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«La cancel culture è il nuovo oscurantismo»

La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare». Pierluigi «Pigi» Battista fa sua la riflessione di Jep Gambardella nella Grande bellezza di Paolo Sorrentino. Nato giornalisticamente a Epoca, poi alla Stampa di Paolo Mieli e Ezio Mauro, già vicedirettore del Corriere della Sera dopo esserlo stato di Panorama, due mesi fa, prepensionato dal quotidiano di Via Solferino, è atterrato all’Huffington post di Mattia Feltri con una rubrica intitolata «Uscita di sicurezza». È un collega, ci diamo del tu.

Cosa ti manca del Corriere della Sera?

«Senza essere sgradevole, niente. Non sono fuggito polemicamente».

Ma perché?

«Ho approfittato del prepensionamento per iniziare una nuova esperienza all’Huffington post».

Lasciare la carta stampata ti è pesato?

«No. Ero arrivato alla saturazione per il giornalismo politico».

Rigetto della politica o di come la raccontano i giornali?

«Rifiuto dell’overdose che ci infliggono tutti i quotidiani cartacei, non solo il Corriere. Trovo che 10 pagine di politica siano un numero esorbitante per chiunque. Sfido a trovare una persona sotto i trent’anni che le legga».

Provocano anche un senso d’impotenza?

«Quando ero ragazzo c’era il pastone che orientava il lettore, un’intervista e stop. Poi c’erano la terza pagina, le cronache, gli spettacoli. Oggi la politica è lottizzata: c’è la pagina dei 5 stelle, quella del Pd, quella dedicata alla Lega, a Forza Italia, con le interviste ai peones e ai portaborse dei peones. Il risultato è l’iperframmentazione e il senso d’impotenza».

La causa?

«La nascita di troppi governi bizzarri sotto l’egida della democrazia parlamentare. Per la quale il voto dei cittadini è una specie di delega che il partito spende come gli pare. Nella Prima repubblica si votava per la coalizione di governo o per l’opposizione. Nella Seconda c’erano l’Ulivo e il centrodestra. Dal 2011, quando Mario Monti ha sostituito Silvio Berlusconi, son dieci anni che i governi non corrispondono alla volontà degli elettori. I nostri giornali sono succubi di questa situazione».

Raccontano minuziosamente i tatticismi delle forze politiche che quasi mai sfociano in qualcosa di significativo per i cittadini?

«Tra un governo e l’altro i cambiamenti sono ridotti: meno tasse per il centrodestra, più Stato per la sinistra. Il vero cambiamento è che la politica economica non è più nella disponibilità degli Stati nazionali. Quando diciamo che la legge di bilancio è sottoposta all’esame dell’Europa di cosa parliamo se non di questo? Questa cessione di sovranità significa minor democrazia perché la Commissione europea si forma fuori dalla logica elettorale. Il Ppe ha preso più voti, ma non governa».

Occhio che l’accusa di sovranismo è in agguato.

«Lo so bene, ma non c’entra. C’entra il fatto che il nesso tra volontà popolare e decisioni politiche è sempre più debole. Da qui nasce il mio totale disinteresse».

Voti e per chi?

«Ho smesso di fumare e di votare».

Eppure sei cresciuto nell’epoca del «tutto è politica».

«Era qualcosa di totalizzante. Adesso per capire ciò che passa nella testa delle persone è meglio andare al cinema, quando si poteva, leggere…».

Anche in famiglia tutto passava dalla politica?

«L’ho raccontato in Mio padre era fascista: per contestare l’autorità e contrappormi a lui usavo il linguaggio della politica. Oggi, a spanne, non credo che il conflitto tra padri e figli passi per la politica. Perché oggi un ragazzo dovrebbe iscriversi a Forza Italia o al Pd?».

Al Pd perché lo farà votare già a 16 anni?

«Ma quando mai. Tutti sanno che, almeno in questa legislatura, il voto a 16 anni è pura chimera. Come lo ius soli. Quando il Pd alza queste bandiere si sa che sono solo parole».

A sinistra si pensa ancora che tutto sia politica?

«A sinistra si pensa che la politica determini l’antropologia. Esistono due categorie di italiani: quelli di sinistra, buoni, generosi, che non parcheggiano in seconda fila, pagano le tasse e leggono i libri, e quelli di destra, populisti, prepotenti, ignoranti, evasori e che non rispettano le regole».

I giornali perdono copie per troppa politica o perché lontani dalla vita reale?

«Per entrambi i motivi. Ma anche perché sta finendo l’era gutenbergiana a vantaggio di altri linguaggi, l’immagine, la vocalità. Ai quali corrispondono altrettanti social media, i podcast e gli audiolibri. Il nuovo social è Clubhouse fatto di stanze dove si commentano i fatti e tutto si autodistrugge. Puro effimero».

Preferisci l’ipercomunicazione di Conte o la non comunicazione di Draghi?

«Non era ipercomunicazione, ma ufficio propaganda che con la pandemia è diventato Istituto Luce Casalino. Detto questo penso che, con la comunità provata dalla paura, serva una comunicazione istituzionale che dia certezze».

Si sono resi conto di aver commesso un errore bloccando Astrazeneca?

«Dobbiamo capire perché lo hanno fatto. Compito delle istituzioni è rassicurare spiegando le ragioni delle decisioni. Invece, si è finito per alimentare la paura. Tanto più nel contesto di un’informazione apocalittica».

È ancora così?

«Dal primo gennaio c’è un crollo dei contagi nel personale sanitario perché i vaccini funzionano, ma nessuno lo scrive. Invece, un caso di trombosi ferma tutto. Hai voglia a chiamare il povero generale Figliuolo. Sui vaccini e sulle varianti si diffonde solo allarmismo. Vogliamo dire che la variante sudafricana in Sudafrica è stata sconfitta?».

O che in Australia e Nuova Zelanda si convive tranquillamente con il Covid come hanno dimostrato le immagini dell’America’s cup?

