Tag Archivio per: share

Amadeus, il finto buono pronto a tutto per lo share

In realtà, i finti buoni sono tremendi. Furbetti, maliziosi, determinatissimi. Per un punto di share metterebbero il proprio figlio adolescente in prima fila all’Ariston a godersi la pomiciata tra un rapper che viene dai centri sociali e gira in Lamborghini e un ex graffitaro e modello di Gucci che canta vestito da donna. E se al ragazzo cresce la disforia di genere, pazienza. Quello che conta è il risultato. Bisogna sempre migliorare. Superarsi. Ama(poco)deus ex-machina lo sa bene. Un Festival dopo l’altro. Il terzo più del secondo e il quarto più del terzo. Purtroppo arriverà anche il quinto. E poi chissà.

«Nella vita, al di là dei festival, dipende tutto dal risultato», ha teorizzato nella conferenza stampa di chiusura. «Se si ottengono questi risultati hai una forza. Se avessi fatto il 15-20% in meno sarei un allenatore esonerabile. Qualsiasi allenatore è forte finché la squadra vince, se la squadra perde anche i più grandi sono a rischio esonero. Ecco perché devo portare quello che sento, bisogna sbagliare con le proprie idee». Il pluridirettore artistico di Sanremo, con moglie perennemente al seguito, non si pone limiti. Colpa anche dei vertici Rai. Se dai troppo potere a un solo artista facile che si pensi un supereroe. Sembra preistoria la perculata di Checco Zalone: «Grazie a nome di tutti gli italiani, tu Amadeus ci fai sentire dei geni». Dopo che nel terzo è riuscito a emanciparsi da Fiorello, il quarto Festival di fila ha completato la metamorfosi. Da conduttore a condottiero. Quest’anno Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna, gavetta nelle radio locali e a DeeJay prima di sfiancarsi nella spola Mediaset-Rai, ha replicato senza giri di parole al vicepremier Matteo Salvini, al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, ai politici di Fratelli d’Italia, autoinvestendosi di un compito che sarebbe toccato a qualche dirigente. Un cambio di ruolo. Un’autopromozione.

Sul palco, invece, nello spasmodico inseguimento dello share, ha confezionato un Sanremo grondante politica. Infarcito di messaggi obliqui. Come quello ordito la prima sera da Roberto Benigni alla presenza di Sergio Mattarella e indirizzato alla premier: cara Giorgia Meloni, se vuoi fare il presidenzialismo devi passare sul nostro corpo. E di altri più espliciti. Come quello che si è inverato nella soave slinguazzata di cui sopra. «Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo, una donna che ama una donna: è normale, l’amore non ha etichette. E questo va portato ovunque, anche nello spettacolo», aveva argomentato nei panni di guru del Festival di Zan Remo. C’è la fascia protetta per proteggere i minori? Quella vale per impedire ai bambini dell’innocente coro di Mr. Rain di esibirsi dopo la mezzanotte. Non al pubblico infantile di assistere alla twerkata del rapper in abiti femminili sul pacco del marito di Chiara Ferragni.

In realtà, i finti buoni sanno andare al sodo. Le regole sono fatte per essere piegate a proprio piacimento. Se c’è da invitare il capo dello Stato all’Ariston la trattativa la conducono il pluridirettore artistico e il suo agente Lucio Presta (lo è anche di Benigni e Morandi, il prossimo è Mattarella?), scavalcando l’amministratore delegato Carlo Fuortes, la presidente Marinella Soldi, il direttore dell’Intrattenimento prime time Stefano Coletta e il cda al completo. Se c’è da lasciare Fedez prendere a pesci in faccia mezzo governo ci si trincera dietro il rispetto della libertà artistica. Infine, a forza di mitragliare Festival, Ama(poco)deus ex-machina ha disimparato anche a fare la scaletta, confinando dopo l’una di notte il monologo di Chiara Francini, il migliore e il più originale tra tutti quelli che, invece, hanno incantato il demi-monde di riferimento.

Più che mai quest’anno, il segreto del successo è stata la quantità. L’espansione. L’occupazione sistematica di tutti gli spazi. Dai telegiornali ridotti a newsletter ai megaschermi di Urban vision nelle grandi città che trasmettevano la diretta delle serate. Orizzonte ingombrato. Un Leviatano mediatico capace di triturare qualsiasi ostacolo, con la compiacenza dell’informazione mainstream al completo. Peccato che, a forza di fare lo «swiffer delle polemiche» come dice Fiorello, non abbia ancora imparato a gestirle. Prendete la faccenda delle foibe. Amadeus/1 ha risposto che «ci sono tante ricorrenze, non possiamo commemorare tutto». Poi, pur di non dare l’impressione di piegarsi ai politici di destra, Amadeus/2 ha detto che il ricordo «era già previsto».

