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Addio alla Carrà, Grande Sorella Televisione

Raffaella Carrà, che ieri a 78 anni ci ha lasciati a causa di un male di cui pochi sapevano, trasferendosi «in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre» (Sergio Japino, annunciandone la morte), è stata una di quelle persone, rare anche nel mondo dello spettacolo, nelle quali, per una felice congiunzione degli astri, si combinano armonicamente virtù e doti che solitamente confliggono tra loro. È il tocco lieve della natura, l’impronta della grazia. Se si riflette sui doni di tanti artisti, si scopre che gran parte di loro esprimono un carattere originale, favorito da sensibilità e doni particolari e perciò rivolti a platee più raffinate o, al contrario, a pubblici più popolari. Raffaella Carrà, vero nome Raffaella Maria Roberta Pelloni, era invece l’artista di tutti. Una star globale, si potrebbe dire. Una figura universale, in grado di abbracciare l’audience più larga e composita. Nazionalpopolare e raffinata. Showgirl intelligente. Energia travolgente ma equilibrata. Ballerina, cantante, presentatrice, attrice, perfetta per i musical, mosse i primi passi con Lelio Luttazzi e con Domenico Modugno. È passata da Hollywood respingendo Frank Sinatra («Non volevo essere la pupa del gangster»). Icona pop, amata dai gay. La risata larga e contagiosa. Il caschetto biondo che si rovescia all’indietro. Il body glitterato. Il ballo trascinante, spesso su motivi orecchiabili. Ma che musica, maestro, Rumore, Com’è bello far l’amore da Trieste in giù, Ballo, ballo. Una presenza entrata nell’immaginario italiano, e non solo, senza mai diventare eccessiva. «Ho più paura che la gente dica: “Ancora lei!”, piuttosto che: “Dov’è andata a finire?”». All’opposto di Pippo Baudo pensava che dalla televisione bisognava saper stare lontano. Bisognava anche solo guardarla. E guardare la gente per strada, per capire meglio chi sono quelli che schiacciano i tasti del telecomando e alla fine devono scegliere te, tra tante opzioni. E così, dosandosi, sapendo sparire per anni, anche aiutata dall’ansia di prestazione (come Fiorello) e dal timore di non riuscire a mantenere i suoi standard di successo, ma poi ritornando senza però mai invadere stucchevolmente i media, riservata e persino timida, lontana dalla mondanità sebbene protagonista di storie d’amore importanti con Gianni Boncompagni e Japino, Raffa è entrata nell’album di famiglia. Compagna divertente ma sobria. Presenza affidabile. Donna che non tradisce. Una garanzia per decenni. Grande sorella della televisione: Canzonissima, Milleluci, Fantastico, Carràmba, Sanremo

