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Guai a non sottoscrivere Imagine di Lennon

Eh no, su John Lennon non si può. Mito intoccabile sopra ogni bandiera. Un po’ come De Rica. Ricordate i mitici caroselli di Gatto Silvestro, gatto maldestro? Al culmine del folle inseguimento di Titti, l’infoiatissimo felino si arrestava immancabilmente davanti al barattolo di pomodori pelati, zona franca su cui si rifugiava il canarino dalla voce stridula. John Lennon e la sua Imagine sono un totem assoluto, un’utopia senza tempo, un dogma degno di venerazione incondizionata. Unanime, univoca, indistinta. Impossibile criticare la sua summa irenica e neutralista. Il suo capolavoro transnazionale. Anzi, transplanetario. Invece, c’è chi dice no. C’è chi non si uniforma, suscitando cori stupiti di disapprovazione e di signora mia. E pazienza per il pensiero unico ecopacifista alternativo.

Per chi si fosse perso il sorgere della nuova polemica serpeggiante sui giornaloni, è successo che, richiesta da Luca Telese su La7 di pronunciarsi sulla cover lennoniana, definita spericolatamente da Susanna Ceccardi, candidata del centrodestra in Toscana, un «inno marxista», Giorgia Meloni abbia detto che sì, «è una bellissima canzone» fin quando la cantiamo senza impegno magari non conoscendo l’inglese. Ma che, se si va a vedere, quel testo che parla di abolizione delle religioni e delle nazioni, in realtà è una sorta di «inno all’omologazione mondialista». Quindi, anche no, non mi riconosco, aveva concluso Meloni, ribadendo la sua cultura identitaria.

Non l’avesse detto: scheggiata maestà. La solita destra che non capisce di cultura e di musica, e ascolta solo Lucio Battisti… Un diluvio. Ma insomma, Lennon era un’icona, un poeta, il creatore con Paul McCartney di tante canzoni simbolo della nostra gioventù. È morto ucciso da un pazzo arrestato dalla polizia mentre leggeva Il giovane Holden di Jerome David Salinger, «anche quello un libro… che tanto identitario non pare» (così Antonio Polito sul Corriere della sera). Il compagno di Yoko Ono era un sognatore, un personaggio controverso, un artista visionario, pacifista, capace di contestare anche gli eccessi del Sessantotto. Come si fa a discuterlo…

Premesso che il torto della Meloni, se di torto si tratta, era stato quello di criticare, rispondendo a precisa domanda, un testo musicale e non di pronunciarsi sulla figura del fondatore dei Beatles, apriti cielo. Lo stesso che Lennon vorrebbe fosse l’unica cosa sopra di noi, Above us only sky. Guarda caso il verso che, come ha scritto sulla Stampa, Paola Mastrocola ama di più. Tranne quando si squarcia rumorosamente come in questo temporale di mezza estate, verrebbe da dire. Ecco, si potrebbe partire proprio da qui per provare a dire perché, con il suo neutralismo etereo, Imagine dell’intoccabile John Lennon non soddisfa. E cioè sì, il cielo, siamo tutti sotto lo stesso. E anche il firmamento e le stelle: meraviglie del creato, per altro. Ma noi umani siamo con i piedi ben piantati sulla terra e, non per caso, un tipino come Gesù Cristo si è degnato di scenderci. Da lassù. Voglio dire, noi umani siamo fatti di carne, di storia, di passioni, di preferenze, di scelte. Un patrimonio non necessariamente da stemperare, relativizzare o vivere con fastidio. Non siamo angeli asessuati come quelli che presumibilmente sarebbero a loro agio nel mondo senza paradiso e inferno, asettico e liofilizzato, «unica entità» di Imagine (a ben vedere, forse nemmeno loro ci si ritroverebbero, considerate le gelosie e le superbie luciferine).

Certo, abbiamo amato tante canzoni senza cavillare sul testo inglese. Ma quando si vuole issarne una a vessillo universale, inno generazionale, modello della miglior utopia sognabile, non si può «lasciarla fluttuare come pura musica». Non è vero che «una canzone-mito non si può toccare». Conviene almeno tradurla e ragionarci un attimino. Senza per forza essere equiparati agli abbattitori di statue, agli iconoclasti che cancellano capolavori di letteratura e arte per puro sfizio correttista.

