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«Il linguaggio dimostra che Meloni è laureata dentro»

Saggista, docente di Linguistica italiana all’Università di Cagliari, autore di studi sulla comunicazione dei maggiori leader politici (dopo il Renziario, il Salvinario e il Berlusconario, ecco il Melonario, sempre da Castelvecchi editore), Massimo Arcangeli è in prima linea contro le storture prodotte dal politicamente corretto nell’uso della lingua. Sarà forse per la petizione contro lo schwa scritta con lo storico Angelo D’Orsi e firmata da tanti intellettuali autorevoli, o perché collabora anche con testate non mainstream, fatto sta che la voce di Wikipedia che lo riguarda è sempre lacunosa e non registra le sue ultime iniziative pubbliche.

In questi giorni uscirà il dizionario del linguaggio parlato, scritto e postato di Giorgia Meloni realizzato con più ricercatori. Definirebbe il premier attuale erede o successore di Silvio Berlusconi?

«Se posso permettermi, né erede né successore perché tra loro esistono distanze rilevanti se non, per alcuni versi, abissali».

Lui era un imprenditore visionario, lei una militante da sempre.

«Meloni è stata fedele fino all’ultimo alla destra sociale, con una storia consolidata di opposizione. Berlusconi è stato un grande imprenditore e l’inventore della tv commerciale. Retroterra che non collimano. Ricordo situazioni in cui Meloni si espresse in modo critico su Maurizio Costanzo o Maria De Filippi. Poi c’è una distanza geografica, Meloni è espressione del mondo romano e Berlusconi di quello milanese. Con tutto quello che questo comporta nella cultura politica».

Elementi convergenti?

«Ci sono e coinvolgono anche Umberto Bossi. Mi riferisco al populismo come elemento positivo di base. Non nell’accezione deteriore che vediamo incarnata, per esempio, dai 5 stelle».

Berlusconi sapeva e Meloni sa interpretare le istanze popolari?

«Hanno la capacità di interpretare i bisogni della gente comune e di parlare alla pancia del Paese. È quella percezione nazionalpopolare della politica che la sinistra non ha saputo fare propria diventando radical chic e fallendo gran parte dei suoi obiettivi».

Vede elementi comuni nel linguaggio?

«Innanzitutto, la personalizzazione della leadership. Più nel caso di Berlusconi ma anche parlando Meloni, il punto di riferimento del partito e della coalizione sono loro. Nella Seconda repubblica ci hanno provato a esserlo anche Matteo Renzi, danneggiato dal suo superego, e Matteo Salvini, con gli esiti che abbiamo visto. La seconda componente comune è la spettacolarizzazione della politica. Anche se Meloni non è una donna di spettacolo, lo sa usare. E sa usare bene i social che, nell’epoca della promocrazia, è molto importante».

Della promocrazia?

«Della politica basata sull’autopromozione, sul marketing. Berlusconi era un simpatico imbonitore, lo dico in positivo. Meloni compete sui vari media. Entrambi sanno che nella politica 2.0 i media che interagiscono tra loro hanno un effetto moltiplicato».

Lei è più multitasking di lui?

«Pur non essendo nemmeno lei nativa digitale».

Entrambi politici pop?

«Se dovessimo redigere un vocabolario delle nuove parole o dei tormentoni inventati da politici nell’ultimo ventennio il primato spetterebbe a loro. Con “cribbio”, “mi consenta” e “l’Italia è il Paese che amo” abbiamo tutto Berlusconi. Per rappresentare Meloni citerei l’avverbio “sommessamente”, che usa spesso e in varie sfumature, oppure il neologismo “nomadare”, in riferimento all’azione dei nomadi, i rom, entrato nella Treccani».

C’è molta differenza dal linguaggio della Prima repubblica?

«Come per Berlusconi che aveva un linguaggio doubleface, sia famigliare che volgare, dalla “patonza” al gesto delle corna, espressioni che tutti abbiamo, anche Meloni alterna il romanesco ai tecnicismi anglosassoni, per esempio in materia economica. Questa è una differenza, ma ci sono anche affinità con la Prima repubblica».

Quali?