Adesso per lui qualcuno ipotizza un cambio di passo. Nella disperata ricerca di figure carismatiche, c’è chi lo vede in politica. Che poi, carisma… Amedeo Umberto Rita Sebastiani da Ravenna è un medio man, un normal one. Però «la sinistra riparta da Sanremo», ha twittato qualche sagace commentatore. «Ora che avevamo trovato come fare opposizione il Festival è finito».

In realtà, i buonisti sono spietati. Con gli altri, s’intende. Quelli che non li elogiano, non li lisciano. Avete presente Fabio Fazio? Più che Baudo, è lui il suo modello. Dietro la patina un po’ untuosa da bravi ragazzi, c’è gelido zinco. Intoccabili. Se si dissente, cliccano sulla consolle e parte la recita da martire. «Se mi mandano via me ne vado», ha detto sperando nella sollevazione popolare. Se se ne va, magari l’opposizione trova un leader, i telespettatori ridono, la moglie sempre al seguito piange e in Rai si devono mettere a lavorare. Perché in questi anni gli hanno appaltato mezzo palinsesto.

 

La Verità, 14 febbraio 2023

Berlinguer batte Floris, il sovranismo fa ascolti

Il fuoco di sbarramento preventivo è già partito. Matteo Salvini occupa la tv, bisogna mettergli un freno, una museruola, transennare i talk show. Le sardine mediatiche sono già al lavoro, basta vedere Il Fatto quotidiano di oggi, con i titolari dei programmi di approfondimento ad analizzare, spaventati, salvo Paolo Del Debbio e Massimo Giletti, il fenomeno. Il fatto è che il leader leghista porta ascolti, fa lievitare l’audience e, dunque, conduttori e conduttrici sono più che mai interessati a invitarlo. Ieri sera #cartabianca, che aveva ospite il segretario della Lega, ha superato DiMartedì di un punto di share (5.4% contro il 4.5, 200.000 spettatori in più), battuto anche da Fuori dal coro (4.6% e 840.000 spettatori, grazie al geniale ring tra Mario Giordano e Vittorio Sgarbi), da qualche settimana terzo incomodo emergente nella Champions dei talk show del martedì sera. Dicono da La7 che il motivo del sorpasso potrebbe dipendere proprio dalla partita di Champions League, quella vera tra Juventus e Atletico Madrid, trasmessa da Canale 5 e che, siccome il pubblico di La7 è più maschile, eccetera. In realtà, è prevalentemente maschile anche il pubblico di Raitre e la partita di Champions, quella vera, c’è stata tante altre volte senza che si sia verificato alcun sorpasso. Anzi, il successo di Bianca Berlinguer su Giovanni Floris è assai sporadico, 7 volte su 102 da quando si confrontano: due volte nella stagione d’esordio (2016-2017), tre volte due anni fa e una sola lo scorso anno. Più ieri sera.

E allora? Allora è semplice: Berlinguer ha ospitato Matteo Salvini per un’intervista durata più di un’ora. A fare da contraltare, Luca Telese, Mauro Corona collegato da Venezia, e un operaio della Embraco in cassa integrazione a 700 euro, con moglie e due figli a carico, che ha terminato il suo intervento citando il padre della conduttrice, Enrico.

Le partite delle italiane erano ben avviate e quindi era più interessante vedere come se la cavava il «Capitone» (Dagospia) a parlare di femminicidi e a commentare lo studio Istat dal quale, secondo percentuali rilevanti, emerge che le donne molestate o violentate, un po’ se la sono cercata. O come riusciva a giustificare l’uscita spericolata sulla droga che fa male (vero!), a margine della sentenza che ha condannato i carabinieri per la morte di Stefano Cucchi.

Dall’altra parte, sulle casse di legno di Floris c’erano Paolo Mieli e in collegamento Carlo Calenda… Vabbè. Salvini rispondeva alle domande di Berlinguer in tono pacato, nel suo maglioncino a Vu grigio. Parlando della comunicazione del «Capitone», il linguista Massimo Arcangeli ha notato: «Salvini ha portato all’ultimo stadio il linguaggio della politica della Seconda repubblica. Prima erano i cittadini che si immedesimavano nei politici, ora sono i politici che giocano a fare i cittadini comuni. Quando Salvini si mostra in boxer in spiaggia o si fa ritrarre sulla copertina di un settimanale a torso nudo con la cravatta dice agli italiani “sono uno di voi”».

