«Non ha alcun senso parlare di tecnodestra»

Giacomo Lev Mannheimer è stato capo della policy per l’Europa meridionale di TikTok e poi di Apple ed è co-fondatore di FutureProofSociety, una startup che aiuta le imprese a fronteggiare le grandi trasformazioni. L’ultimo saggio, intitolato I mercanti nel palazzo, appena pubblicato dal Mulino, illumina i rapporti tra aziende, big tech e potere politico.
Dottor Mannheimer, la fotografia del palco di Capitol Hill all’insediamento di Donald Trump con Elon Musk, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg in prima fila è la perfetta rappresentazione del titolo del suo libro?
«Una rappresentazione plastica, direi. È la manifestazione estetica di un fenomeno che, come tutte le manifestazioni estetiche, ha radici profonde e complesse nel tempo».
È un titolo che richiama l’episodio evangelico di Gesù che caccia i mercanti dal tempio?
«Che avvenne non perché i mercanti vi facevano il loro lavoro, ma perché, con la venuta di Cristo, non era più necessario commerciare animali da sacrificare. Al contrario, quello che oggi i mercanti portano nel palazzo sono informazioni utili perché, senza quelle, il palazzo sceglie male».
Quali sono le radici del fenomeno?
«C’è un’aura di mistero sul lavoro dei lobbisti e sulle interazioni tra aziende e politica. Ma in realtà è un’attività normale, utile a tutti, perfino alla stessa democrazia perché allarga la possibilità per la società civile di portare alla politica dati, punti di vista e istanze».
L’Inauguration day è stata l’espressione della tecnodestra?
«No. Sicuramente Elon Musk non fa mistero della sua opinione politica ma, innanzitutto, sono mutevoli le categorie di destra e sinistra e, in secondo luogo, tutti gli altri pensano, com’è giusto che sia, principalmente ai loro interessi».
La convince di più il termine oligarchi?
«Nemmeno, non ci vedo niente di oligarchico. Semplicemente sta accadendo alla luce del sole ciò che accade da sempre: potere politico e potere economico si parlano di continuo e in modo approfondito».
Tuttavia, quel parterre non poteva non colpire: qual è il modo corretto d’interpretarlo?
«Trump si è accorto che è più intelligente portare dalla sua parte il potere dell’industria tecnologica rispetto a quello dell’industria tradizionale com’è sempre accaduto in passato».
Ha capito che i big tech sono strategici.
«È una vittoria di Trump più che di Musk, il quale avrebbe potuto influenzare anche l’amministrazione precedente».
Dobbiamo considerarlo come un plateale endorsement pro Trump?
«Sì, bravo Trump ad averlo ottenuto in modo così plastico. Ma non era diversa la situazione quando le piattaforme collaboravano quotidianamente con l’amministrazione Biden. La differenza è che Biden non ha saputo sfruttare a suo vantaggio quella collaborazione».
Federico Rampini ha sottolineato la velocità del nuovo riposizionamento.
«Specialmente durante la pandemia ci sono prove di contatti giornalieri fra le piattaforme e il governo americano per decidere cosa si potesse dire e cosa no. Il livello d’interazione era così intenso che come allora le big tech erano sintonizzate su quale dovesse essere il loro ruolo, così lo sono adesso, con la nuova presidenza».
Perché il bersaglio principale delle critiche è Elon Musk?
«Perché si espone politicamente in prima persona da uomo più ricco del mondo. In questo è diverso da Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e gli altri».
Perché si stigmatizzano il presunto saluto romano, le interferenze sui governi europei e i conflitti d’interessi, mentre non si dice nulla su altre distorsioni come il transumanesimo, il ricorso all’utero in affitto e, in generale, il potere salvifico della tecnica?
«È un tentativo di framing, cioè di inquadrare una persona estremamente complessa dentro categorie note alla maggioranza su cui è più facile fare propaganda».
Lo si riduce in un ambito stretto omettendo inclinazioni più prossime al mainstream?
«Che lo renderebbero difficile da comprendere alle persone comuni».
È giusto allarmarsi se l’uomo più potente e l’uomo più ricco del mondo si alleano?
«Mi porrei piuttosto il problema della dipendenza dell’Italia e dell’Europa dal potere politico e tecnologico americano. Ma la responsabilità di questa dipendenza è nostra, non loro».
È giusto alzare il muro contro Starlink per proteggere la tecnologia europea?
«Con i soldi del superbonus avremmo potuto fare cinque Starlink per l’Italia».
La tecnologia europea è competitiva?
«Non lo è a causa di scelte compiute in passato. Bisognerebbe investire sulle tecnologie che determineranno i prossimi dieci o vent’anni».
Perché fino a ieri il cosiddetto allarme democratico non c’era?
«Per un fattore estetico: e qui torniamo alla brutale evidenza con cui quella foto ha reso esplicito il rapporto stretto fra poteri».
I motivi di allarme c’erano anche prima?
«A mio parere erano enormemente superiori. Perché i rapporti tra questi poteri erano non visibili e non trasparenti e avevano obiettivi prevalentemente di censura. Oggi hanno obiettivi di supremazia dell’economia americana».
Su questo fronte, come si è visto con l’intervento al Forum di Davos, i rapporti fra Trump e l’Europa sono destinati a inasprirsi?