«Ho ascoltato centinaia di discorsi a braccio di Giorgia Meloni verificandone la capacità di tenere il filo del discorso. Ecco: lei sa controllare l’esposizione per un tempo molto più lungo degli altri politici contemporanei. Per trovarne qualcuno con la stessa capacità bisogna risalire a Bettino Craxi, Enrico Berlinguer o Aldo Moro. Inoltre, ho trovato una memorizzazione formidabile dei contenuti. Pur parlando a braccio, riesce a riproporli con le stesse parole usate diversi anni prima, fatti salvi i cambiamenti del contesto».

Questo ne accentua la percezione di coerenza e lealtà?

«La lealtà è un elemento fondamentale del suo discorso, al punto che si sono individuate espressioni tratte dalla cultura cavalleresca che, per qualcuno, erano di derivazione fascista. In realtà, sono eredità della cultura risorgimentale e, andando più indietro, dell’immaginario letterario e cinematografico di Tolkien e del fantasy che Meloni ha fatto proprie».

Cosa pensa del ricorso all’inflessione romanesca vuol dire questo?

«È un vezzo».

Da correggere in un ruolo istituzionale?

«Avrebbe potuto fare dei corsi di dizione, se non l’ha fatto è perché il romanesco le è caro. Da premier mi pare vi ricorra di meno».

Cosa significa, come scrive, che è «laureata dentro»?

«Che non ha bisogno di avere una laurea per dimostrare di saper scrivere e parlare bene. È sufficientemente colta, ha le sue letture evidenziabili, parla inglese e spagnolo in modo più che accettabile. Anche Renzi e Berlusconi parlano bene. Lei parla e argomenta meglio. Ha anche capacità di accelerare e decelerare efficacemente i ritmi del discorso».

Il linguaggio deriva dalla vita concreta e lei ha fatto tanti mestieri, dalla barman alla baby sitter, perché il padre non c’era e la madre aveva perso il lavoro… Ha ragione Pietrangelo Buttafuoco a dire che ha una storia di sinistra?

«Paradossalmente sì, una storia di sinistra vissuta sul versante opposto».

«Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana»: questo linguaggio è vincente rispetto alla comunicazione della sinistra abituata ai continui distinguo millimetrici?

«Se dicessi che sono uomo, sono padre, sono cristiano criticherebbero pure me. Siccome c’è la moltiplicazione dei generi, dobbiamo stare attenti a declinare la nostra identità. Ma mi sembra un problema falso e intellettualoide. Nessuno deve temere di dire chi è, purché rispetti l’identità altrui. Il politicamente corretto vorrebbe che il neutro si imponesse anche in questo. Io non voglio assistere all’affermarsi della tirannia del neutro».

Parlando di leaderizzazione e storytelling, due anni dopo Io sono Giorgia sta per pubblicare un nuovo libro: non sarà troppo?

«Ha capito che deve mantenere un contatto forte con i suoi lettori, follower e potenziali elettori. Se fossi in lei farei un libro l’anno».

Appartenevano a questa filosofia anche «Gli appunti di Giorgia»?.

«Quell’idea nacque in occasione della scelta dei ministri, quando Berlusconi le attribuì comportamenti scorretti. Allora lei s’inventò “Gli appunti di Giorgia”. Gli appunti si usano prima di metterli in bella forma per la divulgazione. In quel modo mandò un messaggio di trasparenza: non ho niente da nascondere, vi mostro la mia agenda, come sono realmente».

Com’è cambiata la sua comunicazione da presidente di Fdi a presidente del consiglio?

«Si è istituzionalizzata, a partire dagli abiti che sono, giustamente, meno scanzonati di un tempo. Costruisce i discorsi in modo più ecumenico, smussando i toni del primo decennio del Duemila che, secondo me, è stato il più efficace. Usa maggiormente termini angloamericani, in una proiezione più internazionale e di attenzione ai mercati».

Come giudica la modifica delle intestazioni dei ministeri, per esempio dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, dell’Istruzione e del merito…

«Mi sembrano modifiche di facciata. Ho trovato inutile la specificazione del merito per un Paese che fonda il suo futuro sull’istruzione. Sarebbe stato innovativo se, oltre al merito, avesse aggiunto l’inclusione, rubando il monopolio di questo tema alla sinistra».

Non sarebbe stato un cedimento al mainstream?