Aveva vent’anni quando si presentò a un provino davanti a un compiaciuto dirigente: «Lei è fortunata. La vede quella scalinata? La scenderà ogni settimana con un abito meraviglioso e una benda sugli occhi. Nell’ultima puntata se la toglierà per annunciare i premi della Lotteria Italia». Lei lo guardò e replicò: «Grazie, ma odio le scale, in giro ci sono almeno ottomila ragazze più belle di me e questa cosa può farla chiunque. Lei forse non lo sa, ma io sono bravissima». Era questo il piglio molto emiliano di una ragazza cresciuta tra Bologna e Bellaria, nella gelateria della nonna, con una madre energica e precocemente separata. «La vita è una partita a carte e a me piace avere il mazzo in mano», rivelò in una delle ultime interviste a Malcom Pagani di Vanity Fair. Ma lei era tutto meno che la fiera delle vanità. Piuttosto: lavoro, applicazione, volontà. Da coreografa che voleva diventare s’impose come ballerina. Nel 1971, una delle prime edizioni di Canzonissima, dopo un paio di puntate il Tuca tuca con Enzo Paolo Turchi fu censurato dalla Rai. Ci volle Alberto Sordi per sdoganarlo e far ricredere anche l’Osservatore romano che aveva puntato il dito. E l’immagine dell’Albertone nazionale che le sfiora giocosamente l’ombelico è tra i fotogrammi della memoria di chi non è più giovanissimo. In un Fantastico di vent’anni dopo toccò a Roberto Benigni violare un altro tabù con la celebre scena della «patonza». Raffa stava al gioco borderline sempre con autoironia e senza mai essere volgare. Era stata confidente delle casalinghe, complice delle donne e delle massaie con quel Pronto, Raffaella? che, inventato da Boncompagni, all’inizio degli anni Ottanta aveva inaugurato la tv di mezzogiorno. Prima c’era il telescopio, adesso milioni di telespettatori erano catalizzati nel tentativo d’indovinare quanti fagioli conteneva quel vaso trasparente. Una telesagra paesana, forse. Ma anche qui, la Carrà stava al gioco senza darsi importanza, un’italiana come noi. Continuò a esserlo anche dopo la parentesi in Mediaset (allora Fininvest), un paio d’anni prima di tornare in Rai. Ma soprattutto, prima di ricominciare in Spagna. Dove scoprì il format di Carràmba!, i ricongiungimenti familiari che la fecero sciogliere in lacrime e, con lei, milioni di telespettatori che la seguivano il sabato sera. Era stato Japino a segnalarglielo, ma fu Brando Giordani, allora direttore di Rai 1, a toccare le corde giuste e convincerla, facendo incazzare il suo compagno. Ebbe grandi ospiti e grandi ascolti, nonostante un certo snobismo della critica, che la adombrò: si ricorda molto di più una critica cattiva e gratuita che un bel complimento. E ancor più si ricordano certi attacchi feroci. Come quando, a proposito della storia con Japino, di dieci anni più giovane, ci fu chi scrisse: «La bella incontra la bestia». «Furono cattivi, anzi mostruosi». Però, niente: volontà, applicazione e lavoro. Non era tipo da farsi troppi problemi nemmeno di fronte alle avance di dirigenti e produttori: la cura Carrà ara «lo smataflone, detto in bolognese. Un sonoro ceffone capace di smontare ogni ardore di sopraffazione sessuale». Quando Paolo Sorrentino le chiese il permesso di usare A far l’amore comincia tu per La grande bellezza era scettica. «Pensavo ai soliti 20 secondi in un film commerciale, non avevo capito si trattasse di Sorrentino». Ma poi quando il film vinse l’Oscar «ero gonfia come un pavone».

Quando una volta chiesero a Fruttero e Lucentini se Gabriele D’Annunzio sarebbe andato ospite della Carrà risposero: «Sarebbe lui la Carrà!».

 

La Verità, 6 luglio 2021

«Se vince il politicamente corretto addio risate»

Ebbasta co’ sto politicamente coretto. Basta, ne abbiamo le palle piene, nun se ne pò più… Sta diventando ’na patologgìa». Era una tiepida sera di fine agosto e in piazza San Cosimato a Roma si parlava di Alberto Sordi e del suo cinema nel centenario della nascita. Dopo la proiezione de Lo scapolo (1955), il regista Francesco Zippel aveva chiesto a Carlo Verdone se secondo lui era più facile fare cinema negli anni Cinquanta e Sessanta o adesso.

E lei che cosa gli ha risposto?

«Che forse era più facile allora, per tanti motivi. Innanzitutto, perché il periodo storico offriva molti spunti. Uscivamo dal dopoguerra, iniziava il boom economico, poi ci fu l’avvento del terrorismo. Sordi era stato protagonista della rappresentazione del boom. Poi, con Un borghese piccolo piccolo, tratto da un romanzo di Vincenzo Cerami, lo diventava anche dei nuovi conflitti. Il cinema di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Nino Manfredi poteva attingere alla narrativa… Piero Chiara, Ennio Flaiano, Carlo Emilio Gadda… Noi questa letteratura non ce l’abbiamo. In compenso, abbiamo un altro problema…».

Ovvero?

«Sembriamo sceneggiatori liberi e indipendenti. Invece, se diamo retta alle regole del politicamente corretto, proprio tanto liberi non siamo».

Racconti.

