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«Non ha alcun senso parlare di tecnodestra»

Giacomo Lev Mannheimer è stato capo della policy per l’Europa meridionale di TikTok e poi di Apple ed è co-fondatore di FutureProofSociety, una startup che aiuta le imprese a fronteggiare le grandi trasformazioni. L’ultimo saggio, intitolato I mercanti nel palazzo, appena pubblicato dal Mulino, illumina i rapporti tra aziende, big tech e potere politico.
Dottor Mannheimer, la fotografia del palco di Capitol Hill all’insediamento di Donald Trump con Elon Musk, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg in prima fila è la perfetta rappresentazione del titolo del suo libro?
«Una rappresentazione plastica, direi. È la manifestazione estetica di un fenomeno che, come tutte le manifestazioni estetiche, ha radici profonde e complesse nel tempo».
È un titolo che richiama l’episodio evangelico di Gesù che caccia i mercanti dal tempio?
«Che avvenne non perché i mercanti vi facevano il loro lavoro, ma perché, con la venuta di Cristo, non era più necessario commerciare animali da sacrificare. Al contrario, quello che oggi i mercanti portano nel palazzo sono informazioni utili perché, senza quelle, il palazzo sceglie male».
Quali sono le radici del fenomeno?
«C’è un’aura di mistero sul lavoro dei lobbisti e sulle interazioni tra aziende e politica. Ma in realtà è un’attività normale, utile a tutti, perfino alla stessa democrazia perché allarga la possibilità per la società civile di portare alla politica dati, punti di vista e istanze».
L’Inauguration day è stata l’espressione della tecnodestra?
«No. Sicuramente Elon Musk non fa mistero della sua opinione politica ma, innanzitutto, sono mutevoli le categorie di destra e sinistra e, in secondo luogo, tutti gli altri pensano, com’è giusto che sia, principalmente ai loro interessi».
La convince di più il termine oligarchi?
«Nemmeno, non ci vedo niente di oligarchico. Semplicemente sta accadendo alla luce del sole ciò che accade da sempre: potere politico e potere economico si parlano di continuo e in modo approfondito».
Tuttavia, quel parterre non poteva non colpire: qual è il modo corretto d’interpretarlo?
«Trump si è accorto che è più intelligente portare dalla sua parte il potere dell’industria tecnologica rispetto a quello dell’industria tradizionale com’è sempre accaduto in passato».
Ha capito che i big tech sono strategici.
«È una vittoria di Trump più che di Musk, il quale avrebbe potuto influenzare anche l’amministrazione precedente».
Dobbiamo considerarlo come un plateale endorsement pro Trump?
«Sì, bravo Trump ad averlo ottenuto in modo così plastico. Ma non era diversa la situazione quando le piattaforme collaboravano quotidianamente con l’amministrazione Biden. La differenza è che Biden non ha saputo sfruttare a suo vantaggio quella collaborazione».
Federico Rampini ha sottolineato la velocità del nuovo riposizionamento.
«Specialmente durante la pandemia ci sono prove di contatti giornalieri fra le piattaforme e il governo americano per decidere cosa si potesse dire e cosa no. Il livello d’interazione era così intenso che come allora le big tech erano sintonizzate su quale dovesse essere il loro ruolo, così lo sono adesso, con la nuova presidenza».
Perché il bersaglio principale delle critiche è Elon Musk?
«Perché si espone politicamente in prima persona da uomo più ricco del mondo. In questo è diverso da Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e gli altri».
Perché si stigmatizzano il presunto saluto romano, le interferenze sui governi europei e i conflitti d’interessi, mentre non si dice nulla su altre distorsioni come il transumanesimo, il ricorso all’utero in affitto e, in generale, il potere salvifico della tecnica?
«È un tentativo di framing, cioè di inquadrare una persona estremamente complessa dentro categorie note alla maggioranza su cui è più facile fare propaganda».
Lo si riduce in un ambito stretto omettendo inclinazioni più prossime al mainstream?
«Che lo renderebbero difficile da comprendere alle persone comuni».
È giusto allarmarsi se l’uomo più potente e l’uomo più ricco del mondo si alleano?
«Mi porrei piuttosto il problema della dipendenza dell’Italia e dell’Europa dal potere politico e tecnologico americano. Ma la responsabilità di questa dipendenza è nostra, non loro».
È giusto alzare il muro contro Starlink per proteggere la tecnologia europea?
«Con i soldi del superbonus avremmo potuto fare cinque Starlink per l’Italia».
La tecnologia europea è competitiva?
«Non lo è a causa di scelte compiute in passato. Bisognerebbe investire sulle tecnologie che determineranno i prossimi dieci o vent’anni».
Perché fino a ieri il cosiddetto allarme democratico non c’era?
«Per un fattore estetico: e qui torniamo alla brutale evidenza con cui quella foto ha reso esplicito il rapporto stretto fra poteri».
I motivi di allarme c’erano anche prima?
«A mio parere erano enormemente superiori. Perché i rapporti tra questi poteri erano non visibili e non trasparenti e avevano obiettivi prevalentemente di censura. Oggi hanno obiettivi di supremazia dell’economia americana».
Su questo fronte, come si è visto con l’intervento al Forum di Davos, i rapporti fra Trump e l’Europa sono destinati a inasprirsi?