Televisivamente parlando, la morale è che il sovranismo funziona. Ne sanno qualcosa proprio Retequattro e La7. La faccenda è semplice: quando ti sintonizzi su Otto e mezzo e per la decima volta vedi Gianrico Carofiglio, Massimo Giannini e Andrea Scanzi discutere di sardine e di Salvini fascista, il pollice corre al telecomando. E anche se Stasera Italia non ha tra i suoi ospiti Mina e Donald Trump, almeno può vantare un parterre più variegato e colorito. Allargando l’osservazione i dati sono chiari: spalmando Salvini e, a volte, anche Giorgia Meloni nei suoi talk di prima serata, Retequattro sta incrementando gli ascolti (+0.7% in questo autunno rispetto allo stesso periodo del 2018) proprio mentre La7 cala (-0.3%). La rete di proprietà di Urbano Cairo si sta lentamente sclerotizzando su un target troppo stretto, colto, di sinistra, piuttosto avanti negli anni? Qualcuno, però, forse comincia ad accorgersene: stasera Enrico Mentana condurrà, a sorpresa, uno speciale di Bersaglio mobile intitolato «Le tenebre di Bibbiano».

 

Montalbano, artigianato televisivo di pregio

Montalbano, che boom. Al ritorno dopo qualche stagione di assenza, l’episodio intitolato «Il covo di vipere» ha frantumato ogni record registrando su Rai 1 lo share astronomico del 40,8% (10,6 milioni di telespettatori). Roba da Festival di Sanremo o da match della Nazionale. Merito del dosaggio, il vecchio segreto del farsi desiderare. Merito anche della qualità del prodotto. Il Commissario Montalbano è artigianato televisivo. Ogni episodio un pezzo unico, come certi oggetti numerati. Niente d’industriale. Di standardizzato. Di seriale, verrebbe da dire. Artigianato di pregio. Sulle qualità della fiction tratta dai romanzi di Andrea Camilleri e prodotta dalla Palomar di Carlo Degli Esposti si sono esercitati i migliori analisti e le migliori penne della pubblicistica nostrana.

Montalbano e Fazio con la Tipo blu

Montalbano e Fazio con la Tipo blu

Montalbano, che Tipo. Con l’iniziale maiuscola, ma anche minuscola: e forse le due faccende sono una sola. Il commissario più amato dagli italiani si muove ancora con una Fiat Tipo. Particolare secondario, ma significativo. La Tipo lo rende un tipo ben più che uno stereotipo. Di quelli che vanno di moda nelle campagne pubblicitarie. Avete presente: «Sveglia, caffè, ti alleni, giacca…»? Quella di «Montalbano sono» è una vecchia Tipo blu per l’esattezza, e verrebbe da scrivere bleu, tanto è vintage. È un’auto che ha più di vent’anni, essendo stata prodotta tra il 1988 e il 1995, e da qualche mese circola il nuovo modello. Sarà un caso che proprio nei break di lunedì imperversava lo spot dell’ultima versione con super rottamazione e prezzo stracciato? E sarà un caso che, a un certo punto, quando Montalbano-Zingaretti, ovviamente per ragioni investigative, esce a cena con la bella Giovanna (Valentina Lodovini), alla sua Tipo si affianca una 500 X di gran lunga più trendy? Se qualcuno ne dubitava, la casa madre non è rimasta ferma all’epoca in cui cadeva il Muro di Berlino e l’euro era fantascienza. Ora si stenta a dire se quella del commissario sia Euro 2 o 3 o, più probabilmente, non contempli nemmeno questo genere di parametri. A Vigata, più che le polveri inquinanti, di sottili ci sono certe lame che di tanto in tanto fanno secco qualche povero diavolo, e le targhe alterne sono un grattacapo sconosciuto. Dunque, la Tipo dell’antidivo Salvo non può essere che un filo sgangherata, e con i cerchioni ammaccati. Dicono: «Montalbano fa grandi ascolti perché è rassicurante». In realtà, è molto di più. E noi telespettatori alla fine riusciamo a invidiare persino una Tipo blu senza chiusura centralizzata e finestrini elettrici. Vero status symbol al contrario, sinonimo d’indipendenza dalle mode, del farsi i fatti propri, di modi spicci ma giusti. Montalbano vive in un tempo e in un posto sospesi tra sole, mare, una schietta cucina mediterranea e se ne frega della contemporaneità. Anzi, proprio l’inattualità è uno dei segreti della fiction. Altro che suv che scalano tornanti impervi o crossover che sfrecciano tra i ghiacci. Del sistema uconnect e dei portelloni che si aprono con un battito di ciglia Salvo se ne strabatte i cabbasisi. A Vigata le strade sono semideserte, i semafori non esistono, nelle indagini si sconfina spesso in campagna e il doppio bluetooth sarebbe francamente superfluo. Per la verità, serve pochino anche il cellulare. In casa, più spesso in terrazza, il commissario usa un avveniristico cordless, in ufficio un fisso, e dello smartphone non s’intravedono nemmeno gli antenati.