Non c’è nessun sentore di «cancel culture» nel non riconoscersi nel testo di una canzone di un troppo venerato maestro. Un conto è il diritto al dissenso e alla critica, un altro la cancellazione della storia con la ruspa del conformismo postumo. Piuttosto, tra l’adesione all’utopistico neutralismo di Imagine e il realismo dell’umanità c’è un’idea diversa della vita, della storia, del pensiero, questo sì. E lo dico con dispiacere riguardo a Paola Mastrocola, di cui ho sempre apprezzato saggi e romanzi (vale pure per Polito). «Dobbiamo non appartenere, per essere», scrive l’autrice del bellissimo Leone (Einaudi, 2018). Personalmente, la penso all’opposto. È appartenendo a qualcosa o a qualcuno che siamo e diventiamo. Non per niente si dice: sono figlio di, marito di, fratello di… È appartenendo a una storia, a una terra, a una persona, che possiamo confrontarci con il diverso da noi. Arricchendoci, crescendo, maturando. Lo documenta, per esempio, l’esperienza amorosa, la più umanamente totalizzante che due persone possono compiere. È diventando uno parte dell’altra – si può ancora dire? – che si genera una nuova vita. Non immaginando vaghe astrattezze, peraltro irraggiungibili perché prive di corrispondenza con la, solitamente adorata, natura.

La Verità, 24 luglio 2020

Capuozzo: «Il giornalismo è solo un mestiere»

Anche a Treviso il teatro era pieno. Come sempre, dove Tre uomini di parola va in scena, non solo nel Nord est. Toni Capuozzo ha appena finito di firmare autografi e salutato Mauro Corona, lo scrittore montanaro, e Gigi Maieron, cantautore, anche loro friulani. Stavolta il ricavato dello spettacolo, «una chiacchierata teatrale fra amici dalle comuni origini», andrà al comune di Gagliole, un paesino terremotato delle Marche. In precedenza gli incassi erano serviti per costruire una casa per grandi ustionati in Afghanistan. «Gli alpini della Julia, presenti laggiù, ci avevano chiesto se volevamo dare una mano. La prima volta improvvisammo una conversazione a Cividale del Friuli. Piacque, siamo arrivati a una quarantina di repliche». Capuozzo è come lo vedete, collegato da qualche avamposto, su Rete 4. Col suo accento furlàn, l’aria da orso, le Occhiaie di riguardo che danno il titolo al libro che raccoglie i suoi articoli per Il Foglio. Vince premi giornalistici senza cercarli. Nel 1992, di ritorno da Sarajevo, portò in Italia nascosto nel giubbotto antiproiettile, Kemal Karic, un bambino di pochi mesi colpito dalla bomba che uccise la madre e lo privò della gamba destra.

Come sta oggi Kemal?

«È una vicenda dolorosa, di cui non parlo volentieri. Quando si prova a fare del bene conviene tacerlo, preferisco passare per cattivo. Anche alle donne i cattivi piacciono di più (sorride). Kemal ha 25 anni e un tumore. Presto subirà una nuova operazione. A Natale è venuto in Italia per delle visite. Il padre si è un po’ perso… Ma c’è una brava nonna».

Uno di Lotta continua come fa a lavorare 25 anni nelle tv di Berlusconi?

«Sentendosi abbastanza solo sia nelle tv di Berlusconi che in Lotta continua. Da grande individualista, ci ho messo del mio. E sono grato sia a Lc che a Berlusconi che mi hanno permesso di fare il giornalista come volevo».

Cioè?

«Senza troppa enfasi. Non dico “sono giornalista”, ma “faccio il giornalista”».

Mai avuto frizioni per motivi editoriali?

«Su Lotta continua ho raccontato la fuga dei marielitos da Cuba e la mia corrispondenza venne ripresa in prima pagina dal Giornale di Montanelli, all’epoca considerato un campione borghese. La cosa non accrebbe la mia popolarità in Lc. A Mediaset ho sempre fatto il mio lavoro senza problemi. È vero, non mi sono mai occupato di politica italiana. Forse ci sono meno implicazioni a scrivere da Sarajevo o da Tripoli, anche se i bombardamenti sulla Libia partivano dall’Italia governata da Berlusconi. È più pericoloso fare l’inviato in un paese di mafia o in Siria, dove sono stato per raccontare la fine della cittadina cristiana di Maaloula».

