«Norme chiare nello sport per tutelare la differenza»
A volte basta un po’ di buon senso o una normalissima dose di realismo, e il perbenismo montante che sta intaccando pure i Giochi della XXXII Olimpiade si affloscia come un castello di carta. Nel caso del «Signore degli Anelli» Jury Chechi, al realismo e al buon senso si aggiunge l’autorevolezza delle medaglie, d’oro nel 1996 ad Atlanta e di bronzo nel 2004 ad Atene. In mezzo, altri trofei mondiali di categoria e un paio di resurrezioni dopo altrettanti infortuni che gli preclusero i Giochi di Barcellona (1992) e quelli di Sidney (2000). A 51 anni, sposato con Rosella e padre di Anastasia e Dimitri, titolare dell’omonima Academy, Chechi è sempre molto tonico. Come hanno constatato i telespettatori del Circolo degli anelli su Rai 2, dov’è ospite fisso.
Qualche sera fa l’abbiamo vista in bilico in orizzontale su una sedia dello studio, come fosse una figura alle parallele.
«Sembrano performance difficili, ma per un ex ginnasta professionista non lo sono».
Poi ha gareggiato con Daniele Bennati, l’ex ciclista, al Vigorelli di Milano.
«Una cosa fatta per gioco. Il ciclismo è da sempre una mia grande passione e anche ora vado in bici per divertirmi e tenermi in forma. Correre al Vigorelli è stato emozionante».
È vero che suo padre voleva indirizzarla al ciclismo?
«Sperava che iniziassi con la bicicletta, ma io mi sono appassionato alla ginnastica».
Che cosa sono le «Jurimpiadi»?
«Un’idea giocosa nata nelle riunioni di redazione con Alessandra De Stefano. Abbiamo pensato di proporre piccole sorprese ai telespettatori, per prendermi, e prenderci, un po’ in giro».
L’autoironia aiuta anche i grandi campioni?
«Altroché. È fondamentale per vivere bene la seconda parte della vita».
Quanto è sofferto il passaggio dalla prima parte, tutta adrenalina e successi?
«È sempre difficile. Può aiutare ad accettare la nuova condizione essere riusciti a raggiungere gli obiettivi che ci si erano prefissati».
Stiamo vedendo compiersi le parabole di Federica Pellegrini e di Aldo Montano: c’è un segreto per ammortizzare il distacco dall’attività agonistica?
«Non credo. È importante accettare il fatto che non si proveranno più le sensazioni prodotte dal competere a un’Olimpiade. Ma si possono finalmente apprezzare le tante esperienze per cui val la pena vivere. Io ho vinto due medaglie ai Giochi, ma essere padre di Dimitri e Anastasia è di gran lunga la cosa più bella che mi sia capitata».
I suoi allenamenti, molto seguiti sui social, sono un gioco o un investimento?
«Entrambe le cose. Il mio obiettivo è stimolare l’attività motoria e sportiva. Che ognuno possa farla con le proprie capacità e le proprie passioni».
Che cosa fa la sua Academy?
«Promuove il calisthenics, una nuova disciplina che si rifà alla ginnastica artistica. È nata negli Stati Uniti ed è rivolta a tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, alti e bassi. Si lavora senza pesi, a carico naturale: anelli, parallele, sbarra, corpo libero».
È una disciplina competitiva?
«Ci sono anche competizioni, ma è una disciplina ancora poco strutturata. L’Academy si propone come riferimento per organizzarla ed espanderla».
Che Olimpiadi sono queste di Tokyo 2020?
«Diverse da tutte le altre, principalmente per l’assenza di pubblico. Un fatto grave, che sfalsa il valore del momento olimpico. Però, se ci si concentra sul fattore tecnico, sono belle Olimpiadi».
In che senso l’assenza di pubblico è un fatto grave?
«Gli stadi vuoti sono qualcosa di malinconico. Per molti sport l’appuntamento con il grande pubblico avviene ai Giochi ogni quattro anni. Il pubblico è una componente fondamentale. Di solito per una finale femminile di ginnastica i biglietti sono introvabili, le tribune vuote fanno molto pensare».
Qual è la storia che l’ha più colpita finora?
«Indubbiamente quella di Simone Biles, con la sua Olimpiade complicata. È un fatto negativo anche per la ginnastica artistica perché perde una straordinaria interprete della bellezza che questo sport può regalare».
Lo stress può esser causato anche dai troppi riflettori dei media a caccia di nuovi eroi ed eroine?
«Anche questa può essere una delle cause della sua situazione. La Biles era una delle atlete più attese, in uno sport in cui tutti si aspettavano altre importanti vittorie come quelle che aveva ottenuto a Rio de Janeiro. Fatte le dovute proporzioni ci sono passato, è difficile gestire questa pressione. Forse la Biles non è riuscita a farlo perdendo la serenità necessaria per affrontare gare così attese».
L’avrà disturbata trovarsi esposta con la sua storia personale e familiare?
«Certo, i media non si risparmiano. Ma anche i social interferiscono molto, a volte in modo positivo altre in modo negativo. Un atleta impegnato in un’Olimpiade dovrebbe estraniarsi da tutto, ma difficilmente può isolarsi dal suo smartphone. Essere popolarissima nei social probabilmente non l’ha aiutata».
