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Fini, De Gregorio, Fedez: tre media per dirsi malati

Una parola come un colpo di fucile. S’intitola Cieco l’ultimo libro di Massimo Fini, pubblicato da Marsilio. È una di quelle parole che si appiccicano addosso e t’inseguono anche dopo che hai divorato in un’ora le ottanta pagine della storia. Perché continui a chiederti come avresti reagito se ti fosse capitato quello che è capitato all’autore. Fini è scrittore e giornalista prolifico, irregolare, anticonformista e anarcoide non per posa. Uno che ha accettato senza vittimismi le conseguenze del disallineamento rispetto al pensiero unico che pervade il sistema della comunicazione. La sua casa è stipata di libri, saggi soprattutto, discreti compagni. E viene da chiedersi come ora conviva con quei fantasmi e come possa essere la vita di un autore che deve documentarsi prima di scrivere e mandare un pezzo al giornale con cui collabora, il Fatto quotidiano, l’unico rimasto, avendo smesso con Il Gazzettino perché in quella condizione due testate sono troppe. Avrebbe potuto anche intitolarsi Buio questo breve memoir, perché quella è la situazione che si prospetta con l’espandersi del glaucoma, la patologia dovuta all’aumento della pressione oculare che provoca, lenta ma inesorabile, la riduzione del campo visivo (ci sono terapie che, fino a qualche anno fa, riuscivano solo a rallentarne il processo). Ma un titolo così avrebbe avuto un carattere meno pragmatico, più esistenziale e cupo che Fini, indomito fin quasi allo stoicismo, non ha voluto dare al suo racconto.

Di fronte al male, alla malattia, all’insorgere di un limite, alla scoperta di non essere invulnerabili, ci riveliamo per quello che siamo. Di quale pasta siamo fatti. E condividere, to share, è il verbo di questi anni. Nella società della comunicazione dove, a dispetto del gran parlare di privacy, il privato è sempre più pubblico, anche lo stato di salute è tema dell’agorà. Un tempo attorno a questi argomenti c’erano più pudore e discrezione. Oggi no. Ecco allora il libro snello e dissimulante di Fini, la rivelazione del tumore di Concita De Gregorio davanti alle telecamere di Belve su Rai 2, i post su Instagram con foto della cicatrice dopo l’intervento allo stomaco di Fedez. Tre modi diversi d’impattare il destino. La tempra con cui lo si accetta, ci si confronta, si ingaggia la lotta. E, in rapporto alle diverse generazioni, anche tre media diversi con cui svelarlo: la parola scritta, la televisione, i social.

Nelle pagine di Cieco l’incombere del dramma è sciolto nella leggerezza e nelle digressioni della vita spericolata, della vita da viveur, della vita da studioso di cui è protagonista un uomo che ha fatto l’inviato, il reporter, lo sciupafemmine. Ed è abituato a gustarsi i giorni senza troppi tatticismi e pudori. Alternando le visite da titubanti oculisti a certe bravate da superuomo. Come quando, già con la malattia in corso da due anni, «l’occhio sinistro quasi completamente spento», si mise al volante per completare il valico dell’Appennino sull’Autosole dopo che l’allora moglie era stata assalita da un attacco di panico: «Cosa facciamo, Mariella? Chiamiamo il carro attrezzi?». Sì, avrebbero risposto i più assennati. O magari anche un paio di amici patentati. Invece, missione compiuta. E l’adrenalina riprende a scorrere anche ora, al ricordo e alla nostalgia di quello che non si può più fare. Come, appunto, salire in auto per andare a trovare «un amico a Firenze, Treviso, Venezia o dove diavolo sta». Fini detesta l’obbligo dell’orario da rispettare del treno. Vuol decidere in autonomia, senza dipendere. C’è da immaginare quanto patisca il doverlo fare, non poter aprire un giornale e buttarsi sui tasti del pc o della macchina per scrivere e invece ricorrere all’assistenza di qualcuno che legge per lui, gli segnala le curiosità, e gli ha fatto da sparring partner anche per la stesura di Cieco, arricchendolo forse della densità e della lucentezza che possono derivare dal confronto. Rara complicità vincente. Perché, mentre il campo visivo si restringe, cambia il modo di guardare e si espande il desiderio di vedere e trattenere un panorama, la vista del mare, l’incedere di una bella donna. E la privazione confina con l’impotenza e la solitudine. «Massimo, io potrei anche accompagnarti in giro e dirti ciò che vedo e tu magari scriverne. Ma quello che vedo io non è quello che vedresti tu», sintetizza Mariella, l’ex moglie. Siamo unici e irripetibili. Lo sono anche la nostra percezione e la nostra sensibilità. E l’ironia con cui nuotare al largo dai vittimismi, sempre in agguato.