«Senza andare così lontano, perché non si dice che, seguendo i protocolli dell’azienda nazionale del farmaco, Boris Johnson sta completando la vaccinazione? Siccome c’è la Brexit non va bene. In Israele hanno fatto la cosa giusta, copiamoli. Ora ci svegliamo con l’idea di produrre il vaccino in casa, ma ci vorranno sei mesi».

Che fiducia si può avere?

«Si continua a ripetere che è tutto complesso. Non è vero: è tutto semplice. Abbiamo poche terapie intensive? Si fossero fatti i bandi in maggio in settembre le avremmo avute. L’alternativa non è un governo diverso, ma la trasparenza. Biden ha detto: vaccineremo 100 milioni di persone in 100 giorni. Bisogna dare un obiettivo. Il sistema del lockdown non regge, non si vedono più pattuglie che fanno rispettare le restrizioni. Personalmente, giro con due mascherine, ma mi chiedo con che faccia rampognamo i giovani per gli aperitivi quando sui vaccini abbiamo fatto tutti questi casini».

Che riscontri ha la tua rubrica?

«Eccellenti. Ma, al di là dei numeri, che sono diversi rispetto a quelli della stampa su carta, mi piace aver creato un appuntamento quotidiano. Online c’è meno fedeltà alla testata e più ai singoli autori. Quando un lettore mi chiede perché la domenica non esce la rubrica mi fa piacere».

Il politicamente corretto è il nuovo catechismo radical chic?

«Con la cancel culture c’è stato un salto di qualità. Il piagnisteo, molto molesto, non era arrivato ad abbattere le statue, a cancellare Shakespeare nelle università e Egon Schiele nei musei. Nel cinema western i buoni erano i cowboy, poi arrivò Soldato blu a mostrarci che i pellerossa erano un popolo. Quello era il politicamente corretto. La cancel culture vuole che i western siano eliminati dalle cineteche. Come pure Peter Pan e Dumbo, ci rendiamo conto? È fanatismo maoista che abbatte ciò che non si conforma. È un nuovo oscurantismo che, sbagliando, abbiamo preso per una bizzarria».

Invece ingabbia la creatività, l’arte, il cinema?

«E favorisce un nuovo conformismo perché intimidisce. Nessuno vuol passare per sessista o razzista. Nel libro di Guia Soncini L’era della suscettibilità c’è un capitolo intitolato “Pensa oggi”. Pensa cosa accadrebbe se Lucio Dalla scrivesse oggi 4 marzo 1943, se qualcuno facesse un apprezzamento sulla minigonna di Alba Parietti, se Vasco Rossi scrivesse Colpa d’Alfredo: “È andata a casa con il negro, la troia”. Non si tratta di elogiare la parola offensiva, è un diritto non essere insultati, ma deve valere per tutti».

Invece?

«L’indignazione si ferma quando viene colpito l’avversario. Si dà del nano a Renato Brunetta o dello psiconano a Berlusconi. Non registro crociate contro le frequenti offese a Giorgia Meloni».

Ingabbia anche il linguaggio?

«Parlare di normalità è proibito perché stabilisce il primato della norma sull’anomalo e offende chi non rientra nei canoni. Siamo nel regno della stupidità universale. A confronto, Robespierre aveva una sua grandezza. Come diceva Carlo Marx, la storia da tragedia si trasforma in farsa».

Il trionfo del correttismo è nelle candidature agli Oscar?

«Adottano il manuale Cencelli delle minoranze. Non ci si chiede più se un film è meritevole o no. Ci sono le donne, i neri, i gruppi sociali marginalizzati e allora è ok. Se ha per protagonista un maschio bianco eterosessuale di una famiglia tradizionale di Manhattan è tagliato fuori».

Zitti e buoni i Maneskin hanno cambiato il testo di Zitti e buoni per allinearsi alle regole dell’Eurovision.

«Sono sufficientemente anziano per ricordare che anche Dalla fu costretto a cambiare il testo per esibirsi a Sanremo. Era una forma di oscurantismo censorio premoderno e così lo chiamammo. Del resto si spaccia per rivoluzionario Achille Lauro, 40 anni dopo Renato Zero».

Il libro più bello degli ultimi anni?

«Quelli di Michel Houellebecq. Apprezzo anche il modo in cui scrive. Serotonina è fondamentale per capire la frattura tra la provincia e le élites urbane».

La serie?

«Ho scoperto da poco Le bureau, già alla quinta stagione. Una bellissima spy story con un’ugualmente bella storia d’amore».

Il tuo prossimo libro?

«Sarà un po’ come Mio padre era fascista, la storia romanzata di una famiglia italiana del Novecento».

Un maestro che ti manca?

«Lucio Colletti, un grande liberale. Le sue lezioni erano di una chiarezza e di un coraggio assoluti. Quando sento certe fregnacce, mi chiedo cosa ne direbbe lui. E poi mi manca Philip Roth, anche lui sferzato dal politicamente corretto».

 

La Verità, 20 marzo 2021

«La richiesta di sovranità è richiesta di democrazia»

Un uomo di sinistra che difende la sovranità. E, per di più, lo fa da studioso. Carlo Galli insegna Storia delle dottrine politiche all’università di Bologna. Nella precedente legislatura è stato deputato del Pd fino al 2015, prima di passare a Sinistra ecologia e libertà e di confluire in Articolo 1 – Movimento democratico e progressista. Nel 2018 non si è ricandidato ed è tornato a insegnare. Ha pubblicato saggi su Carl Schmitt e, di recente, uno intitolato Marx eretico. Ma l’ultimo suo libro per il Mulino, l’editrice con la quale collabora assiduamente, s’intitola Sovranità, ed è un saggio piuttosto denso.

Professore, perché oggi la sovranità è un concetto messo in discussione malgrado sia presente nell’articolo 1 della Costituzione?