«Non credo. Da docente universitario dico che, forse a causa della pandemia, c’è un’esplosione della fragilità giovanile che non ho mai riscontrato in trent’anni d’insegnamento. Rischiamo di far crescere tanti soggetti anomali, instabili. Su questo non c’è né destra né sinistra. Perciò, mi batto per l’adozione dello psicologo in ogni plesso scolastico e università. Come già avviene nelle scuole del Nordeuropa e americane».

Perché si critica il ricorso a termini come nazione e patria?

«Altro falso problema. Nazione compare nella nostra Costituzione e anche patria è un termine di alveo risorgimentale. Chi insiste sugli echi fascisti di questi vocaboli non conosce la storia».

Intravede dei punti deboli nell’azione del premier? Quali consigli le darebbe nella comunicazione?

«L’unico punto debole di Giorgia Meloni è Giorgia Meloni. Se vuole durare deve basarsi davvero sul merito delle persone giuste».

Invece?

«Ci sono ministri, sottosegretari e parlamentari non all’altezza».

Qualcuno in particolare?

«Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. Un anno fa si è consumato il più scandaloso concorso scolastico ordinario della storia della Repubblica con decine e decine di quiz sbagliati o mal formulati come hanno documentato le perizie di docenti specializzati. L’ex ministro Patrizio Bianchi non ha fatto quasi nulla e Valditara nulla».

Tornando alla comunicazione, cos’ha pensato dello speech dopo l’incontro con il presidente tunisino Kaïs Saied senza giornalisti davanti?

«Che non è meloniano e non doveva essere così. Si è lasciata convincere da qualcuno».

Ha un rapporto ancora conflittuale con i media e preferisce la disintermediazione, rivolgersi alla gente senza la mediazioni dei giornalisti?

«Sì. Sa bene che i contenuti possono essere manipolati e ricuciti in modi non sempre consoni. Se potesse opterebbe per la disintermediazione totale».

Il confronto linguistico con Elly Schlein?

«Se devo prendere appunti di quello che dice Giorgia Meloni trascrivo poco perché capisco gli snodi del ragionamento. Se parla Elly Schlein sono costretto a trascrivere tutto e poi, alla fine, rileggendo, stento a fare la sintesi. Lo ha detto anche Concita De Gregorio: rileggi, ma il titolo non salta fuori. Ma purtroppo, questo non è solo un problema di vocabolario».

 

La Verità, 17 giugno 2023

«Norme chiare nello sport per tutelare la differenza»

A volte basta un po’ di buon senso o una normalissima dose di realismo, e il perbenismo montante che sta intaccando pure i Giochi della XXXII Olimpiade si affloscia come un castello di carta. Nel caso del «Signore degli Anelli» Jury Chechi, al realismo e al buon senso si aggiunge l’autorevolezza delle medaglie, d’oro nel 1996 ad Atlanta e di bronzo nel 2004 ad Atene. In mezzo, altri trofei mondiali di categoria e un paio di resurrezioni dopo altrettanti infortuni che gli preclusero i Giochi di Barcellona (1992) e quelli di Sidney (2000). A 51 anni, sposato con Rosella e padre di Anastasia e Dimitri, titolare dell’omonima Academy, Chechi è sempre molto tonico. Come hanno constatato i telespettatori del Circolo degli anelli su Rai 2, dov’è ospite fisso.

Qualche sera fa l’abbiamo vista in bilico in orizzontale su una sedia dello studio, come fosse una figura alle parallele.

«Sembrano performance difficili, ma per un ex ginnasta professionista non lo sono».

Poi ha gareggiato con Daniele Bennati, l’ex ciclista, al Vigorelli di Milano.

«Una cosa fatta per gioco. Il ciclismo è da sempre una mia grande passione e anche ora vado in bici per divertirmi e tenermi in forma. Correre al Vigorelli è stato emozionante».

È vero che suo padre voleva indirizzarla al ciclismo?

«Sperava che iniziassi con la bicicletta, ma io mi sono appassionato alla ginnastica».

Che cosa sono le «Jurimpiadi»?

«Un’idea giocosa nata nelle riunioni di redazione con Alessandra De Stefano. Abbiamo pensato di proporre piccole sorprese ai telespettatori, per prendermi, e prenderci, un po’ in giro».

L’autoironia aiuta anche i grandi campioni?

«Altroché. È fondamentale per vivere bene la seconda parte della vita».

Quanto è sofferto il passaggio dalla prima parte, tutta adrenalina e successi?