In fondo, lo stesso rifiuto ha consigliato a De Gregorio di rivelare la sua patologia solo ora davanti alle domande di Francesca Fagnani che le chiedeva se avesse cambiato acconciatura per copiare il taglio di Giorgia Meloni, come aveva scritto un giornale. «Porto una parrucca, dopo che mi sono operata per un cancro… Ne parlo al passato perché ho tolto tutto quello che dovevo togliere, ma non si può mai parlare al passato in questi casi, anche se siamo sulla buona strada… La ragione per cui ne parlo solo con poche persone amiche, e questa è la prima volta che lo facciamo, è che quando ne parli in pubblico poi tutti tornano da te con aria un po’ contrita e dolente chiedendoti come stai… Ma quello è un pezzo della vita, non è tutta la vita». Il momento più difficile è stato dirlo al figlio più giovane che vive in Australia. «Volevo farlo di persona», ha continuato De Gregorio che è madre, giornalista e in tour a teatro. «Ma in quel tempo facevo una terapia molto fitta. Ho convinto i medici che mi avrebbe fatto meglio vedere mio figlio che fare la terapia senza vederlo». Un pizzico di stoicismo…

Se invece si vive sui social, se la comunicazione è l’habitat totale e totalizzante, bisogna dire tutto in tempo reale. Fare i video post operazione, mostrare la cicatrice appena suturata, spiegare perché a un certo punto si è cominciato improvvisamente a balbettare. È quello che ha fatto, forse ha dovuto fare, Fedez per dissolvere preoccupazioni e placare i followers inquieti. Sono i social, bellezza, e tu non ci puoi fare niente. Tutto è sotto i riflettori. Tutto è mostrato ed esibito. Con il dubbio collaterale dell’autocommiserazione e dell’autocompassione. Di certo c’è l’addio al pudore e alla condivisione della fragilità limitata a pochi amici. E anche al piccolo contributo terapeutico che può venire dall’ironia. Quella che faceva dire a Woody Allen che le due parole che più si spera di ascoltare non sono «ti amo», ma: «È benigno».

 

La Verità, 21 marzo 2023

 

«Dopo il tumore prego, ma non so il Padre nostro»

«Questa è la mia officina e non la vendo a nessuno», esordisce Toto Cutugno, seduto tra i suoi collaboratori. Siamo nello studio di registrazione in un seminterrato di Milano est. «Qui veniva anche Adriano Celentano, il più grande di tutti, per il quale ho scritto alcuni successi come Soli. Poi Loredana Bertè, Pino Daniele, sono venuti in tanti… Adesso fanno tutto con i cellulari. Questo studio era di Gino Paoli, poi del maestro Pinuccio Pirazzoli, quello che lavora con Carlo Conti. Poi l’ho preso io». Intorno a Cutugno, 75 anni, toscano di Fosdinovo (Massa Carrara), ci sono il manager Danilo Mancuso, la responsabile dei rapporti con i media Gessica Giglio, i tecnici e i musicisti, anche loro reduci da un tour all’estero.

Dove siete stati?

«A Budapest, Praga, Varsavia e Bratislava. E a Kiev».

Bilancio?

«Molto positivo. Palazzetti e arene sempre esaurite. Grandi soddisfazioni anche a Kiev».

In Ucraina era indesiderato.

«Ci sono andato proprio nella settimana in cui un senatore mi aveva citato come spia sovietica. Prima ha accusato Al Bano, poi me. Mi sono messo a ridere. All’aeroporto c’erano tutte le tv ad aspettarmi. Ho fatto un grande concerto con l’orchestra sinfonica».