«L’interpretazione prevalente della nostra Costituzione, a opera di studiosi di scuola kelseniana, ha fatto coincidere la sovranità con l’ordinamento giuridico del Paese. A questa avversione di tipo scientifico si aggiunge oggi il fatto che l’Italia, partecipando alla moneta unica europea, ha rinunciato alla sovranità monetaria. Così, in una sorta di riflesso condizionato, chi parla di sovranità subisce gli attacchi degli amici dell’Europa. In realtà, da una parte l’Europa funziona attraverso le sovranità degli Stati, e dall’altra le logiche dell’euro costringono a continui tagli dei bilanci statali a investimenti, sanità, scuola e università; con le conseguenze materiali e sociali che vediamo, non solo in Italia. La richiesta di sovranità è in realtà la richiesta di democrazia, che lo Stato si occupi della società».

L’Europa è pronta a limitare e chiedere, ma lenta a condividere, partecipare, aiutare?

«L’Europa di oggi è espressione prevalente della volontà della coppia franco-tedesca. L’Italia è come sempre un vaso di coccio tra vasi di ferro: un paese di serie A, ma a rischio retrocessione. Si tratta ora di vedere se e come possiamo servirci anche noi della nostra sovranità».

Da qui l’accusa di sovranismo e nazionalismo: quando la difesa della sovranità sconfina nel nazionalismo?

«La sovranità consiste nell’affermazione dell’esistenza, su un territorio, di un gruppo umano che vuole essere “politico”. La sovranità è un concetto esistenziale. I suoi comportamenti concreti – pacifici o aggressivi – dipendono dalle circostanze».

Ci sono pericoli di nazionalismo oggi in Italia?

«Non credo. Di fronte al fatto che i principali Stati europei fanno larghissimo uso della propria sovranità, e che le banche di qualche Paese vengono salvate, quelle di qualche altro Paese vengono lasciate fallire, c’è chi insiste sulla necessità di garantire meglio i nostri interessi. Le mosse identitarie sono propaganda».

Il Meccanismo europeo di stabilità serve a questo?

«Il Mes esiste perché la Bce non è una vera banca centrale, prestatrice di ultima istanza; e ciò accade perché l’Europa non è un soggetto politico unitario. Il Mes serve ad aiutare le banche in difficoltà di Stati che non sono in difficoltà, come la Germania. Se l’impianto istituzionale della Ue è sconclusionato, per chiudere le falle si usano delle toppe. Il Mes è una di queste».

Altro pericolo: stabilendo la distinzione tra chi è interno e chi è esterno la sovranità pone le premesse della xenofobia?

«Il nesso interno/esterno è l’essenza della politica: le dà concretezza. L’esistenza politica è situata storicamente e geograficamente; i confini possono essere gestiti in modo crudele o civile, ma non possono non esistere. Quanto alle migrazioni, nel loro tratto finale sono coinvolti interessi criminali, mentre nel tratto iniziale c’è una struttura d’ingiustizia talmente colossale che non può essere risolta semplicemente allargando le maglie dell’accoglienza».

Perché il contrasto tra i sentimenti di compassione e solidarietà da una parte e le sovranità degli Stati dall’altra si risolve a vantaggio dei primi?

«La politica non si fa con la compassione, ma con la prudenza e la giustizia. Le società pronte a commuoversi per i migranti sono le prime a respingerli, quando diventano troppi. E, soprattutto, le persone hanno diritto di non migrare oppure devono rassegnarsi al destino di abitare in una terra invivibile e quindi a dover venire in Europa? Tranne la minoranza di profughi che fugge da persecuzioni e guerre, la maggioranza dei migranti fugge da un’ingiustizia strutturale, che non può essere sanata da improbabili gesti di misericordia degli Stati».

Perché i sentimenti di compassione e solidarietà sembrano vincere sulle ragioni della politica?

«Dipende dalla “narrazione”. L’attuale governo si sta comportando più o meno come quello precedente, pur con qualche concessione in più. Matteo Salvini imprimeva maggiore enfasi nel fermare gli sbarchi, offrendo il fianco ai suoi avversari interni ed europei, ma i patti con le milizie libiche li ha fatti dapprima Marco Minniti. Il trattato di Dublino continua a imporci di tenerci i migranti, e nessuna promessa di redistribuzione è stata mantenuta, nonostante il recente, sbandierato, patto di Malta».

La sovranità degenera in sovranismo e il popolo si abbandona al populismo: le preoccupazioni sono giustificate?

«Oggi una fetta rilevante di popolo italiano chiede che lo Stato si serva della propria sovranità per avere soluzioni a situazioni di disagio sociale ed economico. Questo non è sovranismo, ma richiesta di democrazia reale. Ed è chiaro che il popolo è populista, che cosa dovrebbe essere? Tanto più in assenza di partiti credibili, in grado di tradurre in azione politica i problemi della società».

Che ruolo ha l’improvviso esplodere del dibattito sull’emergenza climatica?

«Gravi problemi di inquinamento sono senza dubbio presenti, ed è interesse di tutti dare a essi una soluzione. Una parte del capitalismo mondiale pone molta enfasi su questa necessità, vedendo nell’economia verde un’occasione di ulteriore sviluppo».

E che ruolo ha, invece, la predicazione di papa Francesco che, necessariamente, ha una prospettiva mondiale?

«Chi ha scritto la Laudato si’ non può non essere sensibile al saccheggio del mondo. Il Papa manda moniti non solo ambientalisti, ma anche etici: non tratta solo di accoglienza, ma di un’ingiustizia strutturale che domina il mondo. Quanto la sua posizione, molto radicale, sia condivisa, resta da vedere».

La critica della sovranità muove da motivazioni morali ed economiche. All’incrocio tra questi due poteri si pone la sinistra moderna da Tony Blair in poi: con quale risultato?