«In questo periodo sto scrivendo la sceneggiatura di Vita da Carlo, una serie in parte autobiografica in dieci episodi per Amazon Prime. Bene, ogni giorno con i miei collaboratori dobbiamo fermarci per qualche parola impronunciabile o qualche tabù inviolabile. È uno stillicidio. Spesso si riesce ad aggirare l’ostacolo, salvando la battuta magari un filo scorretta, ma che fa scaturire la risata. Altre volte non ci riusciamo… Questa pressione è un errore micidiale perché con l’andar del tempo faremo sempre meno ridere. Questo non si può dire perché s’incazzano quelli, quest’altro nemmeno perché s’incazzano l’altri. Ci dobbiamo continuamente autocensurare. È un fenomeno che arriva al cinema, ma attraversa tutta la società. Non c’è giorno che non resti basito per la protesta di qualcuno».

L’ultimo caso?

«L’altro giorno ho letto quello che è capitato alla popstar Adele in occasione del carnevale di Notting Hill (una tradizione londinese nata da cittadini di origine caraibica che quest’anno non si è festeggiata causa Covid ndr). Ognuno dovrebbe potersi mascherare come gli pare… Adele, che è dimagrita, ha postato una foto in bikini con i colori giamaicani e si è acconciata con le treccine. Prima si è beccata le proteste degli obesi, tipo: hai voluto dire che noi grassi siamo schiavi, non tutti hanno i soldi per il dietologo come te… Poi si sono scatenati quelli che difendono l’appartenenza culturale: con quell’acconciatura ti sei burlata della nostra etnia, ma tu sei bianca…».

Ha definito il politicamente corretto è una patologia. A quando risalgono i primi sintomi?

«Credo che tutto sia iniziato da Woman is the nigger of the world, una canzone di John Lennon e Yoko Ono del 1972. All’epoca era giusto cominciare a difendere le donne e pure mettere i puntini sulle i sul modo di chiamare i negri. D’accordo, li chiameremo in un’altra maniera: neri, colored…».

Ricordandoci che esiste anche la negritudine.

«Esatto. Il problema è che quelle istanze in partenza giuste sono state esasperate fino ad assumere toni dittatoriali».

Una dittatura che pesa molto nel cinema?

«Il Festival di Berlino ha abolito l’Orso d’argento per le interpretazioni maschile e femminile, istituendo il premio neutro-gender. Un cedimento incredibile, inventato per non offendere chi non si sente maschio o femmina. Questa è una nuova frontiera. Una mia amica progressista si è presa un pistolotto da una persona che lei aveva chiamato con il pronome she. In quanto polisessuale, si rifiutava di essere catalogata al femminile e pretendeva di essere chiamata con they. Capisce?».

L’anno scorso alla Mostra di Venezia Lucrecia Martel, presidente della giuria, contestò la presenza in concorso di Roman Polanski: i festival del cinema un tempo laboratori anticonformisti si stanno trasformando in luoghi di omologazione?

«Fortunatamente Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, ha espresso molte perplessità nei confronti della decisione del Festival di Berlino. Mi sembra che tutto nasca da un atteggiamento post femminista estremo e non dialogante. Da un moralismo proveniente dall’America talmente radicale da paralizzare l’espressione creativa».

Restando in America, il cinema di Clint Eastwood meriterebbe più attenzioni?

«È un cinema che racconta un’anima autentica di quel paese. Eastwood sembrerebbe un conservatore, e sicuramente lo è, ma ben analizzati i suoi lavori mostrano più tolleranza di quelli di altri registi schierati. Credo che la stima nei suoi confronti sia unanime o quasi».

Perché questo moralismo trova terreno fertile nella critica cinematografica?

«Perché è una critica tendenzialmente radical chic, molto intellettuale, spesso espressa da donne con qualche frustrazione. Una conseguenza di ciò che è successo al povero George Floyd è stato censurare un film come Via col vento. Sono decisioni infantili, i film vanno contestualizzati. C’è la mamy di colore… Via col vento è una bandiera di Hollywood. Con questo criterio prendiamo le opere dei futuristi e le buttiamo al macero perché alcuni degli autori simpatizzavano per il fascismo. Oppure abbattiamo i monumenti fatti erigere da Diocleziano».

