Fini, De Gregorio, Fedez: tre media per dirsi malati
Una parola come un colpo di fucile. S’intitola Cieco l’ultimo libro di Massimo Fini, pubblicato da Marsilio. È una di quelle parole che si appiccicano addosso e t’inseguono anche dopo che hai divorato in un’ora le ottanta pagine della storia. Perché continui a chiederti come avresti reagito se ti fosse capitato quello che è capitato all’autore. Fini è scrittore e giornalista prolifico, irregolare, anticonformista e anarcoide non per posa. Uno che ha accettato senza vittimismi le conseguenze del disallineamento rispetto al pensiero unico che pervade il sistema della comunicazione. La sua casa è stipata di libri, saggi soprattutto, discreti compagni. E viene da chiedersi come ora conviva con quei fantasmi e come possa essere la vita di un autore che deve documentarsi prima di scrivere e mandare un pezzo al giornale con cui collabora, il Fatto quotidiano, l’unico rimasto, avendo smesso con Il Gazzettino perché in quella condizione due testate sono troppe. Avrebbe potuto anche intitolarsi Buio questo breve memoir, perché quella è la situazione che si prospetta con l’espandersi del glaucoma, la patologia dovuta all’aumento della pressione oculare che provoca, lenta ma inesorabile, la riduzione del campo visivo (ci sono terapie che, fino a qualche anno fa, riuscivano solo a rallentarne il processo). Ma un titolo così avrebbe avuto un carattere meno pragmatico, più esistenziale e cupo che Fini, indomito fin quasi allo stoicismo, non ha voluto dare al suo racconto.
Di fronte al male, alla malattia, all’insorgere di un limite, alla scoperta di non essere invulnerabili, ci riveliamo per quello che siamo. Di quale pasta siamo fatti. E condividere, to share, è il verbo di questi anni. Nella società della comunicazione dove, a dispetto del gran parlare di privacy, il privato è sempre più pubblico, anche lo stato di salute è tema dell’agorà. Un tempo attorno a questi argomenti c’erano più pudore e discrezione. Oggi no. Ecco allora il libro snello e dissimulante di Fini, la rivelazione del tumore di Concita De Gregorio davanti alle telecamere di Belve su Rai 2, i post su Instagram con foto della cicatrice dopo l’intervento allo stomaco di Fedez. Tre modi diversi d’impattare il destino. La tempra con cui lo si accetta, ci si confronta, si ingaggia la lotta. E, in rapporto alle diverse generazioni, anche tre media diversi con cui svelarlo: la parola scritta, la televisione, i social.
Nelle pagine di Cieco l’incombere del dramma è sciolto nella leggerezza e nelle digressioni della vita spericolata, della vita da viveur, della vita da studioso di cui è protagonista un uomo che ha fatto l’inviato, il reporter, lo sciupafemmine. Ed è abituato a gustarsi i giorni senza troppi tatticismi e pudori. Alternando le visite da titubanti oculisti a certe bravate da superuomo. Come quando, già con la malattia in corso da due anni, «l’occhio sinistro quasi completamente spento», si mise al volante per completare il valico dell’Appennino sull’Autosole dopo che l’allora moglie era stata assalita da un attacco di panico: «Cosa facciamo, Mariella? Chiamiamo il carro attrezzi?». Sì, avrebbero risposto i più assennati. O magari anche un paio di amici patentati. Invece, missione compiuta. E l’adrenalina riprende a scorrere anche ora, al ricordo e alla nostalgia di quello che non si può più fare. Come, appunto, salire in auto per andare a trovare «un amico a Firenze, Treviso, Venezia o dove diavolo sta». Fini detesta l’obbligo dell’orario da rispettare del treno. Vuol decidere in autonomia, senza dipendere. C’è da immaginare quanto patisca il doverlo fare, non poter aprire un giornale e buttarsi sui tasti del pc o della macchina per scrivere e invece ricorrere all’assistenza di qualcuno che legge per lui, gli segnala le curiosità, e gli ha fatto da sparring partner anche per la stesura di Cieco, arricchendolo forse della densità e della lucentezza che possono derivare dal confronto. Rara complicità vincente. Perché, mentre il campo visivo si restringe, cambia il modo di guardare e si espande il desiderio di vedere e trattenere un panorama, la vista del mare, l’incedere di una bella donna. E la privazione confina con l’impotenza e la solitudine. «Massimo, io potrei anche accompagnarti in giro e dirti ciò che vedo e tu magari scriverne. Ma quello che vedo io non è quello che vedresti tu», sintetizza Mariella, l’ex moglie. Siamo unici e irripetibili. Lo sono anche la nostra percezione e la nostra sensibilità. E l’ironia con cui nuotare al largo dai vittimismi, sempre in agguato.
In fondo, lo stesso rifiuto ha consigliato a De Gregorio di rivelare la sua patologia solo ora davanti alle domande di Francesca Fagnani che le chiedeva se avesse cambiato acconciatura per copiare il taglio di Giorgia Meloni, come aveva scritto un giornale. «Porto una parrucca, dopo che mi sono operata per un cancro… Ne parlo al passato perché ho tolto tutto quello che dovevo togliere, ma non si può mai parlare al passato in questi casi, anche se siamo sulla buona strada… La ragione per cui ne parlo solo con poche persone amiche, e questa è la prima volta che lo facciamo, è che quando ne parli in pubblico poi tutti tornano da te con aria un po’ contrita e dolente chiedendoti come stai… Ma quello è un pezzo della vita, non è tutta la vita». Il momento più difficile è stato dirlo al figlio più giovane che vive in Australia. «Volevo farlo di persona», ha continuato De Gregorio che è madre, giornalista e in tour a teatro. «Ma in quel tempo facevo una terapia molto fitta. Ho convinto i medici che mi avrebbe fatto meglio vedere mio figlio che fare la terapia senza vederlo». Un pizzico di stoicismo…
Se invece si vive sui social, se la comunicazione è l’habitat totale e totalizzante, bisogna dire tutto in tempo reale. Fare i video post operazione, mostrare la cicatrice appena suturata, spiegare perché a un certo punto si è cominciato improvvisamente a balbettare. È quello che ha fatto, forse ha dovuto fare, Fedez per dissolvere preoccupazioni e placare i followers inquieti. Sono i social, bellezza, e tu non ci puoi fare niente. Tutto è sotto i riflettori. Tutto è mostrato ed esibito. Con il dubbio collaterale dell’autocommiserazione e dell’autocompassione. Di certo c’è l’addio al pudore e alla condivisione della fragilità limitata a pochi amici. E anche al piccolo contributo terapeutico che può venire dall’ironia. Quella che faceva dire a Woody Allen che le due parole che più si spera di ascoltare non sono «ti amo», ma: «È benigno».
La Verità, 21 marzo 2023