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«Egemonia della destra? Non vedo idee all’altezza»

Politologo, docente universitario a Firenze, considerato l’ideologo della Nuova destra, catalogazione che rifiuta in quanto da oltre vent’anni ritiene obsoleta la dicotomia destra-sinistra, Marco Tarchi è impegnato nelle discussioni di tesi di laurea e nel tour per presentare Le tre età della fiamma. La destra in Italia da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni (Solferino), l’ultimo libro scritto con Antonio Carioti. Eppure trova il tempo per rispondere, in più scambi di mail, alle domande della Verità per commentare l’evoluzione degli scenari europei e le polemiche inerenti la cultura di destra nel nostro Paese.

Alle ultime elezioni si è scoperto che, come dicono i sondaggisti, il governo dell’Unione europea è contendibile. Se lo aspettava?

«Dopo mesi di campagna in cui Meloni aveva promesso che il suo gruppo sarebbe stato decisivo nella scelta del nuovo, o vecchio, presidente della Commissione europea, c’era chi si aspettava di meglio. Invece, la prospettiva di una conferma della vecchia maggioranza popolari-socialisti-liberali resta in piedi. Io non ho mai creduto nel sorpasso».

Le sembra che la leadership interpretata da Emmanuel Macron e Olaf Scholz stia traendo adeguate conseguenze dalla sconfitta?

«No. Tirano a campare, fino a quando non saranno sbalzati di sella dai rispettivi elettorati nazionali. E dubito che l’attuale presidente francese, anche se subisse un altro pesante schiaffo il 7 luglio, rinuncerà alla carica. Anzi, sfrutterà la prevedibile ingovernabilità dell’Assemblea nazionale per far valere ancora di più le sue prerogative».

Finora Ppe, socialisti e liberali si stanno mostrando indifferenti all’esito elettorale. Questo orientamento aumenterà la distanza tra i cittadini e le istituzioni di Bruxelles e alimenterà sentimenti di rabbia nei raggruppamenti cresciuti e consolidati dal voto?

«Non c’è, né in Italia né in nessun altro paese dell’Unione, un vero interesse dell’opinione pubblica per le vicende politiche europee. Gli unici momenti in cui questa indifferenza cessa sono quelli in cui c’è da contestare qualcuna delle politiche decise a Bruxelles su agricoltura, commercio, limiti alle emissioni e via dicendo. L’Ue ha sempre scaldato solo i cuori di un ristretto nucleo di politici e intellettuali. Non certo delle popolazioni. E poco anche quelli dei partiti nazionali».

Sembra che Giorgia Meloni voglia far pesare lo spostamento a destra dei consensi. Fa bene ad alzare la voce contro i tentativi di procedere alle nomine senza tenerne conto?

«A quanto sembra, viste le reazioni di Tusk e Weber, sì. Ma in queste dichiarazioni si sottolinea il ruolo dell’Italia, “paese fondatore della comunità europea”, non quello dei conservatori che Meloni dirige, mostrando che, pure loro, tengono d’occhio più gli interessi dei rispettivi Stati che quelli dei “fratelli” d’oltre frontiera».

Il presidente Sergio Mattarella ha ribadito che bisogna tenere conto dell’Italia: non toccherebbe anche alle opposizioni, Pd compreso, fare squadra per sostenere la rilevanza del nostro Paese in Europa?

«Nell’attuale gioco, Meloni indossa contemporaneamente i due cappelli: presidente del Consiglio e leader di uno specifico gruppo. Stanti così le cose, e dati i toni dell’attuale politica bipolare, non c’è da stupirsi se le convergenze mancano. Ma, quando si è trattato di nomine ai vertici, è stato più o meno sempre così, e non solo da noi. Si è visto persino il clamoroso autogol di Salvini nel 2019, quando fece cadere il governo di cui faceva parte nel momento in cui era convinzione comune che il posto di commissario italiano sarebbe toccato a Giorgetti. E così lì ci andò Gentiloni».