Come si è spiegato un attacco come quello?

«E chi lo sa? Magari alla moglie del senatore piacciono troppo le mie canzoni (sorride). L’ho anche invitato al concerto, ma non è venuto. Invece, i presidenti ucraini sono sempre venuti».

In quei giorni c’erano anche le elezioni presidenziali.

«Ed è stato eletto Volodymyr Zelensky, un comico che ricorda il nostro Beppe Grillo. Ho partecipato anche a un programma tv con lui. Un simpaticone. Aveva fatto una serie in cui interpretava il ruolo di un professore che diventa capo dello Stato. E lo è diventato veramente».

Il senatore che l’accusa appartiene a un partito avversario?

«Sì, ma è stata un’uscita isolata. Al Bano si era espresso in favore di Vladimir Putin durante la guerra di Crimea, io non ho detto nulla. Anni fa, dopo un concerto, Putin venne in camerino, mi ha dato la mano e se n’è andato. Un uomo con uno sguardo glaciale».

Però Al Bano è suo amico.

«Un fratello. Se sono qui lo devo a lui. Un giorno, era il 2007, viene a trovarmi. Gli dico: “Sai che cosa mi succede Al? Di notte devo alzarmi tre o quattro volte…”. Fa una telefonata e mi prende un appuntamento per l’indomani al San Raffaele. Il medico mi visita e decide di operarmi d’urgenza. Se non ci fosse stato Al Bano… Ora sono un miracolato che ama la vita più di prima. Solo, non riesco a camminare tanto e dovrei smettere di fumare».

In quali altri paesi la chiamano?

«Dovunque. In Turchia, in Afghanistan. Sono stato in tutte le repubbliche dell’ex Unione sovietica, dalla Kamchatka alla Lituania. Poi in Armenia, a Dubai, a Cartagine in Tunisia, in Algeria, in Germania, in Spagna. In Francia, all’Olimpia di Parigi».

Nel dicembre scorso.

«Grande serata. In Francia sono amato perché mi ha spalancato la carriera di compositore quando Joe Dassin volle cantare un mio brano. Poi sono arrivati Johnny Halliday, Mireille Mathieu e tutti gli altri».

Com’è l’Italia vista dai suoi concerti all’estero?

«Guai a chi me la tocca… Certo, ci sono tante cose che non funzionano. Ma quando sei fuori ti rendi conto della bellezza dell’Italia. Io la conosco anche nei suoi angoli remoti perché per tre anni, facendo Piacere Rai1 con Piero Badaloni e Simona Marchini, l’ho girata in lungo e in largo».

È più facile organizzare un tour in Italia o all’estero?

«Qui siamo cantanti nazionalpopolari, mentre all’estero ci vedono come artisti internazionali. Per questo è un po’ che non faccio tournée italiane. Ho un po’ di paura, mi è sembrato di esser finito nel dimenticatoio… Con tutto questo rap ho cominciato a pensare che la melodia mediterranea sia meno amata. Ma forse, se fai una bella canzone, l’apprezzano anche i giovani. Sto lavorando a un nuovo disco che sarà pronto in ottobre. Il mio manager vuole farmi provare sette otto tappe, poi vediamo. Anche dopo la vicenda dell’Ucraina, in tanti mi chiedono perché non faccio più concerti in Italia. Presto succederà».

Perché lei, Al Bano, Gigliola Cinquetti, i Ricchi e poveri, Riccardo Fogli, Marcella avete tanto successo soprattutto all’Est?

«La prima volta che sono andato a cantare in Unione sovietica era il 1986. C’erano ancora il Muro di Berlino e la dittatura. Feci 15 serate a Mosca e 15 a San Pietroburgo: 20.000 persone a concerto. La domenica se ne facevano due, uno al pomeriggio e uno la sera. I biglietti venivano venduti nelle fabbriche. Erano anni cupi, ma i russi vedevano il Festival di Sanremo. Cercavano quella spensieratezza che c’è nelle nostre canzoni. Le mie piacevano e piacciono molto alle donne, perché vedono l’italiano romantico e sentono l’armonia mediterranea. Poi in alcune mie canzoni ci sono delle assonanze con la musica popolare russa».