Indro Montanelli rilanciò sul «Giornale» le corrispondenze di Capuozzo su Cuba

Indro Montanelli rilanciò sul «Giornale» i reportage di Capuozzo da Cuba

A proposito di Siria, che cosa pensi del bombardamento ordinato da Trump?

«Se mi chiedi se Assad è capace di usare armi chimiche contro la popolazione civile ti rispondo di sì. Rispondo di sì anche se mi chiedi se i ribelli sono capaci di mettere bombe vicino alle abitazioni civili. Con questo bombardamento Trump è tornato a essere il presidente degli Stati Uniti».

Non solo dei repubblicani, vuoi dire.

«Anzi. Questa è una mossa alla Clinton. Il che dimostra che anche per Trump le campagne elettorali sono una cosa e la politica interna e internazionale un’altra. Anche lui si è omologato al fatto che gli Stati Uniti sono quelli che bombardano».

Parliamo dei giornalisti cresciuti in Lotta continua, da Adriano Sofri a Nini Briglia, da Gad Lerner a Paolo Liguori: che rapporti hai con loro?

«Quando sono entrato in Lotta continua ormai c’era solo il giornale. Con Gad Lerner ho anche battibeccato. Per Mauro Rostagno ho firmato perché a Trento si facesse un monumento. Diciamo che li ricordo con affetto, come si ricordano quelli con i quali hai fatto la naja».

Nella videolettera scritta in occasione degli 80 anni di Berlusconi hai pronunciato diversi grazie. C’è qualcosa di cui non gli sei grato?

«Chiedergli di continuare a fare l’editore e a esprimere la sua energia nelle aziende sarebbe stato come chiedergli di non essere Berlusconi. M’ispira simpatia persino nelle passioni, politica compresa, che non mi appartengono per niente. Mia madre e mio padre, agente di polizia, mi hanno insegnato il rispetto per le persone umili e perdenti più che per i potenti. Berlusconi perdente è un ossimoro, ma è stato molto avversato, demonizzato dalla stampa e dalla magistratura. Questo me lo rende simpatico. Mi è successo anche con Craxi ad Hammamet. Non mi serve un nemico per esistere».

Come giornalista iniziasti in Rai?

«Il primo lavoro fu per una tv svedese in Salvador. Per Mixer feci dei servizi sulla ’ndrangheta. L’esperienza che mi è servita di più fu a Epoca: non tornavi senza il reportage fotografico. Così ho imparato il valore delle immagini. Gli amici più cari erano i fotografi. Poi mi chiamò Giuliano Ferrara all’Istruttoria».

A Terra! fai il conduttore di strada.

«Con Mentana e Sposini ero inviato del Tg5 e facevo Terra! conducendola anche da Baghdad. Conduttore di strada lo scriverei sul biglietto da visita. Anche lì però servono la regia, la troupe, le luci. È come quando compri le arance dal furgoncino: informazione a chilometro zero».

Con al centro la vita quotidiana delle persone?

«Diciamo che non coinvolgo i potenti. La mia speranza è che dopo aver visto Terra! lo spettatore si alzi con più dubbi di quando si è seduto».

Dal 10 aprile va in onda su Rete 4  uno spin off intitolato Casa Capuozzo, quattro puntate di reportage sui migranti. È difficile stare in equilibrio tra buonismo e cattivismo?

«È un titolo autoironico. Non sono partito dalle ideologie, ma dalla casa dei miei. Mia madre era triestina, mio padre napoletano e io sono cresciuto a Udine. Penso che se l’immigrazione non funziona nel Nord est, terra di emigranti, difficilmente può funzionare altrove. Mi sembra che gli immigrati di oggi siano carichi di attese e illusioni. Ho tentato di raccontarli andando oltre il boldrinismo e il salvinismo».

Pensi di esserci riuscito?