Che ripercussioni avrebbe sugli equilibri del governo italiano la decisione di Giorgia Meloni di appoggiare la candidatura di Ursula von der Leyen?

«Darebbe un solido argomento polemico alla Lega, che già con la fortunata scelta di Vannacci si è candidata a fare concorrenza da destra a Fratelli d’Italia. La presidente uscente non è certo una delle figure più amate dall’elettorato meloniano. Forza Italia, viceversa, ne sarebbe soddisfatta, ma dubito che quel gesto diminuirebbe la potenziale conflittualità con il partito di maggioranza della coalizione».

Quanto sarà determinante l’esito delle imminenti elezioni francesi?

«Dipenderà, ovviamente, dal riscontro delle urne. E ho il sospetto che una, peraltro improbabile, maggioranza assoluta di seggi dell’alleanza Rassemblement national-Républicains di Ciotti, e una conseguente ascesa di Jordan Bardella alla carica di primo ministro non rallegrerebbe Meloni. Che tiene moltissimo a essere considerata il faro delle destre europee e che conduce una politica in molti punti divergente – soprattutto sul piano economico – da quella di Marine Le Pen e soci».

Quanto plausibili sono gli allarmi di alcuni analisti che vedono i fondamenti dell’attuale consorzio europeo messi in discussione dalla cosiddetta avanzata delle destre?

«Li considero in larga misura eccessivi. Per motivi diversi, sia i partiti facenti capo all’Ecr sia il partito – e il governo – di Orbán non hanno alcuna intenzione di mettere in discussione l’attuale struttura dell’Ue. Tutt’al più auspicano qualche modifica del suo funzionamento. Il caso Meloni insegna: una volta entrati nel salotto buono dell’Unione, ci si adegua alle sue buone maniere».

L’Europa è destinata a rimanere un’entità fredda e dirigista e culturalmente succube dei nuovi dogmi woke d’oltreoceano, o ci sono margini per recuperare un’identità propria nel rispetto dell’autonomia delle diverse nazioni?

«Di margini ne vedo pochi, perché fino a quando l’Ue resterà legata a doppio filo alle strategie degli Usa e della Nato – o, per meglio dire, dipendente dai loro voleri – non potrà mai ambire a tracciare una propria rotta politica, economica, culturale o geopolitica. E, stando così le cose, quand’anche qualche Stato nazionale riuscisse ad avere mani più libere al proprio interno, a cosa servirebbe?».

In Italia si sottolinea l’avvento di un nuovo bipolarismo, incarnato da Giorgia Meloni ed Elly Schlein: è davvero così?

«Per il momento le cose vanno in questa direzione, e in tempi di personalizzazione e mediatizzazione della lotta politica questo confronto/scontro diretto, molto gradito a entrambe le contendenti, ha buone probabilità di durare. Anche se, in un’epoca in cui la politica è sempre più condizionata da fattori estranei, economici e geopolitici, qualcosa di nuovo, sotto forma di crisi, può modificare in modo inatteso gli scenari».

È un dato di cui rallegrarsi o anche in questo caso la polarizzazione favorisce l’astensionismo?

«Di solito la polarizzazione ha un effetto mobilitante sulle opposte tifoserie – che però sono ridotte a questo ruolo».

Nel suo ultimo libro analizza le stagioni della destra italiana: pensa che un’abiura definitiva del fascismo metterebbe Giorgia Meloni al riparo dalle critiche e dalle diffidenze che la accompagnano?

«Nessuna abiura avrebbe questo effetto, e anzi verrebbe interpretata come un segnale di debolezza, oltre ad accompagnarsi a un’ondata di ulteriori sospetti e insinuazioni sulla sincerità di una scelta di quel genere. Sarebbe solo un modo per alienarsi quegli elettori che, pur senza coltivare nostalgie, si rifiutano di accettare la riduzione caricaturale di un fenomeno complesso della storia italiana all’immagine manichea che ne danno gli antifascisti di professione».

Come giudica il tentativo del governo di modificare il sistema culturale in Italia?