«È sempre difficile. Può aiutare ad accettare la nuova condizione essere riusciti a raggiungere gli obiettivi che ci si erano prefissati».

Stiamo vedendo compiersi le parabole di Federica Pellegrini e di Aldo Montano: c’è un segreto per ammortizzare il distacco dall’attività agonistica?

«Non credo. È importante accettare il fatto che non si proveranno più le sensazioni prodotte dal competere a un’Olimpiade. Ma si possono finalmente apprezzare le tante esperienze per cui val la pena vivere. Io ho vinto due medaglie ai Giochi, ma essere padre di Dimitri e Anastasia è di gran lunga la cosa più bella che mi sia capitata».

I suoi allenamenti, molto seguiti sui social, sono un gioco o un investimento?

«Entrambe le cose. Il mio obiettivo è stimolare l’attività motoria e sportiva. Che ognuno possa farla con le proprie capacità e le proprie passioni».

Che cosa fa la sua Academy?

«Promuove il calisthenics, una nuova disciplina che si rifà alla ginnastica artistica. È nata negli Stati Uniti ed è rivolta a tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, alti e bassi. Si lavora senza pesi, a carico naturale: anelli, parallele, sbarra, corpo libero».

È una disciplina competitiva?

«Ci sono anche competizioni, ma è una disciplina ancora poco strutturata. L’Academy si propone come riferimento per organizzarla ed espanderla».

Che Olimpiadi sono queste di Tokyo 2020?

«Diverse da tutte le altre, principalmente per l’assenza di pubblico. Un fatto grave, che sfalsa il valore del momento olimpico. Però, se ci si concentra sul fattore tecnico, sono belle Olimpiadi».

In che senso l’assenza di pubblico è un fatto grave?

«Gli stadi vuoti sono qualcosa di malinconico. Per molti sport l’appuntamento con il grande pubblico avviene ai Giochi ogni quattro anni. Il pubblico è una componente fondamentale. Di solito per una finale femminile di ginnastica i biglietti sono introvabili, le tribune vuote fanno molto pensare».

Qual è la storia che l’ha più colpita finora?

«Indubbiamente quella di Simone Biles, con la sua Olimpiade complicata. È un fatto negativo anche per la ginnastica artistica perché perde una straordinaria interprete della bellezza che questo sport può regalare».

Lo stress può esser causato anche dai troppi riflettori dei media a caccia di nuovi eroi ed eroine?

«Anche questa può essere una delle cause della sua situazione. La Biles era una delle atlete più attese, in uno sport in cui tutti si aspettavano altre importanti vittorie come quelle che aveva ottenuto a Rio de Janeiro. Fatte le dovute proporzioni ci sono passato, è difficile gestire questa pressione. Forse la Biles non è riuscita a farlo perdendo la serenità necessaria per affrontare gare così attese».

L’avrà disturbata trovarsi esposta con la sua storia personale e familiare?

«Certo, i media non si risparmiano. Ma anche i social interferiscono molto, a volte in modo positivo altre in modo negativo. Un atleta impegnato in un’Olimpiade dovrebbe estraniarsi da tutto, ma difficilmente può isolarsi dal suo smartphone. Essere popolarissima nei social probabilmente non l’ha aiutata».

I media cercano in particolare eroine come lei,  come Paola Egonu, Naomi Osaka, Federica Pellegrini o queste sono Olimpiadi al femminile?

«Che in questi anni lo sport femminile sia protagonista è un fatto oggettivo. Altrettanto si può dire che esiste la volontà di portare avanti un racconto improntato al femminile. Del resto questa è la direzione che si è presa a livello mondiale. L’affermazione della parità di genere porta a livellare un po’ tutto. Nello sport il mondo femminile sta giustamente allargando i suoi spazi. Ma anche secondo me c’è la tendenza a enfatizzare alcune storie femminili».

Finora i nuovi Michael Phelps e Usain Bolt non sono spuntati e chi come la Biles poteva candidarsi a nuovo supereroe ha mostrato inattese fragilità: siamo più vulnerabili a causa della pandemia?

«Anche Phelps e Bolt hanno vissuto momenti bui, ma magari hanno reagito diversamente. Le crisi e le depressioni ci sono da sempre, alcuni reagiscono in un modo altri in un altro. Non sempre si affermano atleti in possesso di grandi doti mentali, oltre che fisiche. Ma sono sicuro che li ritroveremo presto».

