavalcare la mentalità corrente, non può mai schierarsi contro la mentalità corrente. È questo il problema».

Nel frattempo, le chiese si svuotano?

«La ricerca della popolarità di Francesco, le interviste infinite, il suo avvicinarsi al pensiero del mondo: tutto ciò non è servito ad attirare persone al cristianesimo».

È un Papa molto apprezzato da chi non è credente.

«Che rimane tale. Perché i non credenti non vedono la grande differenza tra quello che dice e quello che fa, prestano attenzione solo alle parole».

Qual è questa differenza?

«Ha sempre detto che le donne sono importanti e che bisogna ascoltarle. Ma non ha mai fatto nulla di reale per cambiare il loro ruolo nella Chiesa. Ne ha messa qualcuna qua e là, realizzando una cosmesi superficiale. Non ha mai affrontato seriamente il tema degli abusi contro le suore da parte di sacerdoti e religiosi, che sono numerosi e gravi, e comportano spesso come conseguenza l’aborto».

Da storica quale futuro intravede per questa Chiesa?

«La Chiesa deve ridefinire sé stessa rispetto al mondo contemporaneo. È un’operazione che aveva avviato papa Ratzinger, che era un grande studioso del rapporto fra Chiesa e modernità nella sua accezione più alta. Penso che valga quello che ha profetizzato lui: rimarranno pochi cattolici, ma di grande qualità».

Il piccolo gregge?

«Da cui ricominciare».

 

La Verità, 20 gennaio 2024

«Contro gli stupri il vero argine è il ruolo del padre»

Tostissima e dalle idee chiare, Maria Rachele Ruiu è mamma e moglie, counsellor laureata in psicologia, attivista dei diritti umani, in particolare vita, famiglia e libertà educativa, membro del direttivo di Pro Vita & Famiglia e del Family day. Quando parla scolpisce.

Qualche giorno fa l’ho vista molto agguerrita in tv all’Aria che tira estate sul tema degli stupri di gruppo. Che cosa la motiva in particolare?

«Mi motiva il fatto che questa società è schizofrenica: si parla molto della violenza contro le donne, ma solo in modo ideologico».

In che senso?

«Per esempio, in occasione dell’8 marzo il movimento “Non una di meno”sponsorizza la prostituzione chiamandola sex worker mentre è stupro a pagamento, nicchia sulla pornografia che è prostituzione filmata e ammicca a siti come Onlyfans».

Accuse pesanti, che nesso hanno con gli stupri di gruppo?

«Questa cultura aumenta l’oggettivizzazione della donna. L’8 marzo è solo la più eclatante di tante occasioni. Quando sono ancora piccole, alle nostre figlie viene insegnato che è un bene mostrarsi sexy, puntare sull’aspetto fisico e sui like».

La soluzione è la repressione?

«Studi scientifici indicano che ciò che viene chiamato online disinhibition effect, determinato dalla costante esposizione a immagini fortemente sessualizzate, alla pornografia e a certe scene dei reality, riduce il grado di empatia verso le vittime di stupro e aumenta l’accettazione della violenza contro le donne. Quando sono sessualizzate, le donne vengono percepite attraverso le sinapsi che si usano per gli oggetti».

Lo stupro di gruppo di Palermo e quello di Caivano: perché i nostri adolescenti agiscono così?

«Io vedo due cause. La prima è che si ripete che vietare non è educare. Gli adulti stanno rinunciando a equipaggiare i ragazzi e a fornire loro gli strumenti per comprendere chi sono e che cosa fanno al mondo. La seconda causa è il cocktail maledetto di cellulari e pornografia».

L’altro giorno Giorgia Meloni è andata a Caivano su invito di don Maurizio Patriciello: è il disagio sociale la causa principale di questi comportamenti?

«Abbiamo visto che, in realtà, le cause sono socialmente trasversali, perché a Palermo il branco non era composto da appartenenti alle fasce povere. Detto questo, serve il coraggio di spendersi per gli ultimi. Caivano è un posto terribile, abbandonato, come ripete don Patriciello. Il premier ha fatto bene a coinvolgersi, mostrando disponibilità al sacrificio e l’idea che sono sacre anche le vite di coloro che vivono nelle periferie più estreme».

In questi anni la famiglia ha abdicato al compito di porre dei limiti?

«Più che aver abdicato, è stata distrutta. Ma la bella notizia è che proprio la famiglia è la soluzione di questa crisi. Per esempio, un fattore protettivo imprescindibile contro la sessualità malata è la figura del padre».

