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Al circolo polare affiorano i nostri cuori di tenebra

È partita domenica notte su Sky Atlantic, in contemporanea con Hbo, l’emittente americana produttrice, la quarta stagione di True detective. Si intitola Night country, è scritta e diretta da Issa López, ma tra i produttori esecutivi ci sono sempre Matthew McConaughey e Woody Harrelson (interpreti della prima stagione), Nic Pizzolatto e Cary Joji Fukunaga (creatori dello show). Anche stavolta c’è una star cinematografica a reggere la storia, l’invecchiata Jodie Foster nei panni della mascolina investigatrice Liz Danvers («Porca troia» è la sua imprecazione preferita), affiancata dall’altrettanto spiccia agente Evangeline Navarro (Kali Reis), con piercing nelle guance. Donne toste in un mondo tutto maschile. È, infatti, composto di soli uomini provenienti da tutto il mondo, il gruppo di ricercatori della base scientifica Tsalal di Ennis, in Alaska, dove sta scendendo la notte polare che durerà alcune settimane. Ma quando arriva il corriere per consegnare il cibo, degli otto studiosi non c’è traccia. Salvo una lingua mozzata, sul pavimento. Basta per far scattare le indagini, anche perché i panini intonsi hanno l’odore di due giorni. Inoltre, quella lingua mozzata rimanda a un vecchio caso, chiuso in modo controverso. Inizia così il tortuoso viaggio nel «paese della notte», metafora delle tenebre che avvolgono i cuori di molti dei protagonisti. «Perché non sappiamo quali belve sogna la notte, quando il buio dura così a lungo che nemmeno Dio riesce a restare sveglio», recita la frase inventata dall’autrice per l’esergo della storia.

«Che cosa cercano scavando nel ghiaccio?», s’informa Danvers sugli obiettivi di biologi e chimici che «vivono soli, come monaci, tutto l’anno». «Direi, l’origine della vita», abbozza il collaboratore. «Ah, tutto qui?», taglia corto la scafata detective. Meno cinica sembra l’agente che di nome fa Evangeline. «Lei crede in Dio?», le chiede il fratello dell’ecologista che contestava la miniera, uccisa in circostanze non del tutto chiarite. «Sì». «Dev’essere bello non essere soli», commenta l’uomo. «No, siamo soli», replica lei, «anche Dio». Tra scenari cupi e dettagli macabri, temi ambientalisti e velleità metafisiche ma nichiliste, si presagisce l’affiorare di orrori repressi.

P.s. Al contrario della Rai che, dopo i primi due episodi de La Storia, ha reso visibili gli altri sei per la visione sequenziale su Raiplay, i prossimi cinque di Night country verranno rilasciati uno alla volta, settimanalmente. È una piccola rivoluzione. La tv generalista spera di agganciare il pubblico giovane, mentre la piattaforma digitale punta a fidelizzare il pubblico adulto, cui la serie è destinata.

 

La Verità, 17 gennaio 2024

Il terzo True Detective? Un gran bel noir sociale

Migliore della seconda, ma ancora lontana dalla qualità della prima, la terza stagione di True Detective, trasmessa in versione sottotitolata da Sky Atlantic in contemporanea con Hbo che la produce, colma un’attesa di quattro anni ma solo in parte il divario artistico dall’edizione con Matthew McConaughey e Woody Harrelson (qui produttori esecutivi con Nic Pizzolatto, ideatore e sceneggiatore della serie).

«Credevo che da queste parti ci fosse un prima e un dopo il Vietnam, invece ho scoperto che c’è un prima e un dopo il caso Purcell», confessa ai suoi superiori il detective di colore Wayne Hays (Mahershala Ali) che il 7 novembre 1980, «giorno della morte di Steve McQueen», aveva iniziato a indagare con il suo partner (Stephen Dorff) sulla scomparsa di due fratellini.