Perché ha espresso perplessità sullo skate board e il surf entrati nel programma olimpico?

«Le mie perplessità, soprattutto sullo skate, non riguardano lo spettacolo. Credo che non sia pedagogico coinvolgere dei ragazzini di 13 anni nella partecipazione a un’Olimpiade. Dubito che possano essere consapevoli di quale onere e onore comporta. A 13 anni è giusto pensare ad altro che a vincere un’Olimpiade. Lo dico con discrezione».

I suoi dubbi non riguardano la soggettività delle valutazioni per queste discipline?

«Non sono in grado di esprimermi sui criteri di giudizio. Certo, nel surf ogni onda è diversa dall’altra, mentre gli anelli sono uguali per tutti».

Altre discipline discutibili?

«Attenzione, non discuto il surf o lo skate che mi divertono e seguo in altre competizioni. Sono solo perplesso sul loro inserimento nel programma olimpico».

Le piace il sollevamento pesi femminile?

«Forse la deludo, ma lo adoro. Mi sono emozionato seguendo le prove di Giorgia Bordignon e Mirko Zanni. Alcuni osservano che non è uno sport molto femminile, ed è vero. Ma a me piace lo stesso».

Come giudica il fatto che il 2 agosto Laurel Hubbard, un’atleta neozelandese transgender, sarà in gara nella categoria femminile di 87 chilogrammi?

«Non lo approvo. Servono normative più precise e chiare. Lo sport è una scuola di vita e nella competizione si vince o s’impara qualcosa quando si perde. Ma le gare devono svolgersi ad armi pari, altrimenti questo valore scompare».

Le butto lì una provocazione: approverebbe gli anelli per le donne?

«Chi persegue una malintesa parità di genere dovrebbe volerli introdurre. Invece ci vuole equilibrio. La nostra Irma Testa ha vinto una bella medaglia nel pugilato femminile, ma per me è al limite. È difficile vedere gli uomini competere nella ginnastica ritmica. Ci hanno provato, però… Una donna che si cimenta negli anelli non ha molto senso. Penso che la differenza sia una cosa bellissima, un patrimonio di tutti. Non bisogna fare per forza le stesse cose, le donne sono migliori in certe attività, gli uomini in altre».

Che opinione si è fatto del caso Schwazer?

«Non possiedo tutti gli elementi per pronunciarmi, ma credo ci sia stata poca chiarezza. La prima volta lui ha sbagliato, ma nella seconda squalifica più di qualcosa non torna».

Come ha vissuto il periodo delle restrizioni?

«Non bene, come tutti. Le ho accettate come una necessità per arginare e superare questa situazione».

Pensa che in Italia lo sport sia stato troppo penalizzato?

«Non quello di vertice. Quello di base invece è stato gestito molto male, come se la colpa della pandemia fosse da imputare alle palestre».

Piscine chiuse nonostante si sappia che il cloro tiene lontano il virus.

«Non ho competenza. Credo bisognasse trovare il modo per chiudere meno e meglio piscine e palestre».

Qualcuno attribuisce i pochi successi della nostra scherma al fatto che in Italia, a differenza degli altri Paesi, non si sono disputate gare.

«Può essere vero. Però mi risulta che lo sport di vertice non si sia mai fermato. Il Coni si è impegnato per tutelare le squadre agonistiche. Qualcosa di più andava fatto per lo sport di tutti».

Oltre al soprannome di «Signore degli anelli» cos’altro ha preso dai romanzi di J. R. R. Tolkien?

«Direi solo il nome. L’ho letto e mi piacerebbe essere Aragorn, ma non credo sia possibile».

Perché ha dato ai suoi figli nomi russi com’è il suo?

«Solo perché mi piacciono, senza un riferimento letterario».

Praticano sport?

«Anastasia fa equitazione e Dimitri judo».

Nei prossimi giorni seguirà qualche competizione con maggiore partecipazione?

«Mi piacciono tutte le discipline. Ma sarò certamente più coinvolto nella finale di Vanessa Ferrari. Che ora, con l’assenza della Biles, ha tutte le possibilità di vincere la medaglia d’oro. E se la meriterebbe».

 

La Verità, 31 luglio 2021