«Trump fa gli interessi degli Stati Uniti, l’Europa dovrebbe imparare a fare i propri. A mio avviso non è nei suoi interessi alzare muri di leggi e regolamenti».
Che ruolo può avere Giorgia Meloni in questo scenario?
«Speriamo che faccia da àncora di salvataggio, colmando il vuoto lasciato dall’assenza di dialogo con le istituzioni europee».
Tornando al controllo dell’informazione, durante l’amministrazione Biden non si faceva che parlare di fake news.
«E questa veniva considerata un’azione meritoria. Ma come ha recentemente ammesso Zuckerberg si è trattato di un errore di valutazione».
I grandi media hanno ignorato la notizia delle pressioni dell’amministrazione Biden su Meta relative ai vaccini anti Covid e i loro effetti avversi.
«I media tradizionali sono abituati al controllo politico e l’idea che i social media possano liberarsene li spaventa perché potrebbe indirettamente indebolirli».
È una gara a censurare meglio?
«Nelle dirigenze dei media tradizionali si pensa che i social media dovrebbero essere sottoposti allo stesso trattamento cui sono sottoposti loro. Ma allo stesso tempo si pensa che è una cosa da non far conoscere ai cittadini».
Come va interpretato l’atteggiamento morbido di Trump verso TikTok?
«È una geniale operazione di marketing politico che non ha nessuna base sostanziale, ma aiuta Trump a posizionarsi come vicino agli utenti della piattaforma e ai giovani. Mi ha colpito che nelle 24 ore di blocco della piattaforma la schermata riportava esplicitamente la fiducia che Trump risolvesse la situazione».
Il riposizionamento delle big tech serve a ottenere un trattamento fiscale più vantaggioso da Trump?
«Non credo, perché paradossalmente il fisco non è uno dei principali problemi delle piattaforme. Lo è di più la possibilità di sperimentare modelli di business e uniformità di regole nei Paesi in cui operano. Un esempio è il limite allo sviluppo dell’intelligenza artificiale dovuto alle regole europee che è un ostacolo enorme al business delle piattaforme in Europa».
Come dobbiamo catalogare il silenzio che ha avvolto la notizia dei fondi Ue usati dall’ex vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans per pagare associazioni ambientaliste per le campagne a sostegno dell’agenda green?
«È un fatto gravissimo perché sono soldi pubblici, mentre il lobbing è fatto con soldi privati spesi legittimamente, fino a prova contraria».
Anche qui ritorna l’atteggiamento omertoso dei media.
«È molto grave perché, ripeto, si tratta di soldi pubblici usati per un’azione esterna al mandato istituzionale di Timmermans. Il silenzio dei media, con pochissime eccezioni, purtroppo ha una natura ideologica che dipende da un profondo imbarazzo».
Perché per lei la priorità non è difendere il palazzo dai mercanti, ma difendere i mercanti dal palazzo?
«Perché la politica sfrutta le lobby come capro espiatorio di mancate scelte, mentre più trasparenza sugli interessi privati costringerebbe la politica ad assumersi le proprie responsabilità».
Per esempio?
«Le vicende dei taxi e dei balneari su cui la politica rimanda, imputando la decisione alle categorie».
Fino a qualche mese fa i social media erano palestra e veicolo della cultura woke, del gender e del green deal, perché ora non lo sono più?
«Giocano un ruolo importante le regole interne alle piattaforme, mentre dal punto di vista politico e sociale un cambio di vento è visibile da qualche anno. Musk si è fatto interprete di questo cambio di vento. Sarà interessante vedere cosa arriverà in Europa, specialmente nelle aziende. È lì che sono cambiate le strutture, le politiche e le decisioni. In tante aziende non si sono potuti assumere uomini per anni».
Diverse aziende hanno sospeso l’adesione ai protocolli Die (diversity inclusion e equality).
«Non fanno notizia per ora e non sono sicuro che siano così tante. Infine, bisogna vedere come si concretizzerà questa sospensione».
«Niente è più forte di un’idea di cui sia giunto il tempo» è un’espressione attribuita dal politologo John Wells Kingdon a Victor Hugo. Sembra che in molte parti del mondo cresca il consenso verso posizioni conservatrici, com’è maturato il tempo di questa idea?
«È maturato dagli shock digitale, energetico e geopolitico che hanno aumentato l’incertezza diffusa e spinto le persone a tirare il freno e conservare il più possibile ciò che hanno sempre conosciuto e capito meglio».
Tuttavia, i dati economici e sociali indicano un maggior benessere rispetto a qualche anno fa. O forse si tratta più di benavere che di benessere?
«Quello che conta è la percezione e la percezione è di un mondo che va velocissimo e in cui le certezze sono sempre meno».
Ciò a cui stiamo assistendo è un cambiamento culturale, una ribellione all’establishment o una mutazione di tipo economico e geopolitico?
«Nessuna delle due. Credo sia il cambiamento in una direzione che è influenzata sempre meno dalla politica e sempre più dalle imprese».
Concorda con chi parla di fine della globalizzazione?
«No. Esiste una forte tensione tra reti digitali e fisiche sempre più globali ed esperienze e consumi sempre più individuali. Ma il mondo di per sé è molto più connesso di quanto la politica voglia far sembrare».
C’è da rallegrarsene?
«La connessione di per sé è un bene, ma ovviamente richiede grande consapevolezza e capacità critica».

 

La Verità, 25 gennaio 2025