«Trump fa gli interessi degli Stati Uniti, l’Europa dovrebbe imparare a fare i propri. A mio avviso non è nei suoi interessi alzare muri di leggi e regolamenti».
Che ruolo può avere Giorgia Meloni in questo scenario?
«Speriamo che faccia da àncora di salvataggio, colmando il vuoto lasciato dall’assenza di dialogo con le istituzioni europee».
Tornando al controllo dell’informazione, durante l’amministrazione Biden non si faceva che parlare di fake news.
«E questa veniva considerata un’azione meritoria. Ma come ha recentemente ammesso Zuckerberg si è trattato di un errore di valutazione».
I grandi media hanno ignorato la notizia delle pressioni dell’amministrazione Biden su Meta relative ai vaccini anti Covid e i loro effetti avversi.
«I media tradizionali sono abituati al controllo politico e l’idea che i social media possano liberarsene li spaventa perché potrebbe indirettamente indebolirli».
È una gara a censurare meglio?
«Nelle dirigenze dei media tradizionali si pensa che i social media dovrebbero essere sottoposti allo stesso trattamento cui sono sottoposti loro. Ma allo stesso tempo si pensa che è una cosa da non far conoscere ai cittadini».
Come va interpretato l’atteggiamento morbido di Trump verso TikTok?
«È una geniale operazione di marketing politico che non ha nessuna base sostanziale, ma aiuta Trump a posizionarsi come vicino agli utenti della piattaforma e ai giovani. Mi ha colpito che nelle 24 ore di blocco della piattaforma la schermata riportava esplicitamente la fiducia che Trump risolvesse la situazione».
Il riposizionamento delle big tech serve a ottenere un trattamento fiscale più vantaggioso da Trump?
«Non credo, perché paradossalmente il fisco non è uno dei principali problemi delle piattaforme. Lo è di più la possibilità di sperimentare modelli di business e uniformità di regole nei Paesi in cui operano. Un esempio è il limite allo sviluppo dell’intelligenza artificiale dovuto alle regole europee che è un ostacolo enorme al business delle piattaforme in Europa».
Come dobbiamo catalogare il silenzio che ha avvolto la notizia dei fondi Ue usati dall’ex vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans per pagare associazioni ambientaliste per le campagne a sostegno dell’agenda green?
«È un fatto gravissimo perché sono soldi pubblici, mentre il lobbing è fatto con soldi privati spesi legittimamente, fino a prova contraria».
Anche qui ritorna l’atteggiamento omertoso dei media.
«È molto grave perché, ripeto, si tratta di soldi pubblici usati per un’azione esterna al mandato istituzionale di Timmermans. Il silenzio dei media, con pochissime eccezioni, purtroppo ha una natura ideologica che dipende da un profondo imbarazzo».
Perché per lei la priorità non è difendere il palazzo dai mercanti, ma difendere i mercanti dal palazzo?
«Perché la politica sfrutta le lobby come capro espiatorio di mancate scelte, mentre più trasparenza sugli interessi privati costringerebbe la politica ad assumersi le proprie responsabilità».
Per esempio?
«Le vicende dei taxi e dei balneari su cui la politica rimanda, imputando la decisione alle categorie».
Fino a qualche mese fa i social media erano palestra e veicolo della cultura woke, del gender e del green deal, perché ora non lo sono più?
«Giocano un ruolo importante le regole interne alle piattaforme, mentre dal punto di vista politico e sociale un cambio di vento è visibile da qualche anno. Musk si è fatto interprete di questo cambio di vento. Sarà interessante vedere cosa arriverà in Europa, specialmente nelle aziende. È lì che sono cambiate le strutture, le politiche e le decisioni. In tante aziende non si sono potuti assumere uomini per anni».
Diverse aziende hanno sospeso l’adesione ai protocolli Die (diversity inclusion e equality).
«Non fanno notizia per ora e non sono sicuro che siano così tante. Infine, bisogna vedere come si concretizzerà questa sospensione».
«Niente è più forte di un’idea di cui sia giunto il tempo» è un’espressione attribuita dal politologo John Wells Kingdon a Victor Hugo. Sembra che in molte parti del mondo cresca il consenso verso posizioni conservatrici, com’è maturato il tempo di questa idea?
«È maturato dagli shock digitale, energetico e geopolitico che hanno aumentato l’incertezza diffusa e spinto le persone a tirare il freno e conservare il più possibile ciò che hanno sempre conosciuto e capito meglio».
Tuttavia, i dati economici e sociali indicano un maggior benessere rispetto a qualche anno fa. O forse si tratta più di benavere che di benessere?
«Quello che conta è la percezione e la percezione è di un mondo che va velocissimo e in cui le certezze sono sempre meno».
Ciò a cui stiamo assistendo è un cambiamento culturale, una ribellione all’establishment o una mutazione di tipo economico e geopolitico?
«Nessuna delle due. Credo sia il cambiamento in una direzione che è influenzata sempre meno dalla politica e sempre più dalle imprese».
Concorda con chi parla di fine della globalizzazione?
«No. Esiste una forte tensione tra reti digitali e fisiche sempre più globali ed esperienze e consumi sempre più individuali. Ma il mondo di per sé è molto più connesso di quanto la politica voglia far sembrare».
C’è da rallegrarsene?
«La connessione di per sé è un bene, ma ovviamente richiede grande consapevolezza e capacità critica».