«Esiste, questo tentativo? Dov’è? Io, per il momento, vedo soltanto nomine ai vertici di questa o quella istituzione controllata dallo Stato. Ma nelle case editrici, nelle redazioni giornalistiche, nelle scuole, nelle università, nelle società di produzione cinematografica, nelle compagnie teatrali, nel mondo della musica e via elencando niente è cambiato. E niente potrà cambiare se non si costruirà, poco alla volta, una nuova atmosfera culturale. Che ha bisogno di idee capaci di attrarre consenso e di ingegni capaci di produrle e farle circolare, non di direttori o commissari straordinari di questo o quell’ente. Per adesso, le premesse di questa rivoluzione culturale non riesco a scorgerle all’orizzonte».

Con alcune nomine nelle istituzioni si è cominciato a parlare di nuova «egemonia culturale» della destra. Che cosa caratterizza precisamente quella che viene chiamata cultura di destra e la sua egemonia è un obiettivo da perseguire?

«La lotta per l’egemonia culturale, come lo stracitato (a ragione) Gramsci ha insegnato, è parte essenziale della lotta politica. Per sfidare quella esistente, di segno progressista, che è tuttora molto estesa, bisogna sforzarsi di mettere in circolazione idee capaci di entrare gradualmente a far parte del senso comune, cioè di attecchire nella mentalità collettiva. Un compito immane, anche se necessario».

Ancora prima, esiste un ceto intellettuale in grado di alimentare e promuovere una cultura così concepita?

«Questo è il punto. Decenni di egemonia intellettuale progressista hanno saturato gli ambienti culturali di cui dicevo, spesso anche grazie a politiche di nepotismo e clientelismo. E, salvo pochi casi, chi non aveva opinioni gradite è stato accuratamente tenuto fuori dai luoghi di riproduzione del potere culturale – a partire dalle università – anche se mostrava qualità notevoli. Questo fenomeno accade tuttora, per esempio nel reclutamento nei dottorati di ricerca o in taluni ambiti artistici. Se le cose non cambieranno, questo ceto intellettuale non avrà modo di formarsi. E sarà facile, agli avversari, metterne alla berlina l’assenza».

Qualcuno osserva che i nuovi dirigenti di queste istituzioni devono favorire il dialogo con gli intellettuali della sinistra, ma poi accade che un gruppo di scrittori contesta le regole di organizzazione della rappresentanza italiana alla Fiera di Francoforte. Qual è la sua opinione?
«Detesto la faziosità degli “intellettuali militanti”, avendone subìto gli effetti in più occasioni, e sono convinto che la disponibilità al dialogo sia uno dei requisiti fondamentali per chi fa cultura. Non sarà però facile convertire a questa pratica di civiltà chi è abituato a considerarsi moralmente superiore a chiunque abbia opinioni diverse e, soprattutto, teme di perdere posizioni di supremazia che riteneva definitivamente acquisite. Il caso dei non pochi scrittori che si sentono storici, profeti o coscienze dell’umanità perché stanno politicamente e ideologicamente “dalla parte giusta” è tipico».

 

La Verità, 29 giugno 2024

«Forza Italia impedirà che la destra sia legittimata»

No, Marco Tarchi, docente a Scienze politiche a Firenze, ideologo della Nuova destra vicino ad Alan de Benoist, non si è convertito al cellulare e ancor meno ai social network. Le conversazioni con lui avvengono per iscritto e sanno di pensatoio. Di riflessione lontana dalla schiuma mediatica. Lo abbiamo interpellato sulle ultime novità nello scacchiere italiano, in particolare nell’area del centrodestra e in vista della partita del Quirinale.

Professor Tarchi, che cosa pensa del fatto che alla recente convention di Fratelli d’Italia siano sfilati tutti i leader dell’arco costituzionale, da Giuseppe Conte a Enrico Letta fino a Matteo Renzi?

