«Egemonia della destra? Non vedo idee all’altezza»

Politologo, docente universitario a Firenze, considerato l’ideologo della Nuova destra, catalogazione che rifiuta in quanto da oltre vent’anni ritiene obsoleta la dicotomia destra-sinistra, Marco Tarchi è impegnato nelle discussioni di tesi di laurea e nel tour per presentare Le tre età della fiamma. La destra in Italia da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni (Solferino), l’ultimo libro scritto con Antonio Carioti. Eppure trova il tempo per rispondere, in più scambi di mail, alle domande della Verità per commentare l’evoluzione degli scenari europei e le polemiche inerenti la cultura di destra nel nostro Paese.

Alle ultime elezioni si è scoperto che, come dicono i sondaggisti, il governo dell’Unione europea è contendibile. Se lo aspettava?

«Dopo mesi di campagna in cui Meloni aveva promesso che il suo gruppo sarebbe stato decisivo nella scelta del nuovo, o vecchio, presidente della Commissione europea, c’era chi si aspettava di meglio. Invece, la prospettiva di una conferma della vecchia maggioranza popolari-socialisti-liberali resta in piedi. Io non ho mai creduto nel sorpasso».

Le sembra che la leadership interpretata da Emmanuel Macron e Olaf Scholz stia traendo adeguate conseguenze dalla sconfitta?

«No. Tirano a campare, fino a quando non saranno sbalzati di sella dai rispettivi elettorati nazionali. E dubito che l’attuale presidente francese, anche se subisse un altro pesante schiaffo il 7 luglio, rinuncerà alla carica. Anzi, sfrutterà la prevedibile ingovernabilità dell’Assemblea nazionale per far valere ancora di più le sue prerogative».

Finora Ppe, socialisti e liberali si stanno mostrando indifferenti all’esito elettorale. Questo orientamento aumenterà la distanza tra i cittadini e le istituzioni di Bruxelles e alimenterà sentimenti di rabbia nei raggruppamenti cresciuti e consolidati dal voto?

«Non c’è, né in Italia né in nessun altro paese dell’Unione, un vero interesse dell’opinione pubblica per le vicende politiche europee. Gli unici momenti in cui questa indifferenza cessa sono quelli in cui c’è da contestare qualcuna delle politiche decise a Bruxelles su agricoltura, commercio, limiti alle emissioni e via dicendo. L’Ue ha sempre scaldato solo i cuori di un ristretto nucleo di politici e intellettuali. Non certo delle popolazioni. E poco anche quelli dei partiti nazionali».

Sembra che Giorgia Meloni voglia far pesare lo spostamento a destra dei consensi. Fa bene ad alzare la voce contro i tentativi di procedere alle nomine senza tenerne conto?

«A quanto sembra, viste le reazioni di Tusk e Weber, sì. Ma in queste dichiarazioni si sottolinea il ruolo dell’Italia, “paese fondatore della comunità europea”, non quello dei conservatori che Meloni dirige, mostrando che, pure loro, tengono d’occhio più gli interessi dei rispettivi Stati che quelli dei “fratelli” d’oltre frontiera».

Il presidente Sergio Mattarella ha ribadito che bisogna tenere conto dell’Italia: non toccherebbe anche alle opposizioni, Pd compreso, fare squadra per sostenere la rilevanza del nostro Paese in Europa?

«Nell’attuale gioco, Meloni indossa contemporaneamente i due cappelli: presidente del Consiglio e leader di uno specifico gruppo. Stanti così le cose, e dati i toni dell’attuale politica bipolare, non c’è da stupirsi se le convergenze mancano. Ma, quando si è trattato di nomine ai vertici, è stato più o meno sempre così, e non solo da noi. Si è visto persino il clamoroso autogol di Salvini nel 2019, quando fece cadere il governo di cui faceva parte nel momento in cui era convinzione comune che il posto di commissario italiano sarebbe toccato a Giorgetti. E così lì ci andò Gentiloni».

Che ripercussioni avrebbe sugli equilibri del governo italiano la decisione di Giorgia Meloni di appoggiare la candidatura di Ursula von der Leyen?

«Darebbe un solido argomento polemico alla Lega, che già con la fortunata scelta di Vannacci si è candidata a fare concorrenza da destra a Fratelli d’Italia. La presidente uscente non è certo una delle figure più amate dall’elettorato meloniano. Forza Italia, viceversa, ne sarebbe soddisfatta, ma dubito che quel gesto diminuirebbe la potenziale conflittualità con il partito di maggioranza della coalizione».

Quanto sarà determinante l’esito delle imminenti elezioni francesi?

«Dipenderà, ovviamente, dal riscontro delle urne. E ho il sospetto che una, peraltro improbabile, maggioranza assoluta di seggi dell’alleanza Rassemblement national-Républicains di Ciotti, e una conseguente ascesa di Jordan Bardella alla carica di primo ministro non rallegrerebbe Meloni. Che tiene moltissimo a essere considerata il faro delle destre europee e che conduce una politica in molti punti divergente – soprattutto sul piano economico – da quella di Marine Le Pen e soci».

Quanto plausibili sono gli allarmi di alcuni analisti che vedono i fondamenti dell’attuale consorzio europeo messi in discussione dalla cosiddetta avanzata delle destre?

«Li considero in larga misura eccessivi. Per motivi diversi, sia i partiti facenti capo all’Ecr sia il partito – e il governo – di Orbán non hanno alcuna intenzione di mettere in discussione l’attuale struttura dell’Ue. Tutt’al più auspicano qualche modifica del suo funzionamento. Il caso Meloni insegna: una volta entrati nel salotto buono dell’Unione, ci si adegua alle sue buone maniere».