«Che la sinistra è diventata il pilastro del sistema di governo; che ha accettato l’ineluttabilità del neoliberismo, sperando di addomesticarlo un po’. Ma se c’è da scegliere tra le ragioni del lavoratore e quelle dell’imprenditore quasi sempre le sinistre scelgono quelle dell’imprenditore. Il jobs act ne è un esempio. Le compatibilità del capitalismo pesano più dei diritti dei lavoratori: questo è una posizione di destra che viene fatta propria dalla sinistra».

Quindi la sinistra ha molte responsabilità della crescita dei movimenti populisti e dei loro consensi presso i ceti meno agiati?

«In una parola, la sinistra è diventata liberal. Ora, ai cittadini l’estensione dei diritti civili può interessare, ma interessa di più che scuola e sanità funzionino, che i loro figli trovino lavoro, che i diritti sul lavoro e pensionistici siano rispettati. Ma la sinistra, benché a parole mostri interesse per questi temi, è convinta che il paradigma economico vigente non può essere modificato. Questo paradigma è l’ordoliberalismo tedesco (sistema liberista mediato dalle regole dello Stato ndr) esteso a tutta l’eurozona: l’euro è il marco che ha cambiato nome, e che è stato un po’ indebolito per aiutare le esportazioni tedesche. Ed è un paradigma molto esigente, che richiede sacrifici sociali: i suoi obiettivi primari sono la stabilità e l’esportazione; l’economia non può essere trainata dalla domanda interna».

Come siamo finiti in questa situazione?

«Dopo che gli Stati Uniti sono usciti dalla parità aurea nel 1971 il modello keynesiano vigente, che si basava sulla domanda interna e aveva come nemico la disoccupazione, è andato in crisi in pochi anni, ed è stato sostituito dal modello neoliberista e ordoliberista che ha come nemico l’inflazione. Da qui la perenne austerità, la riduzione della circolazione del denaro e i tagli che gli Stati ogni anno devono operare nella legge di bilancio».

Che cosa rappresenta il movimento delle sardine nato nella Bologna dove lei insegna?

«Sono l’ultima speranza che la sinistra ha di non perdere le elezioni in Emilia Romagna».

Dove hanno ribaltato l’inerzia del match, come si dice con linguaggio sportivo.

«L’Emilia è contendibile, ma non a causa delle sardine, quanto piuttosto perché il modello emiliano, storicamente valido, a molti pare oggi consunto».

Questo movimento, che fa dell’antisalvinismo la propria bandiera, rappresenta l’establishment?

«Hanno dalla loro la stampa, i media, la maggioranza parlamentare, la Chiesa ufficiale e illustri personalità li supportano in chiave elettorale. Ma le sardine appartengono all’ambito della politica spettacolo, anche se pensano di esserne il contrario. Che cosa sanno dire dell’euro, di Taranto, della Libia, dei migranti?».

Come spiega che il M5s nato come partito anticasta si sia alleato al Pd e ora il suo fondatore dica che le sardine sono un movimento igienico sanitario?

«La politica italiana non consiste nelle parole di Beppe Grillo, ma in quello che sappiamo fare per reagire al declino in cui ci troviamo. Un gesto di sanità politica sarebbe non interessarsi a ciò che non è essenziale. La politica è una cosa seria, e non sta né nelle sardine né nei talk show. Il M5s è passato dal 34% al 17% perché con la sua incompetenza e inconsistenza ha deluso l’elettorato. E si è alleato col Pd per non scomparire alle prossime elezioni. Ecco perché i suoi esponenti sono così abbarbicati alle poltrone».

 

La Verità, 29 dicembre 2019

 

Berlinguer batte Floris, il sovranismo fa ascolti

Il fuoco di sbarramento preventivo è già partito. Matteo Salvini occupa la tv, bisogna mettergli un freno, una museruola, transennare i talk show. Le sardine mediatiche sono già al lavoro, basta vedere Il Fatto quotidiano di oggi, con i titolari dei programmi di approfondimento ad analizzare, spaventati, salvo Paolo Del Debbio e Massimo Giletti, il fenomeno. Il fatto è che il leader leghista porta ascolti, fa lievitare l’audience e, dunque, conduttori e conduttrici sono più che mai interessati a invitarlo. Ieri sera #cartabianca, che aveva ospite il segretario della Lega, ha superato DiMartedì di un punto di share (5.4% contro il 4.5, 200.000 spettatori in più), battuto anche da Fuori dal coro (4.6% e 840.000 spettatori, grazie al geniale ring tra Mario Giordano e Vittorio Sgarbi), da qualche settimana terzo incomodo emergente nella Champions dei talk show del martedì sera. Dicono da La7 che il motivo del sorpasso potrebbe dipendere proprio dalla partita di Champions League, quella vera tra Juventus e Atletico Madrid, trasmessa da Canale 5 e che, siccome il pubblico di La7 è più maschile, eccetera. In realtà, è prevalentemente maschile anche il pubblico di Raitre e la partita di Champions, quella vera, c’è stata tante altre volte senza che si sia verificato alcun sorpasso. Anzi, il successo di Bianca Berlinguer su Giovanni Floris è assai sporadico, 7 volte su 102 da quando si confrontano: due volte nella stagione d’esordio (2016-2017), tre volte due anni fa e una sola lo scorso anno. Più ieri sera.

E allora? Allora è semplice: Berlinguer ha ospitato Matteo Salvini per un’intervista durata più di un’ora. A fare da contraltare, Luca Telese, Mauro Corona collegato da Venezia, e un operaio della Embraco in cassa integrazione a 700 euro, con moglie e due figli a carico, che ha terminato il suo intervento citando il padre della conduttrice, Enrico.

Le partite delle italiane erano ben avviate e quindi era più interessante vedere come se la cavava il «Capitone» (Dagospia) a parlare di femminicidi e a commentare lo studio Istat dal quale, secondo percentuali rilevanti, emerge che le donne molestate o violentate, un po’ se la sono cercata. O come riusciva a giustificare l’uscita spericolata sulla droga che fa male (vero!), a margine della sentenza che ha condannato i carabinieri per la morte di Stefano Cucchi.