 

La Verità, 25 gennaio 2025

«La lettura per dovere salverà i nostri ragazzi»

W la scuola. A un certo punto del suo Contro Pinocchio (Einaudi), titolo da pamphlet più che da memoir, al culmine di una serie di ricordi e citazioni mandate a memoria, Aurelio Picca annota: «Non stiamo a scuola. Abbasso la sguola. W la scuola». Scritto così, con la doppia vu, come si faceva da ragazzini mezzo secolo fa (di solito la vu era rovesciata). E infatti «scuola» sembra rimbalzare da un’altra era. Anacronistica, lontana. Una cosa con i banchi affiancati. La lavagna. La maestra con la messa in piega. Preistoria, in tempi di Dad e Whatsapp. «Oggi la scuola non esiste più, è tutta burocrazia», sbotta Picca dalla sua casa tra gli ulivi sopra Velletri. E nel tono della voce, nell’incalzare del pensiero si avverte tutta la sua carica nervosa, corporale.

Parlavamo della scuola.

«È un grande parcheggio, un tempo di attesa. Chi ci va per imparare? Nessuno. Si va per relazionarsi…».

O per postare i video su TikTok.

«Appunto. Quando ho insegnato, per qualche anno, li facevo leggere e scrivere, leggere e scrivere… Li facevo imparare a memoria i canti di Dante. Adesso arrivano alle superiori che leggono scorrendo le parole con l’indice».

E lei vorrebbe far leggere Cuore di Edmondo De Amicis?

«No, voglio che imparino l’italiano. Che capiscano che cos’è una comunità, una memoria comune, un’appartenenza a una storia. Tanto per cominciare, tornerei a una solo maestra».

Partita persa.

«Probabile. Ma servono insegnanti che sappiano anche loro leggere e scrivere e insegnino la nostra letteratura, non quella americana tradotta. Alessandro Manzoni è modernissimo. Bisogna tornare alla lettura per dovere, che non vuol dire imposta, ma seriamente motivata. In officina se devi usare il tornio devi imparare come si fa. Se vuoi capire chi siamo noi italiani, devi passare dalla letteratura che ce lo dice».

