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Peaky Blinders, una gangs story che sa di rivolta

E intanto Steven Knight non sbaglia un colpo. Da qualche settimana è visibile su Netflix la terza stagione di Peaky Blinders, la serie creata dallo sceneggiatore e regista britannico (Locke, al cinema, e Taboo, di cui abbiamo parlato in questo blog), tratta dalla storia vera della banda capeggiata dal carismatico Tom Shelby, e Alberto, che è sempre molto più avanti di me, consiglia di recuperare le stagioni perdute.

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Nella Birmingham del 1920 tre fratelli reduci dalla guerra in Francia vogliono dominare il racket delle scommesse sui cavalli. Ci sono il primogenito Arthur (Paul Anderson), labile e violento, il più giovane, John, e Tom (un formidabile Cillian Murphy), il capo riconosciuto. A zia Polly, invece, hanno portato via i figli ancora piccoli. Per imporsi e non avere troppi fastidi bisogna sconfiggere gli altri clan e ridimensionare le ambizioni del nuovo capo della polizia, lo spietato Chester Campbell (Sam Neil) che si serve dell’intrigante spia, Grace. Birmingham, però, è solo la base di lancio per Londra, dove lo scontro con gli italiani e gli ebrei, capeggiati da uno strepitoso Tom Hardy, si fa duro. Sebbene siano molto attenti all’abbigliamento e alle maniere eleganti, quanto a violenza i Peaky Blinders non si fanno pregare. E i rasoi che nascondono nella visiera delle coppole tagliano la faccia di chi li ostacola senza troppe sfumature.

La cosa che più mi colpisce è l’orgoglio di famiglia dei fratelli, osserva Alberto. Il fatto di appartenere a una dinastia di zingari tinge di esoterismo un po’ tutto il racconto. Loro non si sentono mai a proprio agio e in tutti i posti dove stanno c’è sempre qualcuno che, in qualche modo, ricorda loro che appartengono a quel popolo.

È forse per questo che la violenza è sempre pronta a esplodere. È una violenza ribelle, che ha qualcosa di eversivo.

Io non la trovo una serie particolarmente violenta. Più che vedersi, la violenza s’intravede. Soprattutto nelle prime due stagioni. All’origine della loro frustrazione c’è anche la guerra, durante la quale hanno vissuto sottoterra per scavare delle gallerie, come ricorda Churchill in un dialogo con il capo della polizia.

Cillian Murphy nei panni di Tom Shelby

Cillian Murphy nei panni di Tom Shelby

Io penso che la qualità migliore della serie sia soprattutto nella sua cura formale. I personaggi, in fondo sono già visti: il gangster tormentato, il poliziotto corrotto, la spia che s’innamora del malavitoso. Vengono in mente Boardwalk Empire e Gangs of New York.

Comunque, sono ben raccontati. Sono molto credibili sia Tom che Arthur, interpretati da attori poco conosciuti. Il personaggio che mi piace meno è zia Polly, che causa tanti problemi. L’altra cosa che mi dispiace è la scarsità di location: tutto si svolge in tre o quattro ambienti, il pub, la fonderia, il bordello. Forse è una questione di budget.

Però la scenografia è ben curata. E qui torniamo all’estetica, ai costumi, ai dialoghi, alla scrittura, al sapiente dosaggio del ralenti. E soprattutto alla colonna sonora: fondamentale. Una storia d’inizio Novecento accompagnata dalla musica rock, a cominciare dalla sigla di Nick Cave per proseguire con Tom Waits, è un colpo di genio assoluto. Che dà a tutta la vicenda un sapore acre di rivolta.

 

Hardy in Taboo? Il primo supereroe no global

E se James Keziah Delaney fosse uno dei primi eroi no global? Che te ne pare, Alberto?

Sì, ci può stare.

