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Ce la farà lo storytelling a rimpiazzare il trash?

Erano anni che non vedevo un’intera puntata del Grande fratello. Troppo vuoto riempito dal carnevale degli eccessi. La svolta impressa da Pier Silvio Berlusconi e un cast che, in base alle anticipazioni, mi era parso più equilibrato, hanno finito per incuriosirmi. «Le critiche dell’anno scorso erano fondate, purtroppo abbiamo sbagliato il cast, non siamo perfetti. Anche io mi ero innamorato di persone che nel corso del programma mi hanno deluso», ha ammesso Alfonso Signorini introducendo la nuova edizione. E dunque, ecco entrare nella casa sia nip che vip, «non personaggi, ma persone normali che incarnano delle storie». Così sfilano Giselda Torresan, operaia veneta amante della montagna che sfonda il tetto dei decibel, Paolo Masella, macellaio belloccio che si alza alle 5 e non guarda la tv (mai vista una puntata del Gieffe), il bidello calabrese Giuseppe Garibaldi che si proclama anche nipote dell’eroe dei due mondi (sarà vero?), una Anita (Olivieri) bionda e occhi azzurri che per non farsi ricattare dalla bellezza si è presa un paio di lauree… Con il gioco dei nomi anche i nip rischiano di essere figurine. Tra i vip e mezzi vip ci sono Rosy Chin, cuoca italo-cinese molto attiva su TikTok, le attrici di soap Grecia Colmenares e Beatrice Luzzi, Massimiliano Varresi, altro attore di fiction con trascorsi da ballerino, e Alex Schwazer, già oro alle Olimpiadi di Pechino e lui sì protagonista di una storia complicatissima di doping, complotti e riabilitazioni finora incompiute. L’altra grande novità è l’arruolamento di Cesara Buonamici, anchorwoman del Tg5 in veste di opinionista al momento con esiti sedativi. Oltre al ritorno del «tugurio», un’ulteriore novità è la camerata comune nella quale dovrebbero dormire insieme tutti i concorrenti (venerdì ci sarà la seconda puntata con nuovi ingressi). E chissà come farà Giampiero Mughini, se e quando entrerà (avrà un trattamento speciale?).

Lo scopo del Gieffe più «edificante» è farsi guardare da un pubblico più mainstream e meno amante degli eccessi rispetto a quello degli ultimi anni. Non tutto però è sotto controllo e un gestaccio a luci rosse di un collega della Torresan sfugge alla produzione. Gli ascolti della prima puntata (23% di share e quasi 3 milioni di telespettatori) sembrano dar ragione a chi scommette sulla sostituzione del trash con lo storytelling. Basteranno Schwazer e Mughini a riempire il vuoto lasciato dall’eliminazione delle performance più hard? E mentre sui social gli orfani degli eccessi già protestano, ci si chiede se la spazzatura sia sostanza o contorno del format. Sarà l’audience a decretarlo.

 

La Verità, 13 settembre 2023

Non siamo soggetti della vita, ma dello storytelling

Del resto, la serie s’intitola Black Mirror e il gioco di specchi tra realtà e realtà virtuale è talmente moltiplicato nelle sue rifrazioni che, alla fine, l’emicrania rischia di essere il fatto più reale di tutti. Rilasciata da Netflix il 15 giugno, la sesta stagione dello show più distopico del pianeta si compone di cinque episodi, ognuno a sé stante. Come già nelle precedenti, anche questa sequenza di storie rappresenta i peggiori incubi causati dall’invadenza della tecnologia e dall’inquietante potere della sorveglianza, spesso confermati e qualche volta persino superati dagli eventi, come abbiamo visto durante la pandemia. Stavolta l’acuto è in Joan è terribile, primo capitolo dell’antologia firmato da Charlie Brooker, che narra di una giovane dirigente d’azienda che divide la sua giornata tra il ménage con il compagno, le responsabilità professionali poco gratificanti e i colloqui con la psicanalista alla quale confida di essere alla ricerca di «una storia di vita» di cui sentirsi protagonista. Forse accettare l’invito dell’ex che si è improvvisamente rifatto vivo è il modo giusto per diventarlo…