Non Pinocchio, come dice il titolo del libro.

«Si sa come sono i titoli, servono a catalizzare. Più che contro Pinocchio è un libro contro tutti».

Non ci facciamo mancare niente.

«Contro la globalizzazione che ha preso un bel colpo dalla pandemia. Contro il Novecento inteso come secolo breve, che invece non è ancora finito. Contro gli italiani che pensano ancora all’Italia dei borghi e dei souvenir, non certo all’Italia del silenzio e della visione che ho visto da ragazzino».

Pinocchio non le piace perché è un burattino senz’anima?

«Intanto devo dire che ho letto la prima versione nella quale non diventa mai bambino. Lo attacco perché non sta nella realtà, non si fa male a giocare, non c’è la carne. Infatti, non ci dicono di che legno è: faggio, rovere, castagno? Sembra una storia virtuale. Con il legno vero da ragazzini ci facevamo le spade…».

Pinocchio ha ispirato trattati di teologia, di pedagogia, di filosofia perché ha la doppia natura: contestarlo vuol dire privarsi di un pezzo di storia.

«Tutto è partito da una riflessione su cosa far leggere a scuola. Rispetto all’ignoranza dei ragazzi di oggi che non conoscono la storia e la geografia e viaggiano sul computer, Pinocchio non dà risposte. Così, all’inizio abbiamo pensato a un saggetto polemico».

Che poi è diventato un memoir sull’infanzia.

«Faccio la spola tra le memorie letterarie e quelle reali del protagonista. Non è che non veda la metafisica di Pinocchio. Dice persino “Babbo mio vieni a salvarmi”… Solo che non sta nella realtà. Le botteghe dei falegnami non ci sono più, oggi neanche un adulto sa la differenza tra un faggio e un frassino».

Lei preferisce Cuore e I ragazzi della via Paal.

«Cuore è stato scritto a fine Ottocento e ha l’entusiasmo della patria giovane, dell’Italia finalmente unita. Tutta la vita si svolge nell’aula scolastica, dove ci sono i mestieri, gli artigiani, la manualità, le classi sociali. Nei Ragazzi della via Paal invece tutto accade nel campetto, il posto dello scontro con la banda dell’Orto botanico. Che per Ernesto Nemecsek diverrà la sua tomba. Qui la patria è da costruire, è una visione sul futuro che riguarda i ragazzi, ma pure i grandi».

Lei parla dei mestieri, del fabbro e del falegname, ma oggi siamo nell’era digitale.

«Per questo è un libro contro la globalizzazione. Chi si fa i mobili dal falegname? Si va all’Ikea. Non è solo il problema delle merci, dei prodotti, ma pure delle persone. La globalizzazione è standard, interscambio che annulla le differenze, cultura gender avanzata. Non vuole la famiglia, ma single che consumano, che si buttano nella movida, che viaggiano e fanno tutto online».

Dopo il Covid, la guerra in Ucraina ha sancito un altro stop.

«Il Covid ha decretato la caduta della prima globalizzazione, la guerra è il funerale definitivo».

Scrive: «La Russia è il cuore più grande del mondo. Non a caso è il Paese che ragiona in maniera superiore agli altri con il cuore e la vita che vi scorre». Se la legge qualche autore di liste di proscrizione le dispone un Tso d’urgenza.

«’Sti cazzi, dicono a Roma. Se fosse ancora vivo Carl Gustav Jung direbbe che gli americani non possiedono un inconscio collettivo, perché ce l’avevano gli indiani che non ci sono più. L’inconscio collettivo ce l’ha l’Europa cristiana, l’Europa dei miti. Quello più potente ce l’ha la Germania e ha le sue radici in Wotan, il dio della guerra. L’inconscio della Russia si fonda nella cristianità e nella spiritualità, nell’eterna pulsione dei barbari».

Tutto questo per dire cosa?

«Che in questa guerra conta, sì, la struttura, cioè l’economia. Ma contano pure le antropologie e le diverse idee di futuro. Non voglio parlare di guerre di religione, ma mi sembra che si affaccino delle questioni che riguardano il come si deve vivere. Del resto la questione della Russia e dell’Asia viene da lontano».

Lontanissimo.