Perché ha il record di partecipazioni a Sanremo?

«Ci sono andato quindici volte. La prima, nel 1980, l’ho vinto con Solo noi e ho cominciato a pensare che fosse facile vincerlo. Così sono tornato, ma sono sempre arrivato secondo e la cosa mi fa un po’ incazzare. Però l’anno che sono arrivato dietro ai Pooh sono andato all’Eurofestival al posto loro, e l’ho vinto. Mi piaceva gareggiare. Arrivavo in albergo a Sanremo e dicevo a mia moglie: “Questa volta non mi voglio incazzare”. Ma dopo un quarto d’ora stavo già litigando con i giornalisti».

Motivo?

«Dicevano che ero ruffiano perché avevo scritto le canzoni sulle mamme e sui figli. Ma Le mamme parlava di mia madre che non c’era più e Figli l’avevo scritta dopo che era nato Niko. Ho scritto anche serenate, ballate malinconiche, Voglio andare a vivere in campagna…».

Mai stato idilliaco il suo rapporto con i giornalisti.

«Ce n’era uno molto importante che appena mi vedeva mi abbracciava. Ma appena c’era una telecamera teneva le distanze. Un altro mi elogiava in pubblico come musicista, ma stroncava le canzoni sul giornale. Io non sopporto l’ipocrisia, la doppiezza, amo la gente…».

Vede il pericolo che anche Sanremo diventi una manifestazione per intellettuali?

«Dipende sempre dal direttore artistico, anche lì si va per amicizie. Vorrei sapere quale canzone ha lasciato il segno negli ultimi vent’anni. Soldi mi piaceva, era una bella furbata e all’Eurofestival Mahmood è arrivato secondo. A me sembra che ci siano troppi talent, X Factor, The Voice, Amici, quello di Michelle Hunziker e J-Ax. Tutti bravi, ma dov’è lo spazio? E i ragazzi che non sfondano lo accettano o magari cadono in depressione?».

Ha seguito le polemiche del festival di quest’anno?

«Una volta c’era il voto popolare abbinato al Totip e vinceva la canzone che piaceva alla gente. Nel 1983 con L’Italiano sono arrivato quinto. Mentre con il voto del Totip, che quell’anno era sperimentale, avrei vinto. La sera mi telefonò Domenico Modugno: “Ho sentito la canzone, tu sarai il mio proseguimento”. Fu quella la mia vittoria».

Un verso di Insieme con cui ha vinto l’Eurofestival dice: «L’Europa non è lontana, c’è una canzone italiana». È la sintesi delle ultime elezioni?

«Quando l’ho scritta l’Unione europea non c’era ancora, ma qualche giorno fa a Bratislava la cantavano tutti. Sì, sembra la sintesi delle elezioni, anche se dicono che in Europa la canzone italiana conta poco. Speriamo che cambi, che riescano a ridurre le tasse, non ha idea di quante ne pago io».

Lei come le ha vissute queste elezioni?

«Premetto: io sono apolitico. Ho seguito i leader e a volte penso che parlano bene e razzolano male. Matteo Salvini mi piace, l’ho anche votato, vediamo che cosa riesce a fare. Io sono sempre stato berlusconiano, però adesso Berlusconi mi fa tenerezza. Quando l’ho conosciuto, prima che entrasse in politica, aveva grande carisma».

Come l’ha conosciuto?

«M’invitò ad Arcore nel ’93, voleva che passassi a Mediaset. Mi fece parlare e io gli raccontai di mio padre che suonava la tromba e di quella volta che gli telefonai dopo il successo di Soli cantata da Celentano: “Sì, bella canzone, ma è un po’ copiata, somiglia a questa…”, disse intonando un’aria che non c’entrava niente. Allora Berlusconi mi propose di andare a vedere il Milan in elicottero: “Perché non compone l’inno del Milan al posto di quello di Toni Renis? Intanto che vado a cambiarmi, provi qualcosa al pianoforte”. Dopo un po’ che strimpello, scende in giacca e cravatta per andare allo stadio, si avvicina, appoggia una mano sulla spalla e mi fa: “Mi piace, ma è un po’ copiata…”. Un grande. Siamo andati a vedere la partita, ma poi sono rimasto in Rai».