«È il riconoscimento del ruolo centrale che, grazie alla forte crescita dei consensi, il partito ha assunto all’interno del centrodestra, e di conseguenza nel sistema politico italiano. Un dato che nessuno può più ignorare».

Fino a ieri a Giorgia Meloni veniva chiesto di prendere le distanze dal fascismo e da gruppi come Forza nuova. Queste partecipazioni mostrano che è la pregiudiziale è caduta?

«Solo apparentemente. Quando si presenteranno occasioni di contrasto su temi importanti, l’accusa di criptofascismo verrà rispolverata da ambienti di centrosinistra. Del resto, questo compito continuano a svolgerlo, in tv, giornalisti e commentatori schierati su posizioni di sinistra radicale, che al momento opportuno torneranno utili anche al Pd».

Che eredità lasciano incontri apparentemente cordiali rapidamente contraddetti da prese di posizioni successive?

«Nessuna. Sono aspetti tattici di strategie che la politica conosce da sempre. Si dialoga pacatamente con l’avversario quando si ritiene conveniente esibire un volto moderato, salvo poi derubricarlo a nemico e attaccarlo duramente nelle situazioni in cui si vuole convincere l’elettorato dei “pericoli” che esso rappresenta».

Come valuta le critiche di Roberto Saviano che ha accusato la Meloni di usurpare la figura di Atreju, personaggio della Storia infinita di Michael Ende?

«È storia vecchia: riecheggia polemiche che si trascinano da quasi mezzo secolo sul diritto o meno dei giovani missini degli anni Settanta-Ottanta di sentirsi vicini alla visione che ispirava le opere di Tolkien, a partire dal Signore degli anelli. Accusarsi reciprocamente di appropriazioni indebite è un vezzo ideologico, nient’altro. Ben più preoccupante è l’apologia dell’odio per i “nemici politici” che Saviano ha recitato nella stessa occasione. Sembra di essere ritornati alla stagione che produsse l’orribile slogan “Uccidere un fascista non è un reato”, con le ben note conseguenze di quelle parole. Se a pronunciare quelle frasi fosse stato un esponente della destra, dal Quirinale fino alle piazze imperverserebbero le proteste più vigorose. Invece, tutto tace».

Esiste ed è credibile la svolta conservatrice di Fratelli d’Italia?

«Parzialmente. Molto più evidente, nel discorso di Giorgia Meloni e del suo partito, è il richiamo ad un nazionalismo che, pur declinato con la prudente etichetta di patriottismo, rischia di apparire – ed essere – anacronistico. La polemica antifrancese ne è un esempio. È difficile, poi, capire come questa visione possa sposarsi all’atlantismo e all’occidentalismo di cui Fdi si fa sempre più insistentemente alfiere. Può spiegarlo, ma non giustificarlo, solo il rapporto di collaborazione che il gruppo conservatore europeo che la Meloni presiede ha con i repubblicani statunitensi».

Che spazio c’è in positivo nel nostro Paese per una destra conservatrice che il più delle volte viene connotata solo in negativo come non sovranista e non populista?

«Ce ne sarebbe se quella destra scegliesse come suo obiettivo polemico principale quell’egemonia del politicamente corretto che si è abbattuta sul panorama culturale del cosiddetto Occidente e mette a repentaglio – come giustamente da più parti si sta facendo notare a cominciare, in Italia, dalle recenti critiche di Luca Ricolfi – la libertà di ricerca scientifica, di insegnamento e, ormai, anche di pensiero. Contrapporre, in questo campo, il conservatorismo al progressismo, con solidi argomenti e non solo con slogan, significherebbe anche dar voce a preoccupazioni diffuse negli strati popolari della società, dove mode intellettuali made in Usa come la teoria della fluidità di genere, l’attacco al presunto “privilegio bianco”, il separatismo etnico e così via sono tuttora viste come assurdità».

Giorgia Meloni è presidente del gruppo europeo conservatori e riformisti (Ecr) che risulta più moderato di quello cui aderisce Matteo Salvini. Questa contraddizione è risolvibile?