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Ecco una breve lista di ragioni per le quali Taboo, protagonista il personaggio di Tom Hardy, era una serie molto attesa. È prodotta dalla Hardy Son & Baker, società di Tom e del padre Edward (Chips), commediografo. Tra i produttori c’è anche Ridley Scott. Lo sceneggiatore è Steven Knight, già autore e regista di Locke (oltre che di Peaky Blinders) interpretato da Hardy, il film che nel 2013 avrebbe dovuto vincere la Mostra di Venezia se non fosse stato trovato a selezione già chiusa. Il cast annovera Oona Chaplin, Jonathan Price e Michael Kelly tra gli altri. È trasmessa da Bbc One in Gran Bretagna, da FX in America e da Sky Atlantic in Italia. La società di Hardy ci ha investito 10,4 milioni di sterline (12,7 milioni di euro) ed è già prevista la seconda stagione.

Siamo nella Londra del 1814 dove,  per assistere al funerale del padre Horace, fa inaspettatamente ritorno James Keziah Delaney. La fama di girovago maledetto, conquistata in anni vissuti tra i selvaggi dell’Africa e del Sud America, non lo aiuta a integrarsi. E meno ancora lo aiuta l’eredità ricevuta della Baia di Nootka, una striscia di terra al confine tra Canada e Stati Uniti, strategica per i traffici della Compagnia delle Indie orientali, le mire espansionistiche dell’Impero britannico, il controllo del territorio dell’America. Da qui si dipana la trama di questa storia cupa, violenta e discretamente ambiziosa. Un dramma storico che punta sulla cura estetica, le ambientazioni e la presenza catalizzatrice di Hardy.

 

Jonahtan Price è il capo della Compagnia delle Indie orientali

Jonathan Price è il capo della Compagnia delle Indie orientali

Alcune critiche hanno sottolineato la troppa carne messa al fuoco, parte della quale potrebbe non arrivare a cottura. L’intrigo famigliare, il rapporto incestuoso con la sorella Zilpha (sarà questo il tabù?), l’esoterismo, i conflitti geopolitici ed economici, il razzismo. Tutto in un’atmosfera tenebrosa. Dopo quattro episodi proviamo a decifrarla.

Io credo che il filo conduttore sia chiaro, osserva Alberto. C’è un uomo solo contro tutti: la potente Compagnia delle Indie, la Corte inglese, l’America. Poi ci sono la passione per la sorella e il figlio abbandonato.

Sembra quasi una storia no global. In fondo, la Compagnia delle Indie è stato un grande progetto di Ordine mondiale. Un agente del capitalismo. Siamo a Londra, ma si parla di un pezzo di terra tra Canada e America che vediamo solo nel mappamondo.

Una striscia di terra importante come porta d’accesso per i commerci con la Cina. E lui ha vissuto in Africa e Sud America.

È un uomo spaventoso, che si difende da solo dai poteri forti.

Si difende per tenersi ciò che il padre gli ha lasciato.

A sorpresa. Perché tutti lo davano per morto.

Invece il tatuaggio che ha sulla schiena vuol dire: torna a prenderti ciò che è tuo.

Sembra quasi un supereroe, che usa la stregoneria, presente i pericoli, domina l’emotività della sorellastra per giocare la sua partita contro tutti. Uno sciamano violento, dal passato e dal cuore di tenebra. Questa è la parte che mi convince meno.

A me invece piace. C’è una dimensione magica ed esoterica. Delaney ha delle visioni oniriche che lo rimettono in contatto con la madre e col passato. È importante anche la sua origine mista, il padre inglese e la madre indiana.

Un supereroe dell’Ottocento, mezzosangue e no global. Non male come storia.

È così.

Bella l’ambientazione e i costumi, il cappottone e la tuba di Delaney. E scelti bene anche gli altri personaggi.

Sì, bella Londra. Anche se le location sono poche, la corte, la sede della Compagnia, il bordello, la sua casa. Ci sono alcune analogie con Frontiera (prodotta da Discovery Channel e Netflix), ambientata sul finire del 1700, tra Canada e America, in cui il protagonista, metà americano e metà irlandese, combatteva contro il monopolio della Compagnia della Baia di Hudson nel commercio delle pelli. Qui invece si parla di the e polvere da sparo.

 

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