Dall’altra parte, sulle casse di legno di Floris c’erano Paolo Mieli e in collegamento Carlo Calenda… Vabbè. Salvini rispondeva alle domande di Berlinguer in tono pacato, nel suo maglioncino a Vu grigio. Parlando della comunicazione del «Capitone», il linguista Massimo Arcangeli ha notato: «Salvini ha portato all’ultimo stadio il linguaggio della politica della Seconda repubblica. Prima erano i cittadini che si immedesimavano nei politici, ora sono i politici che giocano a fare i cittadini comuni. Quando Salvini si mostra in boxer in spiaggia o si fa ritrarre sulla copertina di un settimanale a torso nudo con la cravatta dice agli italiani “sono uno di voi”».

Televisivamente parlando, la morale è che il sovranismo funziona. Ne sanno qualcosa proprio Retequattro e La7. La faccenda è semplice: quando ti sintonizzi su Otto e mezzo e per la decima volta vedi Gianrico Carofiglio, Massimo Giannini e Andrea Scanzi discutere di sardine e di Salvini fascista, il pollice corre al telecomando. E anche se Stasera Italia non ha tra i suoi ospiti Mina e Donald Trump, almeno può vantare un parterre più variegato e colorito. Allargando l’osservazione i dati sono chiari: spalmando Salvini e, a volte, anche Giorgia Meloni nei suoi talk di prima serata, Retequattro sta incrementando gli ascolti (+0.7% in questo autunno rispetto allo stesso periodo del 2018) proprio mentre La7 cala (-0.3%). La rete di proprietà di Urbano Cairo si sta lentamente sclerotizzando su un target troppo stretto, colto, di sinistra, piuttosto avanti negli anni? Qualcuno, però, forse comincia ad accorgersene: stasera Enrico Mentana condurrà, a sorpresa, uno speciale di Bersaglio mobile intitolato «Le tenebre di Bibbiano».

 

«Vi racconto la vera storia della crisi di mezza estate»

Ladri di democrazia. S’intitola così, senza tanti giri di parole, il pamphlet nel quale Paolo Becchi, con Giuseppe Palma, racconta la vera storia della «crisi di governo più pazza del mondo» (Historica editore). Il professore di filosofia del diritto, già considerato l’ideologo del M5s per la vicinanza a Gianroberto Casaleggio, segue dalla sua casa di Genova i mutamenti della politica e l’evoluzione dei pentastellati, destinati, a suo avviso, a diventare «una piccola formazione di sinistra ecologista». Tutt’altro che periferico, Becchi è stato protagonista del disperato tentativo di mediazione agostano tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio che, per un attimo, aveva riaperto lo spiraglio per una riedizione del governo gialloblù con il capo grillino premier. «Doveva andare così, invece ora penso che il presidente Mattarella sarà pentito delle scelte che ha fatto quest’estate». Insomma, il professore la sa lunga e perciò conviene andare con ordine.

Cominciamo dalla fine, quella dei 5 stelle: davvero Grillo scioglierà il movimento come si sussurra?

«Mmmh… non credo. Secondo me lo lascerà così. Nemmeno lui ha la forza di scioglierlo. Lo renderà biodegradabile… O biodegradato».

In che senso?

«Diventerà una formazione marginale, un partitino di ecologisti di sinistra».

Il giocattolo è rotto e non si può aggiustare?

«Non vedo nessuno in grado di farlo. Il movimento aveva il suo Garibaldi, Grillo, che guidava le cariche, e il suo Giuseppe Mazzini, Casaleggio, il visionario che ci metteva il pensiero. Serviva un Cavour, ma non l’hanno mai avuto. Nel frattempo è morto proprio Mazzini».

Di Maio doveva essere il Cavour del M5s?

«Forse, ma ci voleva tempo per farne un grande pragmatico capace di gestire il potere».

La crisi attuale dipende dal personale politico, dai rapporti con la Casaleggio associati o da alleanze sbagliate?

«È venuto meno il principio unitario che teneva insieme l’organismo. L’originalità del movimento derivava dalla visione di Casaleggio che immaginava una società senza partiti, nella quale il cittadino avrebbe fatto politica senza intermediazioni, attraverso la Rete».

Utopia, sogno

«Non bisognava abbandonarlo, bensì integrarlo nella democrazia rappresentativa. Ora che si è perso l’elemento identitario qualificante è difficile trovarne un altro. La Lega nord si è trasformata in partito nazionale, ma l’idea autonomista è rimasta come elemento di fondo. Il M5s voleva abolire le poltrone e ora, per non sparire, i suoi uomini si attaccano proprio alle poltrone. Sono diventati il tonno dentro la scatoletta. Tra il 2013 e il 2018 hanno perso un’occasione storica. Dovevano cambiare la politica invece sono diventati un asse della partitocrazia. E poi c’è un altro fatto…».

Dica.

«I grillini rivendicano di aver riportato i cittadini alla politica. In realtà, se si guardano i numeri, nel lungo periodo l’astensionismo è aumentato».

Brusco risveglio in Umbria?

«Quando un partito ottiene un buon risultato alle politiche, poi lo dimezza alle europee e lo dimezza ancora alle regionali prendendo meno voti di Fratelli d’Italia, come si fa a non trarre le conseguenze. Quelle dell’Umbria sono state le prime elezioni dopo la nuova alleanza voluta da Grillo. Se si fosse andati a votare prima dell’accordo col Pd, il M5s poteva presentarsi ancora come forza antisistema. Ora ne è pienamente parte e la corrente di protesta si è spostata tutta sulla Lega. La verità è che la crisi di agosto non doveva finire così».

E come?

«Di Maio non voleva la rottura. E Salvini, quando ha visto l’uscita di Matteo Renzi, ha tentato in tutti i modi di fermare l’alleanza tra Pd e 5 stelle. Fino a telefonare al presidente Mattarella, proponendo Di Maio premier con un programma più articolato e una compagine diversa».