I media cercano in particolare eroine come lei, come Paola Egonu, Naomi Osaka, Federica Pellegrini o queste sono Olimpiadi al femminile?
«Che in questi anni lo sport femminile sia protagonista è un fatto oggettivo. Altrettanto si può dire che esiste la volontà di portare avanti un racconto improntato al femminile. Del resto questa è la direzione che si è presa a livello mondiale. L’affermazione della parità di genere porta a livellare un po’ tutto. Nello sport il mondo femminile sta giustamente allargando i suoi spazi. Ma anche secondo me c’è la tendenza a enfatizzare alcune storie femminili».
Finora i nuovi Michael Phelps e Usain Bolt non sono spuntati e chi come la Biles poteva candidarsi a nuovo supereroe ha mostrato inattese fragilità: siamo più vulnerabili a causa della pandemia?
«Anche Phelps e Bolt hanno vissuto momenti bui, ma magari hanno reagito diversamente. Le crisi e le depressioni ci sono da sempre, alcuni reagiscono in un modo altri in un altro. Non sempre si affermano atleti in possesso di grandi doti mentali, oltre che fisiche. Ma sono sicuro che li ritroveremo presto».
Perché ha espresso perplessità sullo skate board e il surf entrati nel programma olimpico?
«Le mie perplessità, soprattutto sullo skate, non riguardano lo spettacolo. Credo che non sia pedagogico coinvolgere dei ragazzini di 13 anni nella partecipazione a un’Olimpiade. Dubito che possano essere consapevoli di quale onere e onore comporta. A 13 anni è giusto pensare ad altro che a vincere un’Olimpiade. Lo dico con discrezione».
I suoi dubbi non riguardano la soggettività delle valutazioni per queste discipline?
«Non sono in grado di esprimermi sui criteri di giudizio. Certo, nel surf ogni onda è diversa dall’altra, mentre gli anelli sono uguali per tutti».
Altre discipline discutibili?
«Attenzione, non discuto il surf o lo skate che mi divertono e seguo in altre competizioni. Sono solo perplesso sul loro inserimento nel programma olimpico».
Le piace il sollevamento pesi femminile?
«Forse la deludo, ma lo adoro. Mi sono emozionato seguendo le prove di Giorgia Bordignon e Mirko Zanni. Alcuni osservano che non è uno sport molto femminile, ed è vero. Ma a me piace lo stesso».
Come giudica il fatto che il 2 agosto Laurel Hubbard, un’atleta neozelandese transgender, sarà in gara nella categoria femminile di 87 chilogrammi?
«Non lo approvo. Servono normative più precise e chiare. Lo sport è una scuola di vita e nella competizione si vince o s’impara qualcosa quando si perde. Ma le gare devono svolgersi ad armi pari, altrimenti questo valore scompare».
Le butto lì una provocazione: approverebbe gli anelli per le donne?
«Chi persegue una malintesa parità di genere dovrebbe volerli introdurre. Invece ci vuole equilibrio. La nostra Irma Testa ha vinto una bella medaglia nel pugilato femminile, ma per me è al limite. È difficile vedere gli uomini competere nella ginnastica ritmica. Ci hanno provato, però… Una donna che si cimenta negli anelli non ha molto senso. Penso che la differenza sia una cosa bellissima, un patrimonio di tutti. Non bisogna fare per forza le stesse cose, le donne sono migliori in certe attività, gli uomini in altre».
Che opinione si è fatto del caso Schwazer?
«Non possiedo tutti gli elementi per pronunciarmi, ma credo ci sia stata poca chiarezza. La prima volta lui ha sbagliato, ma nella seconda squalifica più di qualcosa non torna».
Come ha vissuto il periodo delle restrizioni?
«Non bene, come tutti. Le ho accettate come una necessità per arginare e superare questa situazione».
Pensa che in Italia lo sport sia stato troppo penalizzato?
«Non quello di vertice. Quello di base invece è stato gestito molto male, come se la colpa della pandemia fosse da imputare alle palestre».
Piscine chiuse nonostante si sappia che il cloro tiene lontano il virus.
«Non ho competenza. Credo bisognasse trovare il modo per chiudere meno e meglio piscine e palestre».
Qualcuno attribuisce i pochi successi della nostra scherma al fatto che in Italia, a differenza degli altri Paesi, non si sono disputate gare.
«Può essere vero. Però mi risulta che lo sport di vertice non si sia mai fermato. Il Coni si è impegnato per tutelare le squadre agonistiche. Qualcosa di più andava fatto per lo sport di tutti».
Oltre al soprannome di «Signore degli anelli» cos’altro ha preso dai romanzi di J. R. R. Tolkien?
«Direi solo il nome. L’ho letto e mi piacerebbe essere Aragorn, ma non credo sia possibile».
Perché ha dato ai suoi figli nomi russi com’è il suo?
«Solo perché mi piacciono, senza un riferimento letterario».
Praticano sport?
«Anastasia fa equitazione e Dimitri judo».
Nei prossimi giorni seguirà qualche competizione con maggiore partecipazione?
«Mi piacciono tutte le discipline. Ma sarò certamente più coinvolto nella finale di Vanessa Ferrari. Che ora, con l’assenza della Biles, ha tutte le possibilità di vincere la medaglia d’oro. E se la meriterebbe».
La Verità, 31 luglio 2021