«È difficile dirlo, anche se in questa fase sia Fratelli d’Italia che la Lega sembrano prendere le distanze da quella mentalità populista che aveva fatto il successo del progetto di Salvini e che avrebbe potuto essere il terreno d’incontro dei due partiti. Convergere su temi più moderati li potrebbe però penalizzare, e non poco, dal punto di vista elettorale, specialmente se, una volta esaurita la pandemia, se ne dovranno pagare i costi economici e sociali».

Perché ritiene che sarà Silvio Berlusconi più ancora della sinistra a frenare il processo di legittimazione istituzionale di Meloni e Salvini?

«Perché Berlusconi non perdonerà mai né all’una né all’altro di averlo spodestato da quel ruolo di eterna leadership del centrodestra cui si riteneva predestinato. E anche perché, nel fondo, il presidente di Forza Italia non è e non è mai stato un uomo di destra. Lo ha rivendicato a più riprese, dicendosi sturziano e degasperiano».

Che cosa vuol dire esattamente che il nuovo capo dello Stato dev’essere un patriota?

«Mi pare una formula di comodo, un po’ improvvisata, e neanche troppo comprensibile per la pubblica opinione».

Patria è considerato un termine divisivo perché caro alla destra, in realtà dovrebbe essere inclusivo e richiamare un patrimonio comune?

«Le parole si trascinano dietro i significati che a esse vengono attribuiti in certi periodi. Il fascismo ha usato e abusato di questo termine, cercando di attribuirsene il monopolio, e le destre oggi ne pagano lo scotto. Non da oggi, la sinistra preferisce sostituirlo con “nazione”».

Per fissare subito dei paletti, Enrico Letta ha chiesto che il nuovo capo dello Stato sia europeista. I due elementi sono in contraddizione?

«Per come Giorgia Meloni aveva posto la questione, con l’attacco a Macron e alla Francia, sì. Letta sa che i rapporti con l’Unione europea sono una delle questioni che più chiaramente segnano, agli occhi dell’elettorato, la distinzione con il campo avverso, molto meno percettibile su altri terreni, e gioca su questo aspetto».

Quanto dobbiamo stare sereni se l’Europa a cui ci si richiama è quella che in nome dell’inclusività vorrebbe cancellare il Natale e i nomi della tradizione cristiana?

«Il problema è serio, e richiama in causa la questione del politicamente corretto, e quelle connesse dei pericoli della crescita dei caratteri multiculturali e multietnici delle società occidentali. Non è un caso che in Francia sia questo problema ad aver gonfiato le vele della candidatura alla presidenza dell’outsider Eric Zemmour».

Quanto è importante il pronunciamento di papa Francesco che ha sottolineato la necessità di salvaguardare le radici delle nazioni e messo in guardia dal dominio di entità sovranazionali?

«Non molto, visto che sono proprio quelle entità a promuovere fenomeni come l’immigrazione di massa extraeuropea, che il Papa instancabilmente difende dalle accuse dei suoi critici. È difficile salvaguardare le radici delle nazioni quando si contribuisce ad accrescerne l’eterogeneità sotto il profilo culturale e dei modi di vita».

Crede che il centrodestra riuscirà a essere determinante nella partita del Quirinale?

«Considerando l’insipienza strategica di cui i suoi leader hanno dato prova in passato, c’è da dubitarne».

Ha fatto bene Salvini a sollecitare per primo i leader di partito?

«È un modo come un altro per riguadagnare centralità mediatica, ma dubito che la mossa abbia effetti pratici. E difatti è già stata respinta al mittente».

Ritiene anche lei che la proroga dello stato di emergenza nasconda il tentativo di precludere a Mario Draghi la salita sul Colle più alto?

«Può essere, ma se l’interessato vorrà davvero raggiungere quel traguardo, non credo che questo sia un ostacolo insormontabile».

La candidatura di Berlusconi è davvero praticabile o rischia di riportare il Paese al clima di un decennio fa?