Siamo nell’altopiano dell’Ozark, America rurale di officine, store e pick up, sfiorata dalla marginalità, con veterani della guerra che girano in go-kart colmi di resti di spazzatura da rivendere e gruppetti di giovani disadattati che frequentano la Tana del Diavolo, luogo di riti satanici. Anche la professoressa di lettere del liceo (Carmen Ejogo) può far poco per migliorare le condizioni dei ragazzi. Tra lei e Hays scatta però la solidarietà dei neri nella comunità bianca, diffidente soprattutto quando l’investigatore pone le domande indispensabili per le indagini. Dieci anni dopo il caso viene riaperto a causa di nuovi elementi e, ora che Hays e la professoressa sono marito e moglie, i superiori interrogano il detective nel tentativo di chiudere definitivamente il caso che ha segnato la comunità. Anche questo interrogatorio però è narrato in retrospettiva perché, in realtà, ci troviamo nel 2015 quando, intervistato da una giornalista televisiva, l’ormai settantenne Hays tenta di riannodare i fili della memoria combattendo con i primi accenni di demenza senile.

La storia si svolge, dunque, su tre piani: la presa diretta delle indagini, la parte più avvincente e riuscita, soprattutto nell’ambientazione socio-culturale, la prima ricostruzione con l’interrogatorio del detective, e la terza, con l’esercizio di memoria e il saldo esistenziale di Hays anziano. Grazie all’invecchiamento del carismatico protagonista e all’ottima scrittura, i rimbalzi temporali, facilmente intelligibili, si snodano in un thriller che tocca senza manierismi patinati i temi del razzismo, dell’integrazione e della ricerca psicologica. Svolgendoli in un racconto lento e ricco di pathos che tuttavia non ha, e forse non può avere, il carattere innovativo della prima, inarrivabile, stagione.

 

La Verità, 16 gennaio 2019

La fabbrica delle serie americane è ancora nuova?

E se “la nuova fabbrica dei sogni” stesse cominciando a invecchiare? Non dico che sia già vecchia. No. Dico che forse è una fabbrica un po’ matura, che inizia a mostrare qualche segno di cedimento, qualche principio di ruga. La superficie del piccolo schermo – e dei pc, dei tablet, persino degli smartphone, dove i millenials più spesso le guardano – non è più così levigata. La nuova fabbrica dei sogni – Miti e riti delle serie tv americane è il saggio pubblicato da Aldo Grasso e Cecilia Penati (Il Saggiatore), frutto di ricerche e analisi approfondite del genere più in voga nella televisione mondiale, dalla metà del secolo scorso fino a oggi. La conclusione è che la serialità americana è divenuta un genere in piena regola, e che oggi “si fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm”. La tesi è sviluppata da Grasso nel primo capitolo, l’unico da lui firmato (il secondo, di excursus storico, è di Cecilia Penati, mentre gli altri tre – farciti di inglesismi che farebbero impazzire Camillo Langone – non sono firmati). “La serialità televisiva è forse la vera espressione del nostro tempo, al centro di infiniti raggi di vincolante degnità, la via di transito dei molti significati che ci circondano e che spesso ci appaiono illeggibili”. Le serie sono il genere più contemporaneo della tv del terzo millennio. Per linguaggio, innovazione, costruzione dell’immaginario. La loro consacrazione è un fatto conclamato e indiscutibile.