Purtroppo, appena rientrata a casa, sintonizzata su Streamberry, cioè Netflix, la giovane dirigente rivede le azioni e i turbamenti di tutta la sua giornata nella serie Joan è terribile interpretata da Salma Hayek. È la famosa intelligenza artificiale che risparmia alla piattaforma il costo degli sceneggiatori trasformando la vita delle persone comuni in altrettanti prodotti televisivi. Non siamo più protagonisti della vita reale, ma soggetti per lo storytelling. Il voyeurismo e la propensione a spiare nel privato degli altri non più dal buco della serratura ma con l’occhio delle telecamere fa il resto. Tutti guardano Joan è terribile e ne disprezzano la protagonista, pedinata dovunque dall’algoritmo finché si scopre che le rifrazioni del reale sono infinite. E allora non resta che andare alla sorgente del flusso e agire con mezzi, in realtà, tutt’altro che virtuali…

Il bersaglio della satira di Brooker è la piattaforma dello streaming (appunto Streamberry) abituata a lavorare in base agli input degli algoritmi, messi sotto accusa anche nel secondo episodio (Loch Henry). Non inganni il tono leggero della denuncia, forse indispensabile affinché Netflix producesse. Curiosamente, è proprio il registro della commedia ad aver deluso parte della critica. Ma anche se l’apocalisse dell’arretramento dell’umano è rappresentato con le chiavi dell’ironia, lo specchio rimane ugualmente nero.

 

La Verità, 22 giugno 2023

La parabola di Santoro e il benvenuto di Fazio

Un rito iniziatico. Un’affiliazione. C’era qualcosa che strideva l’altra sera nell’ospitata di Michele Santoro chez Fabio Fazio. Qualcosa che non tornava dal punto di vista estetico e dei linguaggi. Il tribuno arruffato nel salotto pettinato dei «ceti medi riflessivi» (Edmondo Berselli); il conduttore più controverso e osteggiato della tv italiana nel tempio del telepoliticamente corretto (gli altri ospiti, per dire, erano Roberto Vecchioni, Claudio Bisio e Serena Dandini). Tutto vero e incredibile: fino a qualche settimana fa. Perché oggi le cose non stanno più così. Santoro è cambiato o perlomeno sta di molto cambiando, abbandonando le vestigia di combattente d’opposizione per iscriversi al Partito della nazione. Nessuno meglio di Fazio poteva dargli il benvenuto nella nuova famiglia. Poteva registrare l’accredito a Palazzo. È questo il valore simbolico della puntata di Michelone a Che tempo che fa dell’altra sera, naturale conclusione di un periodo di impegno per il Sì al referendum di domenica. Santoro è in prima linea, schieratissimo. Lettere su Facebook sulla riforma costituzionale; mega interviste a raffica su come deve e può essere la nuova Rai, autopromozioni televisive. Il Venerdì di Repubblica, Libero, Il Foglio, il talk della domenica, insomma tutta la filiera editoriale governativa dalla quale distribuire giudizi, dare pagelle, infilzare i nuovi avversari. Che, questa è la faccenda più clamorosa, sono i sodali di ieri. Soci di nome e di Fatto (quotidiano).

Michele Santoro ospite di «Che tempo che fa» il 27/11/2016

Michele Santoro ospite di «Che tempo che fa»

Per spiegare tanto attivismo si possono tentare tre ipotesi. Ipotesi anagrafico-egocentrica: passano gli anni e, non più strategico come un tempo, mal sopporta la marginalizzazione. Ipotesi psicologica: per mascherare l’imbarazzo del cambio di squadra e mimetizzare il senso di colpa, spara sugli amici. Ipotesi professional-opportunistica: hai visto mai che ci scappi un ruolo nella Rai post 4 dicembre quando, con la vittoria del Sì, si preannunciano revisioni di organigrammi e rimescolamenti di poltrone?