Completamente rimossa.

«Le ricerche scientifiche confermano che migliore è il rapporto tra padre e figlio e la loro comunicazione sui temi della sessualità, più i ragazzi imparano ad astenersi da attività impulsive e comportamenti a rischio e sviluppano maggiore controllo del livello di eccitazione. Un padre che supporta la propria compagna, ecco la famiglia, aiuta la figlia femmina a cercare nelle relazioni romantiche l’intimità e il sostegno emotivo senza ricorrere alla sessualità per ottenerlo. Una relazione stabile tra marito e moglie aiuta gli adolescenti e le adolescenti a dare il giusto valore alla fedeltà e alla responsabilità nei rapporti».

Anche la scuola ha abdicato ai suoi compiti?

«Spesso nei programmi scolastici di educazione sessuale i ragazzi vengono confusi dall’ideologia gender. Ancora più spesso si spiega ai ragazzi come trarre piacere dal corpo dell’altro con contenuti permissivi espliciti, contrari ai convincimenti di molte famiglie. In tutto il mondo occidentale questi programmi, presentati come educazione sessuale Cse (Comprehensive sexuality education ndr), insegnano a ricorrere al preservativo o all’aborto e puntano a normalizzare la pornografia. Il problema è che non sono efficaci».

Come fa a dirlo?

«In Svezia, in Norvegia e in Olanda, dove sono applicati da più tempo, i crimini sessuali sono aumentati. Un recente report del governo norvegese si chiede come ciò sia possibile dopo i tanti fondi spesi in questi programmi».

L’educazione sessuale dovrebbe partire più da lontano?

«Bisogna tornare a educare alla libertà e all’amore. Libertà di scegliere il bene, sapendo che, a volte, questo significa rinunciare. Libertà di amare è anche fare spazio all’altro, sacrificarsi per l’altro. Cioè, in sintesi, renderlo sacro. Con le dovute accortezze, provo a educare così i miei figli che hanno 5 e 3 anni. Bisognerebbe aiutare i genitori a comprendere che non esiste un’educazione sessuale che non contempli anche prudenza e astinenza. E, per contro, che ne esiste una molto diffusa fatta di disvalori. Che è, ultimamente, diseducazione».

Si parla dei pericoli generati dalla pornografia, che però c’era già nelle riviste dal barbiere e nei cinema a luci rosse.

«Anche sui vasi etruschi compaiono scene pornografiche».

Quindi?

«Non spetta a me cambiare il cuore dell’uomo che ha anche questa spinta verso la lussuria. Ma intanto dobbiamo sapere che la pornografia è sempre più violenta. Lo dice anche Rocco Siffredi. Grazie al combinato disposto cellulari-siti porno, per cui con il grooming i bambini incappano nel primo video senza cercarlo, la pornografia sta diventando un’emergenza infernale».

Perché?

«Perché provoca dipendenza per cui bambini, ragazzi e adulti si ritrovano a cercare stimoli sempre maggiori, finanche video pedopornografici, come denuncia da tempo don Fortunato Di Noto».

Oggi il materiale pornografico è più sofisticato, diffuso e accessibile di un paio di decenni fa?

«Si è passati dalla proliferazione alla normalizzazione della pornografia sempre più violenta».

Rocco Siffredi la pensa come il ministro Eugenia Roccella?

«Rocco Siffredi approfitta dell’invito del ministro a frenare la diffusione della pornografia per normalizzarla. Va ripetendo che non si deve demonizzarla, forse per eliminare qualche concorrente».

Ha detto che è disposto a chiudere il suo sito.

«Non l’accademia e i laboratori».

Anche Luce Caponegro, l’ex pornostar Selen, concorda sulla necessità di controllare l’accesso ai siti porno.

«Mi auguro che si arrivi a vietarli veramente ai più piccoli. Noi come Pro Vita & Famiglia abbiamo fatto una campagna per avere misure di verifica dell’età online più restrittive. Ma l’Agcom ha applicato la norma approvata nella scorsa legislatura solo per i servizi telefonici rivolti ai minori, ignorando che la maggior parte di loro ha i piani tariffari degli adulti e svuotando così l’efficacia della norma sul parental control».

All’estero come si comportano?

«Paesi come Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna e Belgio stanno correndo ai ripari e regolamentando l’accesso a internet perché si sono accorti che contro l’impero dell’hard l’autodifesa casalinga non basta».

Approva che Rocco Siffredi vada nelle scuole a dire che le riprese porno sono alterate da iniezioni dopanti?