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Don Draper in Mad Men

È sull’americanità del fenomeno che forse si può rivedere l’assunto. Negli ultimi cinque anni si è passati progressivamente dal monopolio pressoché esclusivo di Hollywood alla sua centralità, fino ad un primato che, se pur resta solido, comincia afare i conti con la produzione europea. Ci sono state serie scandinave come The Bridge e The Killing delle quali gli americani hanno realizzato dei remake. C’è stata Gomorra, che è andata in onda in italiano, sottotitolata, nei network d’oltreoceano. Per contro, mentre la produzione a stelle e strisce aumenta, incentivata anche dall’avvento di Netflix, Amazon e Apple, la qualità delle storie, sempre più industrializzate, inizia ad attenuarsi. È soprattutto in termini d’innovazione che le serie americane sembrano perdere penetrazione. Dagli anni zero di Mad Men, LostThe Wire, I Soprano, West WingBreaking Bad, Six Feet Under, Glee, solo per citarne alcuni, negli anni dieci, pur in presenza di una crescita quantitativa, si è passati a House of Cards, True Detective (prima stagione), Mr Robot. Certamente, il primato americano persiste, soprattutto grazie a una produzione che mantiene un livello di sofisticazione medio più elevato. Ma la forbice tra America e Europa si riduce. “Il telefilm – prosegue Grasso – è un misto tra autorialità pura e design, fra idea e fabbrica, una miscela meravigliosa e impossibile di creatività e ripetizione, di ricalco e riscrittura”. La figura cardine di questo sistema è lo showrunner, colui che “fa correre” lo show, mediazione tra creativo-ideatore e produttore esecutivo, che in Europa è comparsa solo di recente. Il libro tratteggia storia e sensibilità di alcuni dei più interessanti tra loro, da J.J. Abrams (Alias, Lost) a Matthew Weiner (Mad Men, I Soprano), da Aaron Sorkin (West Wing, The Newsroom) fino a David Simon (The Wire), mettendone in luce ossessioni e predilezioni, stili narrativi e formule linguistiche. Poi, negli States esiste un canale come HBO, che ha fatto scuola svezzando e formando generazioni di autori e sceneggiatori. E già questo, da solo, basta a tenere ben solide le basi del primato…

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Elliot Anderson, protagonista di Mr. Robot

Il secondo spunto offerto dal volume è che anche i telefilm sono stati vittima della critica alla tv cattiva maestra, ritenuti causa dell’abbassamento della cultura di massa costruita sul minimo comun denominatore. Ci sono voluti decenni per riconoscer loro un adeguato livello di “artisticità”. In verità, non credo che anche per le serie sia valsa la famosa Curva del Dormiglione (Steven Johnson in Tutto quello che fa male ti fa bene, Mondadori). Ovvero che, secondo l’esperienza de Il Dormiglione di Woody Allen, dopo la sveglia fra 150 anni, ci accorgeremo che le merendine e le torte alla crema facevano bene. Nuocciono sempre al colesterolo e alla glicemia e nuoceranno anche fra due secoli. Merendine e salsicce sono reality e cronaca nera raccontata in modo morboso. Non i telefilm, mai stati trigliceridi in eccesso o grassi saturi della dieta. Semmai, da un territorio di esclusiva evasione, hanno conquistato lo status di opera letteraria, in grado di rappresentare la nostra civiltà e, ad un tempo, di psicanalizzarla.

Anche i telefilm si sono evoluti. Da Bonanza a True Detective, da Happy Days a Mr Robot. Rispetto a 40/50 anni fa, ora Hollywood esibisce ossessioni e perversioni, effetti collaterali del sogno americano. Ma a ben guardare, si tratta di sogni comuni anche di qua dell’oceano. Pure in Europa, attraverso le serie si realizza una grande seduta psicanalitica, un processo catartico, un tentativo di esorcizzare e sgravare la coscienza, metabolizzando attraverso la scrittura e lo storytelling, le nostre paure e le nostre deviazioni. “È tutta una questione di personaggi, personaggi, personaggi… Ogni cosa dev’essere al servizio delle persone. È questo l’ingrediente segreto dello show”, ha osservato Damon Lindelof, uno degli autori di Lost. In fondo, tutta la serialità racconta l’ambizione dell’uomo di essere artefice incontrastato delle proprie fortune, di affermarsi attraverso la conquista del potere, del successo, cercando di gratificare il proprio ego in tutti i modi. Spingendo il limite sempre più in là, come si vede anche in Mad Men, in HoC, in Vinyl, in Breaking Bad. Con il rischio che i nostri sogni si tramutino in incubi.