Da Un sacco bello a Benedetta follia: quali scene dei suoi film sono state contestate?

«Ricordo una volta, il trailer di Io e mia sorella. Io stavo sempre al telefono al posto di Ornella Muti. Nel trailer dicevo a un suo amante che lei non era in casa, ma quando usciva dalla vasca da bagno mi subissava: come parli? T’impappini che sembri un handicappato… o uno spastico; non ricordo bene. Fatto sta che arrivò la lettera di un’associazione di portatori di handicap che minacciava denuncia. Di notte, a tempo di record, prima che il film uscisse, cambiai la battuta e mi salvai».

Certi film oggi non riuscirebbe a farli?

«Forse Viaggi di nozze, di sicuro Gallo cedrone. Il rimorchiatore che guarda il culo di una ragazza e commenta “chi te l’ha scolpito quel fondoschiena, Michelangelo? Stava in forma quel giorno”, non passerebbe il vaglio di questi censori. Per il resto sono sempre stato rispettoso delle donne. Tutte le attrici che hanno recitato con me sono state valorizzate e hanno conquistato premi e riconoscimenti».

Il politicamente corretto è una questione che riguarda il linguaggio o il complesso di superiorità di certi ambienti?

«È un moralismo da salotto, un po’ costruito, frequente in ambienti alto borghesi. Invece di dire “cameriere” o “domestico”, dicono “l’indianinio” o “il filippinetto… te lo faccio portare dal filippinetto”».

Si teme di offendere certe minoranze?

«Una misura ci vuole, ci mancherebbe. Ma se iniziano a comandare certi ayatollah addio leggerezza. Oggi la scena di “lavoratori!” de I vitelloni non si potrebbe girare».

Quindi c’era molta più libertà creativa allora?

«Erano film al maschile, là sì la donna era l’oggetto del desiderio. Se si eccettuano Franca Valeri, Monica Vitti, Mariangela Melato e poche altre, in gran parte le attrici erano prese per quanto erano belle, e spesso cornificavano. Si rideva della nostra immoralità, del nostro sbracamento sentimentale».

Scoppiò una guerra di religione per La dolce vita che portò al licenziamento di suo padre da un giornale.

«Però fortunatamente intellettuali come Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Tullio Kezich si schierarono in difesa del film e un certo bigottismo democristiano polveroso non vinse. Tutti la vedevano Via Veneto, come si poteva definire pornografia pura La dolce vita? Anche nel mondo cattolico, padre Nazareno Taddei e il cardinale Giuseppe Siri lo difesero».

Che idea si è fatto del movimento #Metoo?

«È stata una goccia che ha riempito ancora di più il vaso. Una vicenda traumatizzante. Da una parte lo appoggio perché qualcuno si è comportato molto, molto male. Dall’altra, alcune ragazze non potevano non sapere che certi produttori avevano determinate riprovevoli abitudini. Dopo le denunce delle prime, altre si sono accodate per avere risarcimenti e notorietà. Ora stiamo scoprendo che Jeffrey Epstein era peggio di Harvey Weinstein. Un attore del carisma di Kevin Spacey non può più lavorare perché ha la sfortuna di essere americano e non si è salvato nemmeno con la residenza britannica. Noi che siamo un popolo cattolico e viviamo in un Paese nel quale il Papa è seguito, abbiamo quasi santificato Pasolini».

Lei riabiliterebbe Spacey?

«Mi chiedo se sia giusto cancellare definitivamente un attore così a causa di azioni che hanno compiuto tanti altri. Tanti registi si portavano i ragazzi nello yacht. Se si legge Hollywood Babilonia non si salva nessuno. Ma quegli attori, registi e attrici non sono stati toccati, forse perché il politicamente corretto non era ancora in voga».

Alberto Sordi è la figura che l’ha maggiormente influenzata?