«Mi ha colpito il suo racconto sulle attrici che vengono anestetizzate per poter recitare in quelle situazioni estreme. Siffredi ha detto pubblicamente di essere dipendente dal sesso, mi domando come possa essere credibile la sua testimonianza. Sarebbe come se un drogato che fa ancora uso di stupefacenti andasse nelle scuole a dire: drogatevi, ma sappiate che fa male. Non è che sapere che la pornografia è finzione blocchi il processo della dopamina e della dipendenza quando se ne fruisce. Vorrei che nelle scuole andassero le ex pornostar pentite e gli ex dipendenti dal porno che hanno distrutto la loro vita, le loro relazioni, il loro corpo a causa della pornografia».

Cosa pensa delle parole pronunciate da Andrea Giambruno su Rete 4 che, pur deplorando la violenza, ha invitato le ragazze a non ubriacarsi per poter fronteggiare i pericoli?

«Sono parole banali: qualsiasi genitore invita figli e figlie a non stordirsi e a rimanere lucidi quando sono fuori di notte».

Come mai è stato molto contestato?

«Perché è il compagno di Giorgia Meloni. Ha semplicemente detto: ragazze restate lucide e prudenti».

Si colpevolizza sempre la donna?

«Non ha colpevolizzato nessuno. Non ha detto che chicchessia ha diritto a sfiorare una donna se ubriaca, ma ha invitato le adolescenti e anche le adulte a non perdere il controllo di sé e della situazione in cui si trovano».

Non è un ragionamento del tipo «la donna se l’è cercata»?

«Non l’ha detto, hanno provato a farglielo dire».

Concorda con Giovanni Valentini che sul Fatto quotidiano, studi alla mano, ha evidenziato la relazione tra ricorso all’alcol e alle droghe e maggior vulnerabilità nelle situazioni di pericolo?

«Certo, basta il buon senso per ammetterlo. Quando si è ubriachi o sotto effetto di sostanze o nudi su Instagram si è più fragili e non ci si può esporre alla vicinanza di certi maiali. Questo non vuol dire che te la sei cercata. Preferisco non andare da sola alla Stazione termini di Roma dopo mezzanotte perché se mi derubano non è giusto e non me la sono cercata: ma se ci vado con mio marito è più facile che non accada».

Ha letto il libro del generale Roberto Vannacci?

«No, ho letto alcuni stralci e alcune interviste».

Perché ha scatenato questo putiferio?

«Perché non è politicamente corretto e oggi non siamo abituati a posizioni così schiette. Personalmente, alcune cose le avrei scritte in modo diverso e su altre non concordo. Però penso sia importante difendere la libertà di espressione di chiunque. Soprattutto perché siamo in una società in cui si possono scrivere bestialità contro la famiglia, contro i cristiani e si può dire che si odiano i bambini solo perché bambini».

Anche lei vede un mondo al contrario?

«Un posto dove, per esempio, elogia Siffredi che dice che il porno è normale e crocifigge Giambruno per una raccomandazione come quelle che facevano le nostre mamme è un mondo al contrario. Vannacci è osteggiato perché ha toccato temi intoccabili come il gender, la famiglia, e l’ideologia Lgbtq+».

Perché Carlos Santana ha dovuto ritrattare la dichiarazione, fatta a un concerto, che un uomo è un uomo e una donna è una donna?

«Perché c’è il pensiero unico della cultura woke che nasconde gli interessi economici delle case farmaceutiche e delle cliniche che operano gli adolescenti per la transizione, facendo soldi a palate sulla pelle dei più fragili».

 

La Verità, 2 settembre 2023

La sofisticatezza di Guadagnino sa d’ideologia

Spiace, ma tocca dissentire. Dagli osanna diffusi, dai cori entusiastici, dagli ooohh di meraviglia. I media si sono sperticati: «Una serie mozzafiato» (Vanity Fair), «Un affresco vivente e finemente dettagliato» (The New York Times), «Sbalorditiva, a dir poco bellissima» (Rolling Stone), tanto per citare qui e là. Purtroppo no, non condivido tanta esaltazione. We are who we are – Siamo ciò che siamo di Luca Guadagnino l’ho trovata irritante e indisponente. Non solo per ciò che racconta. Soprattutto per l’operazione ideologica che contiene. Per il modo di fare cinema e televisione. Scientificamente intellettuale, astratto, programmaticamente altero. Un modo che, intervistato da Marco Giusti per Dagospia, il regista di Chiamami col tuo nome ha spiegato citando Bernardo Bertolucci: «Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà». Tutto chiaro, no? Lo spunto dell’opera non è la vita, ma la nostra idea, la nostra pensata per il cinema. Che, attraverso esercizi di stile più o meno riusciti, porta a narrare qualcosa che ci sta a cuore.