«Non lo so. Il nemico è l’ipocrisia. Abbiamo una classe politica capace di sussulti e minacce, ma non di un’idea di futuro. C’è troppa melassa. Certi richiedenti asilo dell’Afghanistan o del Pakistan sono giovani e forti e hanno lasciato a casa le donne. Nei tg sentiamo dire: “Salvati 1500 migranti”. In italiano la parola “salvati” riguarda chi è in pericolo di morte. Si dovrebbe dire: “Raccolti”. Mare nostrum non è servita a dissuadere chi voleva partire e ora registriamo più arrivi e più morti di prima».

Non fai informazione da cane da guardia contro i poteri forti: indole, mancanza di mezzi o a Mediaset è difficile?

«L’espressione “poteri forti” non mi appartiene. Non capisco se si riferisce alla Trilaterale, alla massoneria, alla magistratura, alla Consob. Abitano nei palazzi, mentre io frequento la strada. Più che un cane da guardia sono un cane randagio».

Che cosa pensi dei talk show?

«Li trovo poco autentici, anche se possono rivelare la preparazione o l’impreparazione dei politici. Qualche volta ci vado, soprattutto se mi coinvolgono sul terrorismo o sulle guerre. Ma resto un po’ un orso».

Preferisci Report e Presa diretta?

«Milena Gabanelli l’ho sempre stimata. Le sue inchieste richiedono mesi di lavoro. I tempi lunghi sono un bene prezioso, maggior ragione in un’epoca di fast journalism. Il lavoro di Riccardo Iacona lo sento più vicino, sebbene non la pensi come lui. In realtà, guardo soprattutto documentari di storia o naturalistici».

Milena Gabanelli, ex conduttrice di «Report»

Milena Gabanelli, ex conduttrice di «Report»

Cosa pensi dei cachet degli artisti Rai e dell’ingerenza della politica denunciata da Fabio Fazio?

«Penso che ci vorrebbe più discrezione. Non si può recitare da verginelle appena usciti dal bordello. È vero, esiste il mercato e la tv pubblica deve farci i conti, ma certe cifre fanno pensare. Soprattutto a quante famiglie non arrivano a fine mese».

Se dovessi indicare un maestro di giornalismo televisivo?

«Non saprei, ho sempre cercato di essere me stesso. È inutile provare a fare grande cucina se sei bravo a tagliare formaggio e salame. Maestri? Diciamo che le riunioni con Ferrara sprizzavano intelligenza e che con Mentana ho imparato la velocità nell’afferrare la notizia».

In quella lettera a Berlusconi sconsigliavi i giovani dal tentare la professione di giornalista.

«Non voglio illuderli che riusciranno facilmente a viaggiare per raccontare il mondo. È uno sconsiglio paterno».

Ti piacerebbe essere giovane oggi?

«Preferisco fare i conti con la vecchiaia. Quando tengo delle lezioni in università vedo una generazione che rispecchia l’incertezza di tempi, molto diversi da quelli in cui ero giovane io e trovare lavoro era facile».

Cosa ti piace dell’Italia di oggi?

«Il paesaggio, sempre bello e affascinante, anche se un po’ rovinato. D’estate, a Pantelleria, ritrovo il sapore degli anni Cinquanta. Amo i borghi, le viuzze della Toscana e del mio Friuli, la cucina popolare e i dialetti che cambiano ogni venti chilometri. Più che campanilismi, una ricchezza. L’insistenza sul multiculturalismo e l’apertura alle comunità musulmane mi lascia perplesso. Siamo già il Paese delle piccole patrie, dobbiamo solo non ridurle a folclore».

In politica che cosa vedi?

«Non voto da 25 anni, non l’ho fatto neanche al referendum. Non sono un cittadino esemplare».

C’è una passione, un personaggio, una manifestazione che non ti perdi?

«Le partite del Milan. Mi piace guardarle con mio figlio, in un patto silenzioso tra uomini. Anche il telegiornale era un rito, ma ora le notizie arrivano sul telefonino».

Letture predilette?

«Sono un lettore disordinato. Mi piaceva Gabriel Garcia Marquez, ora amo Mario Vargas Llosa e Philip Roth, Paul Auster. Trovo la letteratura italiana contemporanea troppo intimista».

Adesso sul comodino?

«Un saggio inglese che racconta la storia del mondo attraverso mappe e carte geografiche».

 

La Verità, 9 aprile 2017