«Tutto può accadere, ma l’evento mi pare improbabile, e tutt’al più può risolversi in una sorta di omaggio formale degli alleati alla sua figura istituzionale».

Dopo il dibattito sul ddl Zan, ora il Pd sta alimentando il processo per l’approvazione della legge sull’eutanasia. Che scopo hanno queste campagne in questo momento politico?

«Attrarre le componenti più a sinistra dell’ipotizzato campo largo della coalizione anti destre, che nel recente passato hanno criticato duramente la svolta moderata del Pd, con Renzi e dopo. Ma non sarà un’impresa facile».

Al centro vede un’intesa possibile tra Forza Italia, Carlo Calenda, Italia Viva, Coraggio Italia e Noi con l’Italia?

«Possibile lo è certamente, ma perché si verifichi occorrerebbero circostanze adeguate, come un equilibrio, nei sondaggi pre-elettorali, del peso numerico delle due coalizioni maggiori, per tentare di fare da ago della bilancia».

Pensa che terminata l’esperienza del governo Draghi, se alle elezioni dovesse vincere il centrodestra sarà pronto per guidare il Paese? E i poteri forti glielo consentiranno?

«Se l’elettorato dovesse esprimersi nettamente a favore del centrodestra, le alchimie istituzionali per impedirgli di governare avrebbero poche possibilità di successo. A meno che il fuoco di sbarramento non provenisse dall’interno della coalizione. E questa è un’eventualità tutt’altro che peregrina: Forza Italia e centristi sono mine vaganti».

La pandemia come ha modificato lo scenario politico italiano?

«Lo ha ingessato, grazie al clima emergenziale e allo sfruttamento che ne è stato fatto, ma non ne ha cambiato i connotati. Quando la nevrosi da virus si attenuerà, ce ne renderemo conto».

Pensa anche lei che rischiamo di diventare un Paese in parte autistico?

«Il rischio c’è, visto il clima psicologico degli ultimi due anni».

 

La Verità, 18 dicembre 2021

Tarchi: «Il centrodestra? Alleanza immaginaria»

È colpa di noi giornalisti se Marco Tarchi non usa cellulari e dialoga solo tramite posta elettronica. Fece questa scelta una ventina d’anni fa, per «mettermi al riparo dall’uso pubblico, altrui, del tempo privato, mio. Se avessi avuto la tentazione di procurarmi un cellulare, mi sarebbe passata nel periodo 1994-96, quando, essendo uno dei pochi studiosi che sapeva qualcosa del mondo post neofascista improvvisamente risorto, ricevevo, al numero fisso di casa, continue chiamate di giornalisti che mi tenevano al telefono per 30-40 minuti chiedendomi di tutto, per poi scriverci su un articolo, sovrapponendo le loro opinioni alle mie e citandomi di passaggio in due righe. Stava diventando una persecuzione, a cui il non-uso di un cellulare mi ha sottratto». Insomma, ecco un raro caso in cui la voglia di visibilità non s’è mangiata la qualità della vita e un certo rispetto per le proprie opinioni. Ovviamente, Tarchi non usa i social media, detestandone «la capacità di moltiplicare egocentrismo, superficialità e volgarità».

Romano di nascita e fiorentino d’adozione, 65 anni, professore ordinario alla facoltà di Scienze politiche di Firenze, già ideologo della Nuova destra italiana vicina ad Alain de Benoist, dopo una burrascosa espulsione dal Msi abbandonò la politica militante per dedicarsi agli studi. Dirige Diorama.it, mensile di «attualità culturali e metapolitiche» e pubblica per Il Mulino. L’ultimo libro (2014) s’intitola Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo.

 

Perché le elezioni francesi sono importanti anche fuori dalla Francia?

«Perché sono un test sulle capacità di crescita elettorale del populismo. Che si trova di fronte il perfetto rappresentante di quei poteri forti contro cui rivolge gran parte dei suoi strali».

Dopo la Brexit e l’elezione di Trump si è detto che l’era della globalizzazione è al tramonto. Oltre che dalla Francia, da dove potrà venire un terzo segnale?