Una coppia di lesbiche con figlio al seguito precipitata dentro una base militare: non è una bella pensata? Non è un’idea pittoresca? Che dà la sveglia a un ambiente retrogrado come quello dell’esercito, sebbene americano. Credevate che i battaglioni dei marines fossero uno degli ultimi posti dove il bianco e nero sono ancora tali senza troppe sfumature e distinguo? Vi sbagliate. Ecco una bella centrifuga di opposti che fa saltare il banco delle convenzioni e dimostra che il mondo gender è avanti e i militari sono indietro. Che la fluidità e la scelta di genere sono il futuro e la famiglia tradizionale opprime le libertà ancor più delle gerarchie dell’esercito. È la trovata di Guadagnino per We are who we are, otto episodi in onda su Sky Atlantic (coprodotti da Sky e Hbo con The Apartment di Wildside, entrambe del gruppo Fremantle, e Small Forward) tra gli applausi generali della critica mainstream.

Unghie smaltate, capelli ossigenati, abbigliamento queer e auricolari perennemente innestati nelle orecchie, il protagonista Frazer (Jack Dylan Grazer) si aggira irrequieto tra gli edifici dell’enclave militare citando poeti sparsi. Siamo nel 2016, durante la campagna per le presidenziali americane, e la di lui madre (precedente matrimonio, inseminazione artificiale o maternità surrogata?), interpretata da Chloë Sevigny, è il nuovo capo della base, accolto con evidente disappunto dall’ufficiale nero e trumpiano (Kid Kuli), uso a tirare di boxe con la figlia Caitlin (Jordan Kristine Seamon), coetanea di Frazer.

La pensata è astrusa e artificiale, ma la trama è costruita ad arte. Con simili genitori, infatti, non è difficile immaginare che Frazer e Caitlin abbiano qualche problema di identità e finiscano per familiarizzare, scambiandosi vestiti, confidenze sulla loro irresolutezza, condividendo il rasoio per tagliare la prima peluria sopra le labbra. È questa indeterminatezza sessuale con le sue sfumature miste tra mascolinità e femminilità il centro della storia. Una volubilità per la quale, tanto per rendere la complicazione della vicenda, si è coniato l’ossimoro «normalità trasgressiva».

Nell’intervista citata Guadagnino ricorre spesso all’aggettivo sofisticato e precisa che la sua «arte è far sembrare improvvisata una serie ultra-scritta». Stia tranquillo, nessuno l’aveva sospettato. E non solo perché, tra gli sceneggiatori, oltre a Francesca Manieri c’è il premio Strega Paolo Giordano. Ma perché tutto, dall’idea di partenza fino all’ultima ripresa, è evidentemente studiato. In una scena del terzo episodio, la madre-comandante flirta con il suo attendente sul quale ha poco prima riflettuto a voce alta: «È il mio tipo, ma non il mio genere». Stupito, Fraser osserva poco distante insieme a Caitlin, tagliata a metà dall’inquadratura. Chi è davvero colpito dalla stranezza della madre è lui. We are who we are è questo esercizio di ambiguità e doppiezza, reso anche dai movimenti della cinepresa, senza mai un centro riconoscibile. Provvisorie e oblique le riprese, sfalsate le voci rispetto ai volti. Spesso qualcuno parla, pensa a voce alta senza comparire. L’effetto è un senso d’instabilità, volubilità, fuggevolezza. Oltre che nell’abbigliamento e nel minimalismo da bidet, la fluidità è resa dall’assenza di un fulcro visivo. L’occhio del regista rallenta sugli indumenti raggrumati a bordo piscina, sulle bottiglie di birra e di whisky vuote e sui posaceneri pieni dopo lo sballo post matrimonio improvviso e improvvisato tra il milite in partenza per la missione e la bella del posto. Quella parte di Laguna popolare che rimane sullo sfondo della storia. E dove, volendo fare un bagno di realtà, la sofisticatezza di Guadagnino probabilmente risulterebbe in tutta la sua artificiosità. Chissà che cosa direbbero gli avventori di un’osteria di Chioggia o i pescatori del porto di una coppia di lesbiche con figlio in una base militare americana.

 

La Verità, 20 ottobre 2020