Che richiesta farebbe oggi al mondo politico?

«Di realizzare quello che promette. Chiunque sia, almeno la gente potrebbe fidarsi. Per esempio, le telecamere di sorveglianza negli asili e negli ospedali sono un’ottima idea. Ma che lo facciano davvero. Anche controllare gli sbarchi è giusto. Quando vedo queste mamme con i bambini che vagano per strada mi si spacca il cuore. Però non possiamo accogliere tutti noi… L’Europa c’è solo per presentare il conto? Che si divida i compiti anche sull’immigrazione».

Chi è oggi «un italiano vero»?

«Bella domanda. Allora era Pertini, il presidente partigiano. Anche mio padre è stato partigiano… L’italiano vero è chi realizza quello che ha promesso. Non dico tutto, ma in gran parte».

Mi dice il titolo del nuovo disco?

«Io pensavo Tic tac, ma il mio manager non è convinto. C’è una canzone sul tempo che s’intitola così. Chiedo di avere tempo perché ho ancora tante cose da dire e da fare».

Il tempo che passa… lei è credente?

«Quando ho scoperto di avere il tumore sono cambiato. Da bambini si dice “mamma aiutami”, da adulti si invoca Dio. Io ho cominciato a rivolgermi a Dio, anche se non vado in chiesa. Prego con le mie parole, il Padre nostro non me lo ricordo tutto: Padre nostro che sei nei cieli… sia santificato il tuo nome… E poi?».

 

La Verità, 2 giugno 2019

 

 

«Nei talent (e nella vita) vincono gli incassatori»

Mara Maionchi si aggira per il teatro Linear Ciak di Milano con un’Italia d’oro appesa al collo. «Le piace? Siamo italiani, no? Io sì», ridacchia. «Non dobbiamo star sempre lì a incensare inglesi e tedeschi». L’undicesima edizione macina record di X Factor è finalmente entrata nel vivo con la prima serata live e, oltre alla curiosità di vedere chi vincerà, c’è quella di seguire il ritorno in giuria della più politicamente scorretta tra i giudici. Pronti via, dopo le esibizioni dei primi due concorrenti subito scintille tra lei e Manuel Agnelli. Il casus belli è stata la scelta di un brano di Jacques Brel, considerato troppo classico per un concorrente di Mara. «È più facile far casino sui tavoli piuttosto che cantare un amore finito. Io di casino sui tavoli ne ho già visto a strafottere», ha replicato lei, criticando a sua volta la performance di un gruppo di Agnelli.

76 anni, un matrimonio che resiste da 40, parecchie battaglie vinte nel curriculum, compreso un tumore al seno, Maionchi si diverte ancora come ne avesse 25. E anche il pubblico mostra di apprezzare i suoi giudizi senza peli sulla lingua.

Signora, con Agnelli si profila un bel match. Vediamo se è diplomatica o è Mara Maionchi: tra i suoi colleghi giudici con chi ha più feeling?

«Non sono diplomatica, sono sincera: mi sono simpatici tutti. Si possono avere discussioni e opinioni diverse continuando a restarsi simpatici e a stimarsi. Sono tre persone gentili, Fedez è dolce, sa che ho un problema al ginocchio e mi dà una mano, Levante è un amore, Agnelli correttissimo. Le discussioni ci possono stare. Anzi: fortuna che ci sono, altrimenti sarebbe un mortorio. Le idee degli altri le rispetto perché può essere benissimo che io non abbia capito. Non ho certezze e quelle che ho possono cambiare. Poi tutti sanno come sono fatta e i difetti che ho».

Le chiedevo un fatto di pelle, di feeling con loro.

«Ma no guardi, alla mia età ho poca pelle».

Fedez, Levante, Mara Maionchi, Fedez con Alessandro Cattelan

Fedez, Levante, Mara Maionchi e Fedez con Alessandro Cattelan

Più che ribelle si definisce controcorrente.

«Sì, mi piacerebbe esserlo. Gli anticipatori sono sempre un po’ controcorrente. Ma non voglio sembrare presuntuosa».