«Non sono certo di questo tramonto. A sostenere la bontà della globalizzazione ci sono una molteplicità di soggetti – politici, economici, culturali – molto potenti soprattutto nel mondo della comunicazione. La loro capacità di seduzione e suggestione sul pubblico è tuttora elevata. La sfida populista è ardua, malgrado la sua presa sempre più estesa. In Austria, dopo il successo sfiorato nella corsa alla presidenza della Repubblica, la Fpö (Partito della Libertà, nda) potrebbe aggiudicarsi il primo posto alle elezioni legislative. E l’Afd (Alternativa per la Germania, nda) probabilmente entrerà in parlamento in Germania. Sono segnali destinati ad ampliarsi, in questa fase».

In Italia stiamo assistendo al ritorno di Matteo Renzi. Crede che saprà inaugurare una stagione nuova come ha annunciato o si tratterà del sequel di un film già visto?

«Propendo per la seconda ipotesi. Dubito che Renzi riesca a liberarsi dal complesso di onniscienza e onnipotenza che lo affligge e che voglia davvero convincersi di aver commesso gravi errori. Per lui, a sbagliare non possono essere che gli altri. È la stessa sindrome che ha afflitto Berlusconi».

Paolo Gentiloni si ritirerà senza fiatare?

«Non mi pare che il personaggio aspiri a costruirsi una figura, e una statura, autonoma. A meno che non gli si prospetti un’insperata finestra di opportunità, come possibili futuri alleati di governo disposti a concludere patti solo a condizione di escludere Renzi dalla presidenza del Consiglio, penso che tornerà in seconda fila».

Beppe Grillo, oltre la dicotomia destra/sinistra (LaPresse)

Beppe Grillo, oltre la dicotomia destra/sinistra
(LaPresse)

Come evolverà il tripolarismo italiano?

«Dipenderà in notevole misura dalla legge elettorale che verrà adottata e dalle mosse dei principali soggetti in campo. Uno dei quali, il centrodestra, è solo potenziale, e difficilmente riuscirà a sommare aritmeticamente i voti che a ciascuna delle sue componenti oggi attribuiscono i sondaggi, perché su molti temi le posizioni di Lega e Forza Italia sono incompatibili».

Sarà necessario un ritorno al proporzionale? Oppure l’unica strada praticabile sarà un Nazareno bis per escludere il M5s?

«Il Nazareno bis potrebbe forse produrre un governo delle larghe intese. Ma se questo fallisse nel tentativo di sanare i problemi del Paese, sarebbe la premessa di un trionfo successivo del M5s. Quanto al sistema elettorale, io sono da sempre un fautore del proporzionale puro, perché credo che le elezioni debbano prima di tutto dare una rappresentanza effettiva e soddisfacente alle opinioni dei cittadini. Ai partiti spetta poi tradurre la loro volontà in accordi e confronti. In quasi tutta Europa, il sistema proporzionale produce governi stabili, non il caos descritto dai fautori del maggioritario».

Del movimento capeggiato da Beppe Grillo le piace il tentativo di superare le categorie di destra e sinistra o qualcos’altro?

«Credo che il superamento della dicotomia sinistra/destra sia nelle cose, e il fatto che Grillo lo abbia capito va a suo merito. Molte persone, oggi, ragionano sui fatti, non sulle interpretazioni codificate nelle ideologie novecentesche o sui loro residui. Non sempre il M5s riesce a tradurre le intuizioni del suo portavoce e garante in scelte politiche conseguenti, ma non c’è dubbio che la sua azione abbia sottratto la politica italiana a un’ingessatura bipolare funesta».

Populismo è il termine politico più in voga: l’accezione dominante però è negativa, una sorta di anticamera della dittatura. Eppure, come dice Ernesto Galli della Loggia citando la Costituzione, la sovranità appartiene al popolo…

«Io mi batto, sul terreno scientifico, contro la degradazione del populismo a etichetta insultante. È una mentalità che può piacere o meno, ma che richiama la centralità del popolo come fonte legittima del potere in democrazia, e incita a ricostituirne un’identità comune: obiettivo non disprezzabile».