Tipo?

«Senza Danilo Toninelli e Giovanni Tria e con Conte commissario a Bruxelles. Glielo dico perché la mediazione l’ho fatta io, giorno per giorno».

Qualcosa ho letto in Ladri di democrazia

«Non ho potuto scrivere tutto… Quando ho capito che la faccenda si metteva male li ho chiamati. Io ero un sostenitore del governo gialloblù… Certo, mancava la sintesi, i leghisti ottenevano un risultato e i grillini un altro. Poi è cresciuto il ruolo di Giuseppe Conte».

Torniamo ad agosto.

«Dopo l’intervista di Renzi che seguiva le dichiarazioni di Grillo era chiaro che si sarebbe andati all’accordo col Pd. Di Maio non ne era per niente convinto, ma per fermare il treno ha posto come condizione di fare il premier».

Quindi non è stata un’idea solo di Salvini?

«Per garantirsi, Di Maio ha chiesto che fosse Salvini a parlarne a Mattarella. Domenica 25 agosto Salvini chiama il Quirinale, ma il presidente è fuori per impegni istituzionali. Quando nel pomeriggio Mattarella richiama e Salvini gli prospetta il governo con Di Maio premier, il presidente non si sbilancia. Non so se informi Di Maio o se avverta Zingaretti, fatto sta che il giorno dopo Zingaretti, fino a quel momento fermo sulla discontinuità, accetta Conte premier. Questa è la pura cronaca. Ora penso che Mattarella cominci a pentirsi delle scelte che ha fatto».

Prima c’era stata la conversione di Grillo che aveva deciso che il Pd non era più il nemico numero uno. Che cosa gli aveva fatto cambiare idea?

«Non so. So solo che in quei giorni viene informato del fatto che suo figlio è indagato per stupro».

Che cosa c’entra con il ribaltone sul Pd?

«Magari nulla, non so cosa sia avvenuto nella sua testa. Però c’è la contemporaneità, il giro sulla moto d’acqua del figlio di Salvini ha occupato le prime pagine per settimane, dell’accusa di stupro a suo figlio si è parlato mezza giornata. Fino a quel momento il Pd era il partito di Bibbiano. Poi, improvvisamente, Grillo dice che bisogna finirla con i barbari e allearsi con il Pd».

Tutto si è messo in moto da lì.

«Grillo ha sempre disprezzato Salvini, mentre considera Conte un elevato, lo ha anche scritto. Forse pensa che a lungo andare potrà sostituire Di Maio. Ma quel cambio di rotta è inspiegabile, anche perché c’era un accordo…».

Cioè?

«Una spartizione di ruoli: l’associazione Rousseau paga tutti i processi di quelli cacciati dal movimento e Grillo si ritira nel ruolo di padre nobile. Non a caso crea il suo blog mentre Di Maio, appoggiato da Davide Casaleggio, diventa il capo politico. Fino ad agosto, quando cambia tutto».

Il ritiro di Grillo non era causato dalla stanchezza…

«C’era un accordo, ricordiamoci sempre che è genovese… Di Maio è rimasto spiazzato perché non si aspettava che intervenisse in prima persona. Per far passare l’accordo, Grillo non voleva specificare il nome del Pd nel quesito sulla piattaforma. Adesso aspettiamo di vedere che cosa dirà sulle regionali in Emilia Romagna. Sappiamo solo che è contrario alla posizione di Di Maio».

Tornando a oggi, come hanno fatto a non prevedere il disorientamento degli elettori dopo un cambiamento così radicale?

«Non hanno più il contatto con la popolazione, vivono nel palazzo. Pensi alla trasformazione di una come Paola Taverna che non dava neanche la mano e adesso cerca benevolenza… Non spariranno del tutto, resteranno un partitino votato dagli elettori del Sud che hanno avuto il reddito di cittadinanza».

Previsione troppo nera?

«Non credo. Con Gianroberto Casaleggio c’era un’idea di futuro, c’erano i meet up e gli streaming. Casaleggio aveva detto che se ci si fosse alleati con il Pd sarebbe uscito dal movimento e invece sono gli italiani che hanno lasciato il M5s. Sono divisi su tutto, non riescono nemmeno a nominare i capi dei gruppi parlamentari».

Perché ha lasciato il movimento?

«Per dissensi sulla linea. Mi chiesero di scrivere un atto di accusa di Napolitano, ma poi cambiarono idea e il mio documento finì nel cassetto. Per le europee del 2014 avevo proposto di fare la campagna contro l’euro, allora non era come adesso. Dissi a Casaleggio che stava sbagliando e che Renzi avrebbe stravinto, sappiamo tutti come andò».

Una volta arrivati al governo era troppo difficile gestire l’ideologia della decrescita?

«Il governo gialloblù non ha saputo fare la sintesi tra sovranismo identitario leghista e sovranismo sociale dei 5 stelle. Ma l’Italia ha bisogno di questa sintesi».

C’erano i no alla Tav, all’Ilva, alla Gronda…

«È il motivo per cui Salvini ha staccato la spina. I poteri forti non aspettavano altro e appena si è aperto lo spiraglio si sono infilati per riprendersi tutto. Il M5s non ha saputo mantenere la carica ecologista adattando il messaggio a una strategia di sviluppo sostenibile».

Il futuro del M5s è quello di un partito verde e digitale su modello nordeuropeo?

«Trascuriamo gli eccessi alla Greta Thunberg, ma l’emergenza ecologica è reale. Non vedo altri approdi che quello di una sinistra ecologista, tipo i Grunen tedeschi. Ma in Italia non hanno mai attecchito, è un destino di marginalità».

Destino irreversibile? E Di Maio?

«Destino molto probabile. Di Maio non ha il carisma di Salvini o dello stesso Grillo che entusiasmano le folle. E prima o poi si andrà a votare».