L’Europa è destinata a rimanere un’entità fredda e dirigista e culturalmente succube dei nuovi dogmi woke d’oltreoceano, o ci sono margini per recuperare un’identità propria nel rispetto dell’autonomia delle diverse nazioni?

«Di margini ne vedo pochi, perché fino a quando l’Ue resterà legata a doppio filo alle strategie degli Usa e della Nato – o, per meglio dire, dipendente dai loro voleri – non potrà mai ambire a tracciare una propria rotta politica, economica, culturale o geopolitica. E, stando così le cose, quand’anche qualche Stato nazionale riuscisse ad avere mani più libere al proprio interno, a cosa servirebbe?».

In Italia si sottolinea l’avvento di un nuovo bipolarismo, incarnato da Giorgia Meloni ed Elly Schlein: è davvero così?

«Per il momento le cose vanno in questa direzione, e in tempi di personalizzazione e mediatizzazione della lotta politica questo confronto/scontro diretto, molto gradito a entrambe le contendenti, ha buone probabilità di durare. Anche se, in un’epoca in cui la politica è sempre più condizionata da fattori estranei, economici e geopolitici, qualcosa di nuovo, sotto forma di crisi, può modificare in modo inatteso gli scenari».

È un dato di cui rallegrarsi o anche in questo caso la polarizzazione favorisce l’astensionismo?

«Di solito la polarizzazione ha un effetto mobilitante sulle opposte tifoserie – che però sono ridotte a questo ruolo».

Nel suo ultimo libro analizza le stagioni della destra italiana: pensa che un’abiura definitiva del fascismo metterebbe Giorgia Meloni al riparo dalle critiche e dalle diffidenze che la accompagnano?

«Nessuna abiura avrebbe questo effetto, e anzi verrebbe interpretata come un segnale di debolezza, oltre ad accompagnarsi a un’ondata di ulteriori sospetti e insinuazioni sulla sincerità di una scelta di quel genere. Sarebbe solo un modo per alienarsi quegli elettori che, pur senza coltivare nostalgie, si rifiutano di accettare la riduzione caricaturale di un fenomeno complesso della storia italiana all’immagine manichea che ne danno gli antifascisti di professione».

Come giudica il tentativo del governo di modificare il sistema culturale in Italia?

«Esiste, questo tentativo? Dov’è? Io, per il momento, vedo soltanto nomine ai vertici di questa o quella istituzione controllata dallo Stato. Ma nelle case editrici, nelle redazioni giornalistiche, nelle scuole, nelle università, nelle società di produzione cinematografica, nelle compagnie teatrali, nel mondo della musica e via elencando niente è cambiato. E niente potrà cambiare se non si costruirà, poco alla volta, una nuova atmosfera culturale. Che ha bisogno di idee capaci di attrarre consenso e di ingegni capaci di produrle e farle circolare, non di direttori o commissari straordinari di questo o quell’ente. Per adesso, le premesse di questa rivoluzione culturale non riesco a scorgerle all’orizzonte».

Con alcune nomine nelle istituzioni si è cominciato a parlare di nuova «egemonia culturale» della destra. Che cosa caratterizza precisamente quella che viene chiamata cultura di destra e la sua egemonia è un obiettivo da perseguire?

«La lotta per l’egemonia culturale, come lo stracitato (a ragione) Gramsci ha insegnato, è parte essenziale della lotta politica. Per sfidare quella esistente, di segno progressista, che è tuttora molto estesa, bisogna sforzarsi di mettere in circolazione idee capaci di entrare gradualmente a far parte del senso comune, cioè di attecchire nella mentalità collettiva. Un compito immane, anche se necessario».

Ancora prima, esiste un ceto intellettuale in grado di alimentare e promuovere una cultura così concepita?

«Questo è il punto. Decenni di egemonia intellettuale progressista hanno saturato gli ambienti culturali di cui dicevo, spesso anche grazie a politiche di nepotismo e clientelismo. E, salvo pochi casi, chi non aveva opinioni gradite è stato accuratamente tenuto fuori dai luoghi di riproduzione del potere culturale – a partire dalle università – anche se mostrava qualità notevoli. Questo fenomeno accade tuttora, per esempio nel reclutamento nei dottorati di ricerca o in taluni ambiti artistici. Se le cose non cambieranno, questo ceto intellettuale non avrà modo di formarsi. E sarà facile, agli avversari, metterne alla berlina l’assenza».

Qualcuno osserva che i nuovi dirigenti di queste istituzioni devono favorire il dialogo con gli intellettuali della sinistra, ma poi accade che un gruppo di scrittori contesta le regole di organizzazione della rappresentanza italiana alla Fiera di Francoforte. Qual è la sua opinione?
«Detesto la faziosità degli “intellettuali militanti”, avendone subìto gli effetti in più occasioni, e sono convinto che la disponibilità al dialogo sia uno dei requisiti fondamentali per chi fa cultura. Non sarà però facile convertire a questa pratica di civiltà chi è abituato a considerarsi moralmente superiore a chiunque abbia opinioni diverse e, soprattutto, teme di perdere posizioni di supremazia che riteneva definitivamente acquisite. Il caso dei non pochi scrittori che si sentono storici, profeti o coscienze dell’umanità perché stanno politicamente e ideologicamente “dalla parte giusta” è tipico».

 

La Verità, 29 giugno 2024

Prime pagine de Il Giornale

Ecco alcune prime pagine de “Il Giornale” con articoli di Maurizio Caverzan. Cliccare sulle miniature delle pagine per leggere e scaricare i relativi file .pdf.

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