La vicenda che più stupisce è l’eccesso di livore della campagna con morti e feriti lasciati a terra sulla strada della conversione renziana. Compari di battaglie politiche e mediatiche, partner rumorosamente scaricati. Marco Travaglio in primis: un tipo un filo limitato e schematico a sentire Michelone, invece problematico e dubbioso: «Ho sempre considerato Marco più contemporaneo di me. Più in sintonia col mondo del “mi piace” – “non mi piace”, che è la grammatica di Internet e di Facebook». Ancora: «Travaglio, nella mia televisione, è stato un confine che mi sono dato per essere sicuro che il programma non rinunciasse a una posizione scomoda nei confronti del potere». Sarà. Ma oltre a marcare il carattere antipotere, di certo con Travaglio la sua televisione ha scalato pure l’Auditel, visto che i picchi d’ascolto arrivavano durante l’intervento del direttore del Fatto quotidiano. Un giornale – altra vittima della giravolta – «fin dentro ai necrologi schierato per il No. In ogni sua riga. È ridicolo. Trovo imbarazzante possedere delle quote di un giornale senza sfumature, che non ha dubbi», ha chiosato Santoro, preconizzando un divorzio societario complicato e doloroso. Quanto a Beppe Grillo «l’ho riportato io in tivù, è un fenomeno che ho certamente enfatizzato, e quando era proibito farlo, perché immaginavo una rigenerazione della classe dirigente…». Dopo l’abbrivio le parole diventano pietre: «Alla fine Grillo è potere, è partito, è politica. Solo che finge di non esserlo, nasconde la sua natura, vuole apparire diverso. Ipocrita. Come quando si presenta con i jeans lisi, ma ha la Ferrari in garage». E il suo «Movimento Cinque Stelle è destra. Destra pura»: è la sentenza che rispolvera categorie novecentesche. In coda ce n’è anche per Carlo Freccero, suo storico direttore di rete, difensore e pusher ideologico, colpevole della scarsità di talenti giovani in tv, che sarebbero di più se «smettesse di fare politica con Grillo e tornasse a creare la seconda serata in Rai». A sinistra D’Alema e Bersani sono «patetici quando dicono che se cade Renzi non succede nulla». Perché invece, «se cade Renzi cade la sinistra in questo Paese», sostiene il filogovernativo Santoro.

Quando Michele Santoro e Marco Travaglio andavano d'amore e d'accordo

Quando Michele Santoro e Marco Travaglio andavano d’amore e d’accordo

Nello storytelling della conversione, la poltroncina del salotto faziesco era l’approdo naturale, la vetrina col logo giusto, il posto dove riposarsi e ritemprarsi prima dell’ultima settimana di campagna. «Questa sera non parliamo di referendum», ha premesso Fazio a inizio intervista. C’è la par condicio e tutto il resto. Siamo qui solo per spingere il documentario Robinù, sulla rampa di lancio delle sale cinematografiche.

Uno dei protagonisti di «Robinù», il documentario sui giovani camorristi di Santoro

Uno dei protagonisti di «Robinù», il documentario sui giovani camorristi di Santoro

Una scena via l’altra, i ragazzi della camorra, il welfare della criminalità e la mitologia del kalashnikov. Un documentario forte, il 6 e il 7 dicembre nei cinema: «Vorrei che andaste a vederlo in tanti» e poi «che si vedesse anche in televisione, sarebbe necessario», ha caldeggiato il padrone di casa congedando l’ospite al termine dell’intervista. Tranquilli, ragazzi, è tutto a posto. Siamo qui per registrare l’arrivo di un nuovo amico, l’ex conduttore più controverso della televisione italiana.

 

La Verità, 29 novembre 2016