«Con Giustiniano, Bisanzio era la seconda Roma. Già allora si voleva creare un mondo eurasiatico includendo la Russia. Per alcuni Mosca è la terza Roma. Nella modernità l’unico che ha avuto l’idea di inglobarla e ha parlato di Eurasia è stato Charles De Gaulle che era tutt’altro che atlantista. Voglio dire che non possiamo respingere la Russia, relegarla nell’Oriente».

Finché però c’è uno come Vladimir Putin che invade un Paese sovrano è un’operazione che risulta difficile.

«Putin e la Russia sono due cose diverse. Né noi possiamo risolvere il problema giustiziando Putin perché, a prescindere da lui, la Russia resterà una presenza imprescindibile a tutti i livelli. Hanno fatto fuori gli zar ed è arrivata l’Unione sovietica, è caduta l’Unione sovietica ed è arrivato Putin. La Russia è un’entità culturale complessa con cui fare i conti. Che in qualche modo ci fa da specchio, come noi europei facciamo da specchio alla Russia. In questo confronto reciproco emergono le rispettive contraddizioni».

Nel frattempo, nelle università e nei teatri si cancellano gli scrittori, gli artisti e le opere russe.

«È una bestemmia solo porre il problema».

Mentre lei decanta un passato innocente e carnale, la cancel culture vuole setacciarlo con il perbenismo patinato.

«Stiamo assistendo a un’operazione di cinismo culturale che vuole costruire l’uomo post-umano. Il cyborg, il gender. Meno è cosciente di sé e più l’uomo del Terzo millennio è preda della manipolazione e del controllo».

E recide il suo essere creatura.

«Anche il suo mistero, la sua unicità. Siamo esseri uno diverso dall’altro. Invece si vuol rendere tutto uguale e insapore, uniformando gusti e desideri. Basta guardare la pubblicità, gli ammiccamenti, la convergenza sugli stessi gadget. È la distruzione del sacro, dove creatura e natura si incontrano rispettando le diversità. Siamo a un passo dall’apocalisse, dalla fine dell’umanità».

Spariscono anche l’affettività e il sesso?

«Siamo nel post-pornografico. Si parla di sesso perché non si fa più. La prima cosa che ti mandano sono le foto nude, non si ha più il coraggio dell’incontro. Oppure è solo narcisistico, una pulsione drogata, performativa, sbrigativa. Anche il sesso richiede tempo».

Chi sono i «ragazzi-futuro»?

«Prima o poi, defunta la globalizzazione e visti gli effetti del post-umano, qualcuno, una minoranza, comincerà ad avere a noia l’iPhone e il virtuale e inizierà ad avere una visione».

Scrive che Franti è l’antesignano di Billy Boy di Arancia meccanica: il bullismo di oggi non è nuovo?

«C’è sempre stato. Ma si era allenati a combattere da soli perciò non lo si diceva in casa. Era un rito d’iniziazione, una sorta di apprendistato. Caso mai oggi è aumentata la perversione, la serialità della violenza».

Cosa cercano le baby gang che stuprano in gruppo, agiscono come cosche, si radunano con i social per picchiarsi?

«Esprimono un’impotenza. Una volta ci si batteva uno a uno, corpo a corpo. Adesso in gruppo perché da soli manca il coraggio. Il gruppo copre un’inadeguatezza. Si va in palestra, ci si costruisce una forza utile ad alzare pesi, ma inutile nel quotidiano».

Il sesso virtuale, la pubblicità standard, le palestre, la movida…

«Tutto si uniforma e appiattisce. Anche il turismo e la ricerca della bellezza diminuiscono la possibilità di scelta. Tutti in fila al museo, alla mostra gettonata. La fruizione è schiacciata sull’attualismo e sulle esperienze della maggioranza. Si leggono libri come si guardano i format e si guardano le serie come si leggono i libri. I talenti che portano vera creatività non servono alla cultura globale perché tutti devono somigliare a tutti».

Con la guerra in Ucraina si parla molto di bambini mentre se ne fanno sempre meno.

«È indiscutibile che la morte dei bambini sia la tragedia assoluta. Ma in questo parlarne vedo ipocrisia e cinismo, perché poi nelle relazioni quotidiane, il primo obiettivo è che i bambini non disturbino gli adulti. C’è ancora qualche madre che la mattina prepara al figlio lo spuntino da consumare a scuola? Quello era un gesto rivoluzionario; si fa prima a comprare la merendina industriale».