A sinistra si procede per scissioni, ma anche a destra l’alleanza tra Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni appare irta di difficoltà. Qual è la possibile carta vincente del centrodestra?

«Non ne vedo. L’eterogeneità di questi soggetti è profonda. Oggi si sta affermando uno spartiacque tra fautori e avversari della globalizzazione e dei suoi effetti, e su questo tema cruciale Berlusconi e i liberali stanno su un versante, Salvini, Meloni, i populisti e i sovranisti sull’altro. Ricomporre il dissidio è impossibile, far finta che non esista produrrebbe un’armata Brancaleone».

Salvini, Berlusconi e Meloni. Per Tarchi un'intesa senza futuro

Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni. Per Tarchi, un’intesa senza futuro

Mi sta dicendo che per il centrodestra e per gli elettori moderati non c’è speranza?

«Gli elettori a cui l’ipotetico centrodestra vorrebbe rivolgersi non sono tutti moderati. Anzi, molti di loro sono attratti da parole d’ordine radicali come quelle della Lega. Senza contare che molti moderati stanno con Renzi, che ha saputo spostare a destra un partito storicamente di sinistra. Non siamo più negli anni Novanta, l’anticomunismo non è più un collante. Il centrodestra è un’entità più immaginaria che reale».

Non sarà che il suo giudizio così drastico è inficiato dalla negativa esperienza personale in quell’area?

«Per niente. E poi non ho appartenuto a “quell’area”, ma al Msi, che era tutt’altra cosa. Una vicenda che si è conclusa più di 36 anni fa. Non sarebbe il caso di evitare di ricordarmela ogni volta che esprimo un giudizio sulle varie destre? Ragiono da analista, non da ex: categoria che detesto».

Qual è il suo pensiero in materia d’immigrazione?

«Difficile sintetizzarlo. Credo che il fenomeno migratorio di massa sia più una fonte di problemi che una risorsa, come vorrebbe la retorica del politicamente corretto. E che, sul piano pratico, non la si debba affrontare ricorrendo a due opposti e simmetrici ricatti psicologici – quello della paura, per cui ogni immigrato è un criminale potenziale, e quello della commozione e della compassione, per le quali ogni immigrato è un “piccolo Aylan” disperato e indifeso. Credo anche che diluire sempre più i caratteri specifici che hanno costituito ciascun popolo sia una grave ferita inflitta a quella diversità che è il fondamento della bellezza, non solo estetica, del mondo. Apprezzo il dialogo tra i popoli e le culture, detesto la loro omologazione sradicante».

Ci sono spazi d’integrazione della popolazione islamica nel nostro Paese?

«Ci sono, ma bisognerà vedere come saranno utilizzati da entrambe le parti. Imparare a convivere con l’altro-da-sé è sempre molto difficile, e per riuscirci occorre prima di tutto ammettere e conservare la reciproca diversità, trovando compromessi pratici accettabili. L’assimilazione, alla lunga, provoca alienazione e ripulse. Si veda ciò che accade nelle banlieues francesi».

Come giudica il magistero di papa Francesco sull’argomento?

«Giudico le sue come opinioni, che come quelle di tutti gli esseri umani sono discutibili. Comprendo la sua posizione, ma sostenere l’accoglienza indiscriminata di chiunque approdi in Europa mi pare una scelta irresponsabile, destinata a produrre future sciagure. Lo ha sostenuto anche Giovanni Sartori, un grande politologo a me caro, e concordo con lui».

Segue i programmi di politica in tv? Come valuta la rappresentazione che la televisione dà della politica italiana?

«Ne seguo saltuariamente qualcuno. Non posso, e non voglio, portarmi sempre il lavoro a casa… La televisione consente alla politica italiana e ai suoi protagonisti di presentarsi per quel che sono. Purtroppo».

 

La Verità, 7 maggio 2017