Tra un paio d’anni?

«Non credo, si voterà già nel 2020. Alla fine capiranno che è meglio una morte rapida e dolce rispetto a un’agonia prolungata. Dopo l’Umbria ci saranno l’Emilia Romagna, la Calabria, la Puglia, il Veneto… Se Zingaretti avesse intelligenza politica sarebbe lui a voler votare. Certo, vincerebbe Salvini, ma si libererebbe di Renzi, metterebbe in Parlamento i suoi uomini e potrebbe dar vita a un’opposizione credibile».

Adesso però è al governo.

«In un governo che sta mettendo le tasse sulle cartine per le sigarette. Ma è una gag di Maurizio Crozza o una cosa vera? Un Paese come l’Italia, già settima potenza mondiale, sta decidendo di tassare le cartine per le sigarette: non ci si crede. Una manovra così dà ancora più potere a Salvini. Di Maio l’ha capito, Zingaretti ancora no».

Ha visto Di Maio cantare Pino Daniele al Costanzo show?

«No, come già Gianroberto Casaleggio, non guardo la televisione».

 

La Verità, 3 novembre 2019

«La Boldrini va al governo e noi cincischiamo»

Buongiorno Francesco Storace, è contento del governo che sta nascendo?

«Credo sia uno dei peggiori esempi di trasformismo della storia della Repubblica. Non ricordo un Presidente del consiglio di una maggioranza che lo rimane con quella opposta».

È scandalizzato?

«Sono colpito. Secondo me in politica le parole sono importanti. Si chiama Parlamento non Zittamento. Vuol dire che c’è il primato della parola. Invece, da una parte abbiamo Luigi Di Maio che fino a un mese fa parlava del “partito di Bibbiano”, dall’altra è facile rintracciare in rete un video in cui Nicola Zingaretti ribadiva “mai con i 5 stelle”».

Parlando di piroette c’è stata anche quella di Matteo Renzi.

«Renzi è quello che ha scardinato i giochi. Ci sta che chi è in minoranza in un partito scateni il casino. Ma chi li guida dovrebbe mantenere un senso di coerenza e affidabilità. Di Maio e Zingaretti mi hanno ricordato Gianfranco Fini quando disse: “Con Bossi mai più in caffè”. E poi invece tornarono insieme al governo».

Sessant’anni e una lunga militanza nella destra, dall’Msi fino a Fratelli d’Italia passando per An, già Presidente della regione Lazio e ministro della Salute nel terzo governo Berlusconi, Francesco Storace non è uomo da eufemismi. Da Capo d’Orlando, Sicilia, dove sta trascorrendo le ultime ore di riposo prima del rientro a Roma, scrive editoriali per Il Secolo d’Italia, il sito che dirige, vicino a Fratelli d’Italia e posta sui social anche foto un tantino hard. Come un dito medio indirizzato al governo nascente.

Conte ha detto che il suo sarà un governo «non contro, ma per»: che significa?

«Sono sciocchezze a uso dell’opinione pubblica e dei giornali. Conte e un concentrato di banalità. Purtroppo sono pochi i giornali che lo notano, l’inondazione di saliva prevale».

Un governo per i porti aperti, nuove tasse, il via libera alla magistratura e alle adozioni ai gay?

«E per gli inchini all’Europa».

Il governo stesso è partito da un inchino all’Europa?

«Potremmo chiamarlo governo Schettino, dal nome dell’ex capitano che fece naufragare la Concordia per fare l’inchino all’Isola del Giglio».

Ha ragione Matteo Salvini quando dice che il Conte bis è nato a Bruxelles?

«È nato fuori d’Italia. Abbiamo saputo che è stato Emmanuel Macron a suggerire il tweet di Trump in favore di “Giuseppi”. Il capo dei sovranisti mondiali sponsorizza un premier che si scopre antisovranista. È evidente che c’è un gioco globale: le fauci dei potenti della terra si aprono sull’Italia. Su questo Salvini ha sbagliato a giocare su due tavoli».

Russia e America. Infatti ora Conte parla di «multilateralismo che non rinneghi l’euroatlantismo».

«L’intervista la sta facendo a me o a Conte? Il suo peccato originale è che è un signore pescato dal nulla e portato a Palazzo Chigi senza aver mai preso un voto. Poi è diventato leader della coalizione opposta, sempre evitando elezioni. Se non è un oltraggio alla democrazia…».

È un premier doubleface?

«Non sappiamo che faccia ha e addirittura gliene diamo due. No, è semplicemente uno spregiudicato amante del potere».

Dirà che è lì per spirito di servizio.

(Silenzio).

Com’è stato possibile che Zingaretti abbia ceduto su tutta la linea, dall’andare al voto alla discontinuità?

«Per una volta nella vita gli avevo dato fiducia. Credevo volesse davvero andare a votare. Poi gli è esplosa la bomba Renzi tra i piedi che è riuscito a recuperare un ruolo nel partito. Il secondo errore che imputo a Zingaretti è non aver avuto il coraggio di entrare personalmente nel governo. Si vede per lui conta di più la guida della regione Lazio. Ma se voleva davvero puntellare il governo, avrebbe dovuto esporsi, magari come vicepremier. Nessuno potrebbe giocare con il segretario in prima linea. La scelta di restare in regione fa sospettare che non creda pienamente in questa avventura».

Forse teme che entrando nel governo gli sfilino del tutto partito?

«Da vicepremier sarebbe più difficile disarcionarlo. Non vorrei che oltre a non far votare gli italiani non si vogliano far votare nemmeno i cittadini del Lazio».

Anche Zingaretti ha subito pressioni per cambiare le sue posizioni?

«Tutti hanno detto dei no che sono diventati dei sì. Voglio vedere come finisce il film per capire quanto ha perso. Per come lo conosco, Zingaretti non è uno che molla facile. Ho la certezza che ci siano state pressioni, sia interne che esterne. La stessa nomina di Ursula von der Leyen è stata chiara in questa direzione. E il sorprendente ritorno in campo di Romano Prodi? In questa crisi se ne sono viste di tutti i colori…».