Le parole salvifiche del libro sono innocenza e patria: dove le rintraccia nella realtà?

«Nella scelta dei rapporti. Nel dire no a questa ondata che travolge l’umano. È una scelta che si paga con la solitudine. Che però, a volte, aiuta a leggere i fatti. Sebbene io pensi che ci sono uomini che nascono con la grazia e la conservano per sempre e altri no, lo sguardo dell’innocenza non spetta più a noi adulti. Forse l’innocenza sta nella libertà di mostrare la propria fragilità. Il che vuol dire anche esser disposti a donarsi. Al contrario del mondo globale che vuole prendere. E mostra solo forza, giovinezza, perfezione».

 

La Verità, 7 maggio 2022

 

 

«Faccio politica per la mia famiglia: i follower»

In un appartamento di una palazzina a schiera tra Padova e la Riviera del Brenta vive Sara Piccione, 19 anni, 515 mila seguaci su TikTok e 336 mila su Instagram, candidata alle amministrative del 12 giugno con «Padova di Tutti», lista considerata «a sinistra del Pd». Ad attendermi, davanti alla casa della «Chiara Ferragni del Nordest», c’è Salim El Maoued, candidato sindaco e medico di origine libanese. Lei è la sua mutuata più famosa. Voce dolce, occhi da cerbiatto e unghie come lame di porcellana rossa, Sara è un cucciolo che può graffiare.

Mi racconti la tua giornata tipo?

Dopo colazione pubblico qualche storia per dare il buongiorno ai miei follower. Poi vado a scuola e anche da lì posto qualcosa o rispondo alle richieste di consigli. Quando torno a casa verso sera, faccio i video per TikTok e posto altre storie. È il mio lavoro, poi vado a cena.

Che scuola fai?

Ho fatto un corso di estetica di tre anni. Ora sto frequentando un altro anno per poter aprire un centro estetico.

Niente università?

Finito quest’anno vorrei prendere un diploma alla scuola serale che mi dia la possibilità di accedere all’università. A Ferrara c’è un corso di estetica.

In cosa consiste precisamente il lavoro d’influencer?

Se un brand mi chiama per una sponsorizzazione, ci mettiamo d’accordo sul tipo di collaborazione e scegliamo se pubblicare un post o una storia. È l’attività dell’imprenditrice digitale; nel caso di TikTok si chiama «content creator».

Immagino che tu ne tragga un guadagno.

A volte sì, a volte no, dipende dal brand.

Che tipo di brand ti contattano?

Della moda, in generale.

Che oggi si dice fashion?

Non proprio. La moda riguarda il vestire. Il fashion ha a che fare con le sfilate, le tendenze…

Scegli di postare su Instagram o TikTok in base al target o ai contenuti?

Ai contenuti. Su TikTok la maggior parte degli influencer sceglie tra comedy e balletti. Io invece metto insieme comedy, balletti e trend.

Fai tutto da sola o ti fai aiutare da un personal branding?

Mi arrangio da sola. Se ho bisogno di consigli chiedo alla mia agenzia.

Cioè?

Un’agenzia di influencer.

È una notizia.

Sono agenzie che ci aiutano e ci danno dei consigli. Trovano le collaborazioni, contattano i clienti che cercano le sponsorizzazioni, trattano con loro.

E se sei indecisa su un post chiedi a loro?

A volte suggeriscono qualche correzione o anche di evitare. Poi, però, decido io.

Come li paghi?

Si trattengono una percentuale.

Perché i tuoi post si concludono spesso con «Amori»?

È un modo carino di rivolgermi ai followers e farli sentire ancora più dentro la famiglia.

Cosa vuol dire esattamente?

Che non sono solo dei numeri, ma un gruppo di persone che mi seguono e magari si ispirano a me. Cercano dei consigli e tu un po’ gli fai da madre, da sorella maggiore, da migliore amica.

Amore e famiglia non sono parole un po’ impegnative?

No, perché? Sui social c’è gente che si è affezionata a me. Se li chiamassi semplicemente «ragazzi» potrebbe sembrare che non mi interessano abbastanza. Invece tengo a loro, ne ho conosciuti molti, non tutti perché abitano ovunque…

Su Instagram ci sono dei post più riflessivi e ispirati, che non c’entrano con la moda: è tutta farina tua?