Luca Zingaretti con Valentina Lodovini in «Un covo di vipere»

Luca Zingaretti con Valentina Lodovini in «Un covo di vipere»

Montalbano, che invidia. Quanti vorremmo vivere come lui. Sarà questo, insieme a certi scabrosi sconfinamenti incesto compreso, un altro dei segreti degli ascolti astronomici? Fa il lavoro che gli piace, mangia dorme e ogni tanto quella terza cosa con l’eterna e poco ingombrante fidanzata. Invidia, dunque. Anche per il vivere con lentezza. Per il tempo sospeso e a basso coefficiente di stress. Per i ristoranti in riva al mare con i tavoli sempre liberi. E per le nuotate nell’acqua trasparente e tutta per lui. Come le strade.

 

 

L’ambizione dei «Medici» e quei dialoghi da rivedere

Era ora che la Rai tornasse a pensare in grande e che ritrovasse l’ambizione di un progetto internazionale. Era ora che almeno provasse a rompere il cerchio di medici in famiglia, preti detective e commissari antimafia e a gettare il racconto oltre la routine. Cast, budget, sforzo produttivo, riprese in esterni sono alla base dei Medici – Masters of Florence, nuova serie in otto episodi con la quale la tv pubblica torna a guardare al mercato mondiale (Rai 1, martedì ore 20.30). Lo share del 29,9 per cento medio nei primi due episodi è la prima nota lieta, la seconda è che la storia ha attratto parti consistenti di pubblico giovane: un terzo dei maschi tra i 15 e i 19 anni e quasi la metà delle ragazze da 15 a 24.

Cosimo de' Medici (Richard Madden) con la Contessina de' Bardi (Annabel Scholey)

Cosimo de’ Medici (Richard Madden) con la Contessina de’ Bardi (Annabel Scholey)

L’ambizione, dunque: di competere con la grande serialità straniera e con saghe familiari storiche come I Borgia o I Tudors. Dustin Hoffman e Richard Madden saranno stati sedotti da questo obiettivo. Le firme erano importanti. Lux Vide e Rai Fiction (produttrici insieme con Big Light Productions e Wild Bunch Tv) sono riuscite a ottenere i permessi per girare nei luoghi originali e bisogna riconoscere che l’ambientazione nella Firenze rinascimentale, con cattedrale ancora priva di cupola, è protagonista della storia quanto Giovanni de’ Medici (Hoffman) o il figlio Cosimo (Madden). Oltre al tentativo di valorizzare la scenografia, altro sforzo riconoscibile è l’impegno a raccontare un’epoca storica lontana col linguaggio della serialità più moderna. Così la saga familiare che è alla base della nascita della finanza moderna si trasforma in una lotta di potere che include passioni, rivalità, arte, corruzione della Chiesa, matrimoni combinati per sanare dissesti economici, machiavellismi vari.

Le premesse sono ottime, dunque. Purtroppo è la sceneggiatura a difettare, perdendo di definizione nei continui flashback di vent’anni in vent’anni tra la Firenze insidiata dalle mire dei Visconti e la Roma papalina di cui Giovanni de’ Medici diviene il banchiere di fiducia. Anche i dialoghi avrebbero goduto di un editing più pignolo e ci saremmo evitati espressioni come «Lei vende cicuta? La vende anche in forma liquida?» (il tuttofare mediceo allo speziale), oppure di sentir parlare di «autopsia» già in epoca rinascimentale.

In definitiva, se si può apprezzare l’ambizione e lo sforzo dell’operazione messa in campo da Rai Fiction, bisogna ammettere che per competere con il meglio della serialità internazionale c’è ancora un po’ di strada da percorrere.