Sbagliando i tempi Salvini ha fatto un favore a Di Maio e Conte?

«Salvini ha ragione quando dice che tutti gli chiedevano di staccare la spina. Il problema è che se stacchi e non c’è la corrente alternativa si resta al buio. La corrente alternativa c’era la settimana dopo le europee, invece lui ripeteva che avrebbero governato insieme per cinque anni».

Voleva dimostrarsi un socio leale?

«Non mi permetto di giudicare il tasso di lealtà, ma mi pare abbia fatto male i conti. Personalmente non ci parlo da mesi… Dirigo un giornale online che per numero di visualizzazioni ha superato il Blog delle Stelle. In agosto siamo arrivati a 10milioni di pagine visualizzate. Eppure lui si ostina a non rilasciarci un’intervista, non riesco a capire perché».

Doveva darsi un profilo più istituzionale invece di stare al Papeete?

«Questo mi sembra un ritornello infantile. Tutti andiamo al mare, non può andarci un ministro?».

Magari non nei giorni in cui sta per aprire la crisi di governo.

«Lo aveva preannunciato a Conte che gli ha chiesto di aspettare. Comunque, questi sono formalismi che mi interessano poco. M’interessa di più la sostanza che ora la sinistra è al governo».

Anche la richiesta di pieni poteri è stato un errore: dopo le parabole di Berlusconi e di Renzi non s’impara che l’uomo solo al comando non dura?

«Sarebbe bastato dire che voleva usare pienamente le possibilità di potere che la Costituzione attribuisce a chi governa».

La richiesta di pieni poteri può spaventare l’opinione pubblica?

«Se sono quelli garantiti dalla Costituzione ai governanti non vedo che cosa ci sia da temere. C’è anche molto guasconismo in certe espressioni. Siamo figli di Twitter più che di Facebook».

Per l’area di centrodestra la prospettiva è di un lungo periodo di opposizione?

«Dipende da quanto durerà Conte. Ma un governo che nasce sul terrore di andare al voto, a naso non mi pare un modello di stabilità. Con dentro Liberi e uguali manca solo Roberto Saviano ministro».

La stabilità del governo la darà chi l’ha voluto, oltre all’Europa, la Cei, la Cgil, i gesuiti?

«Che la Cei possa accettare un governo con Monica Cirinnà mi pare complicato».

Il direttore di Civiltà cattolica Antonio Spadaro e il presidente della Cei Gualtiero Bassetti si sono pronunciati.

«E la cosa mi dispiace. Lo dico da credente e praticante: trovo indigesto che personalità rilevanti della Chiesa si siano schierate in questo modo».

Il centrodestra andrà in piazza in ordine sparso?

«Purtroppo sì. Fosse stato per me, i tre leader avrebbero dovuto salire insieme al Quirinale. Avrebbero mostrato chi rappresenta la maggioranza del popolo italiano. E sarebbe stato plasticamente visibile il fatto che si vuole far governare quelli che il centrodestra batte ogni giorno».

Berlusconi vuole tornare a essere il perno della coalizione?

«È una gara a chi ce l’ha più lungo, diciamo la verità».

Troveranno una sintesi?

«Metto la clessidra nell’attesa che comincino a riflettere. Ero dubbioso come Giorgia Meloni sull’alleanza con Forza Italia. Ma nel momento in cui Zingaretti e Di Maio prefigurano un’intesa di sistema, il centrodestra non può cincischiare. Loro portano Laura Boldrini al governo e noi ci mettiamo a misurare il tasso di rivoluzione dell’alleato?».

Berlusconi ha detto che il centrodestra dev’essere una coalizione moderata depurata dal sovranismo.

«Berlusconi preferisce il sovrano al sovranismo, a condizione che sia lui. Se si vuole escludere dalla coalizione è un conto, ma se si vuole farne a meno, rischia di essere controproducente. Io sono dell’idea di fare ogni sforzo per tenere unito il centrodestra affinché Zingaretti e Di Maio non vincano anche in futuro».

Per Forza Italia questa crisi dimostra che il sovranismo è perdente.

«Finora mi pare che il centrodestra a trazione sovranista abbia vinto in tutte le competizioni degli ultimi anni».

Se è stata Bruxelles a decidere questo governo come dice Salvini non conveniva una diplomazia diversa? Per esempio sul voto a Ursula von der Leyen?

«Per me hanno fatto bene a non votarla. Anche la discussione su chi dev’essere il nostro commissario europeo è incredibile. Se si dice che è legittima una nuova maggioranza in base agli equilibri usciti dalle elezioni del 2018, come si fa a sostenere il contrario a proposito del commissario europeo? Le elezioni del 26 maggio le hanno vinte la Lega e Fdi. Il commissario non è una casella da spartire tra Pd e M5s, non è un rappresentante del governo, ma di tutta l’Italia che ha votato alle europee».

Che cosa dovrebbe fare ora Salvini?

«Lo rivaluterei se chiamasse la Meloni e le chiedesse di aggregarsi alla manifestazione nel giorno della fiducia a Conte. Giorgia ha indetto una protesta senza simboli di partito, ma solo con il tricolore. La coalizione viene prima dei partiti. Mi pare che da qualche tempo il tricolore abbia cominciato a piacere anche alla Lega».

Come andranno le prossime elezioni regionali?

«Credo e spero che vincerà il centrodestra. Sarebbe un bel segnale dopo lo scandalo sulla sanità che ha colpito l’amministrazione di sinistra in Umbria».

Quanto durerà il Conte bis?

«Credo che a primavera la commedia finirà. A meno che non riescano a stringere alleanze sul territorio. Dobbiamo augurarci che Goffredo Bettini, il gran tessitore del Pd romano, torni in letargo».

 

La Verità, 1 settembre 2019