«Più ancora mi hanno influenzato i primi film di Fellini: Lo sceicco bianco, Il bidone, La dolce vita, I vitelloni. La messa in scena della coralità, i personaggi minori, caratteristi come Leopoldo Trieste mi hanno fatto amare presto il cinema. Credo che Fellini sia stato il più grande psicologo che il cinema abbia avuto».

Quando si è scoperto fotografo delle nuvole?

«Sono vent’anni che fotografo il cielo e metto tutto in un hard disk. Era un hobby privato. Quando Elisabetta Sgarbi ne ha letto in un’intervista e mi ha detto che voleva vederle per la Milanesiana, mi sono messo a riguardarle e gliene ho mandate venti. Ha insistito per vederne altre, le ha mandate a dei critici e alla direttrice del Museo Madre di Napoli, dove ora sono esposte. È una passione che nasce come reazione a un lavoro nel quale sono sempre in rapporto con le persone e inquadro continuamente dei volti. Qui rivolgo l’obiettivo verso l’alto, nel silenzio assoluto, da solo. Se qualcuno mi chiede dov’è la mia anima, lo invito a guardare quelle fotografie. Ci sono il cielo, le nuvole, il vento, i colori, la ricerca di Dio. Non sono immagini malinconiche, ma preghiere senza parole. Carezze».

Ci rivela un tic, un segreto, qualcosa che fa incazzare Carlo Verdone?

«Mi fa incazzare l’omologazione che avvolge i giovani. Sono tutti uguali: nei capelli, nei tatuaggi, nel gergo. Nessuno riesce a distinguersi davvero. Se oggi qualcuno volesse raccontare la cafoneria come ho fatto in Grande grosso e Verdone o in Gallo cedrone non riuscirebbe a causa del piattume generale. Poi la realtà mi ha ampiamente superato».

In cosa, per esempio?

«Certi personaggi che sembravano estremi ora sono normalissimi. Una volta all’anteprima di Viaggi di nozze Lietta Tornabuoni (storica critica cinematografica della Stampa ndr) mi venne incontro: “Film bellissimo, Carlo. Ma che esagerazione il ristorante con tutti quei cellulari che squillano”. “Vedrai Lietta, vedrai”».

Il film più bello visto di recente?

«Green book, affettuoso e pieno di grazia, con un Viggo Mortensen strepitoso. E poi Joker, con Joaquim Phoenix: nessuno ha mai interpretato così la follia».

La serie prediletta?

«Braeking beads».

Il libro?

«Durante il lockdown ho riletto Viaggio in Italia di Montesquieu, ritrovandoci ancora cose nuove sul nostro paese».

Che cosa trattiene del periodo di clausura?

«Molti miei amici sono ricorsi agli antidepressivi o agli ansiolitici. Personalmente, ho imparato a bastare a me stesso. Ne ho approfittato per sistemare il soggetto del prossimo film, scrivere la serie e ultimare il mio terzo libro».

Che s’intitolerà?

«Non ha ancora un titolo. Prende spunto dal ritrovamento di uno scatolone sigillato dal mio compianto segretario. Aprendolo, racconto fotografie, oggetti, lettere, intraprendendo un viaggio nel passato intrecciato a racconti del presente. Uscirà nel 2021».

Come Si vive una volta sola, il film rinviato a causa del Covid?

«Esatto. L’abbiamo stoppato e con Aurelio De Laurentiis abbiamo deciso di aspettare la riapertura dei cinema. I film sono fatti per uscire in sala».

Si vive una volta sola vuol dire?

«Non posso anticipare nulla perché il titolo è legato a un colpo di scena finale».

Come vede l’Italia al tempo della pandemia?

«Mi preoccupano alcune persone di governo inadeguate. Una sorte che ci accomuna alla Gran Bretagna, la Spagna, la Francia… Noi, con tutti gli errori che sono stati fatti per esempio a Bergamo e Brescia, ci siamo arrangiati. L’altra cosa che mi preoccupa è il futuro delle giovani generazioni, l’assenza di lavoro. Mi piacerebbe molto poter allenare il talento dei ragazzi. Temo che tra poco si troveranno a pagare le conseguenze di una crisi spaventosa».

 

La Verità, 5 settembre 2020