A volte prendo spunto da un testo sul Web e lo modifico. Elimino ciò che non c’entra con me ed elaboro e propongo dei pensieri miei.

Che cos’hai tratto dalla partecipazione al Collegio di Rai 2?

Mi ha cambiato, sono cresciuta tanto. Prima ero molto timida, a scuola stavo sempre zitta. A 15 anni non uscivo di casa, non riuscivo a farmi degli amici. Dopo Il Collegio ho superato la timidezza e altre paure.

Tipo?

Parlo con i professori e… cose più private.

Perché hai deciso di candidarti alle elezioni di Padova?

Voglio aiutare i giovani e le donne.

Le ragazze?

Anche i ragazzi.

Da consigliere comunale quale sarebbe la tua prima proposta?

Metterei più tram di sera in modo che i giovani non debbano tornare a casa a piedi con la paura di imbattersi in uno spacciatore dietro l’angolo.

Che cosa vuol dire essere a sinistra del Pd?

Siamo una lista civica, né di destra né di sinistra. Io mi sento di centro.

Sei mai stata al Festival di Sherwood?

Non ho tempo, studio o lavoro con i social.

Conosci il centro sociale Pedro?

Ne ho sentito parlare, ma non è uno dei miei posti.

Mancano luoghi di aggregazione per i giovani?

Mancano soprattutto nelle periferie che sono ridotte malissimo. Serve qualcosa per unire i giovani, palestre comunali, sale studio… Questo è un altro dei miei obiettivi.

Conosci il nome di qualcuno che è stato importante per Padova?

(…) Lo sguardo si orienta verso El Maoued, che la incoraggia: «Su… un medico… Vincenzo Gallucci, il primo italiano a fare il trapianto di cuore…».

Il nome di Toni Negri ti dice qualcosa?

(…) Sempre El Maoued: «Devi saperlo!».

C’è bisogno di studiare…

Lo so. Nei giorni scorsi un giornale locale ha innescato una polemica.

Ti hanno criticata?

Hanno scritto che la mia candidatura è la prova della crisi della politica. Ma io non vedo alcuna crisi, perché per me e i miei followers la politica non è mai esistita. L’unica volta che si è occupata di noi è stato per chiuderci in casa, metterci in Dad e accusarci di essere gli assassini dei nostri nonni.

I followers sono elettori? Se ti votasse solo l’1 per cento saresti eletta.

La maggioranza di loro non sono padovani. Che problema c’è se un’influencer vuole rappresentare il disagio e le speranze dei giovani?

Di sicuro fai parte di un’operazione di marketing per la lista.

Sono stata io a dire a Salim: «Se vuoi ci sono». «Bisogna riconoscerlo», interviene El Maoued, «oggi la politica è anche questo. Siamo amici da sempre, la conosco da quando è piccola, quasi come fosse mia figlia».

Hai mai il dubbio di essere finita in un gioco più grande di te?

No. Sono convinta e decisa ad aiutare le giovani donne a essere più protagoniste.

Vuoi fare spettacolo o politica?

Non faccio politica. Provo ad aiutare i giovani visto che sono stati zitti per molto tempo. Il mio campo è lo spettacolo, che può rappresentare una possibilità per la mia generazione.

Cosa guardi in tv?

Reality e serie… il Grande fratello vip. Invece L’Isola dei famosi non mi piace.

Ti spedisco in convento?

M’incuriosisce, ma non l’ho ancora visto.

Le serie preferite?

Gossip girl mi piace un sacco. Poi La regina del sud e Sabrina. Tutte su Netflix.

Ti piacciono i Måneskin?

No, non mi piace la loro musica.

Che musica ti piace?

Blanco è molto bravo. Sono contenta che abbia vinto Sanremo.

Farai delle manifestazioni pubbliche durante la campagna elettorale?

Lavorerò soprattutto con i social. E poi, sì, a metà maggio dovrei presentare una serata in un parco della città con dieci band musicali.

Il tuo modello è Greta Thunberg o Chiara Ferragni?

Sono persone diverse. Mi piace Greta, però anche Chiara Ferragni ha aiutato tanti bambini. È una domanda difficile, vorrei essere un po’ tutt’e due.

 

Panorama, 4 maggio 2022