E qual è la corrente contro la quale va?

«Il già sentito, il già visto. Che non vuol dire la tradizione. Della quale, anzi, dobbiamo tener conto perché è la nostra storia».

E quindi, la corrente da contrastare?

«È l’inutilità. Le canzoni che non danno problemi, che non raccontano storie, che non riescono a provocare discussioni, contestazioni».

Cosa l’ha fatta tornare giudice di un talent?

«La mia storia. La voglia di provare a vedere se sono fuori gioco o no. Sono qui perché sono da quarant’anni nella musica. Quando nacque X Factor in Italia Giorgio Gori, allora capo di Magnolia, scelse me e Morgan. Direi che è andata bene».

È giudice di un talent, ma predica lavoro e lavoro.

«Senza lavoro il talento resta inespresso, non cresce, non si sviluppa. Ci vuole il lavoro affinché il talento si esprima al 100%. Poi ci vuole anche la fortuna, l’occasione giusta… Ma se quando ti si presenta non ti fai trovare pronto perché hai lavorato puoi perdere il treno».

Facciamo un esempio?

«I Beatles il talento ce l’avevano. Ma credo che a loro siano molto serviti gli anni passati in Germania a suonare nei locali, prima di sfondare».

Lo sport è pieno di talenti non completamente realizzati per mancanza di applicazione, Balotelli nel calcio, Fognini nel tennis… Nella musica?

«Il primo che mi viene in mente è Piero Ciampi, un grande autore, un poeta. Che aveva problemi con l’alcol e non lasciato il ricordo che avrebbe potuto lasciare».

Quindi, fra talento e lavoro?

«Ci vogliono entrambi. Credo che, alla fine, i vincenti siano gli incassatori, quelli che rinascono dalle sconfitte. Quelli che resistono alle avversità si rinforzano e hanno più possibilità di vincere».

Qual è la sconfitta più cocente che ha patito?

«Quando fai il discografico e devi far uscire un lavoro nuovo devi superare mille difficoltà. Il primo disco di Tiziano Ferro, nel 2001, io e mio marito l’avevamo offerto a tante etichette, multinazionali importanti. Ci avevano detto tutte di no. Noi eravamo convinti, ma non riuscivamo a imporlo. Alla fine la Emi lo prese, ma eravamo disperati, era l’ultimo tentativo. Le cito questo caso, ma potrei citargliene molti altri».

Anche a X Factor vincono gli incassatori? Alcuni di loro non hanno proprio sfondato.

«Nella vita è più facile fare errori che cose giuste. Si sbaglia, anche con la fissa di cantare in inglese. Però, va bene… sono esseri umani anche i talenti. Non sempre si ha la pazienza giusta».

L’abbiamo vista commuoversi, sotto la scorza…

«Io faccio tutto, piango, m’incazzo, dico le parolacce. Sono una borghese maleducata… Mia madre mi rimproverava, lei tratteneva tutte le emozioni. Io da vecchia non ho ancora imparato».

Qual è la sua musica preferita?

«Il rock, tutto il rock. E il pop, che significa popolare».

Maionchi: «Con Lucio Battisti ho lavorato cinque anni»

Maionchi: «Con Lucio Battisti ho lavorato cinque anni»

Se dovesse dire qualche nome?

«Lucio Battisti, con il quale ho lavorato cinque anni, un autore che ha dato la svolta alla canzone italiana. Poi Mina, certo: indiscutibile. Anche Tiziano Ferro mi piace».

Questi sono tutti pop. Qualche nome rock, anche fuori dall’Italia?

«Ma fuori dall’Italia è un mare, un oceano. Mi fa fare uno sforzo di memoria perché la lista è lunga. Dai Deep Purple ai Pink Floid, dai Led Zeppelin agli Acdc, potrei andare avanti. In Italia Vasco è il primo, rock e pop. I primi due dischi dei Litfiba erano ottimo rock. Andando indietro gli Area, da cui è nato il progressive, seguito anche da Agnelli. Il rock è anche un modo di vivere…».

Torniamo alle sue scoperte. Tiziano Ferro lo cita sempre, come la Nannini…

«Perché sono due con i quali ho lavorato».

Ferro e la Nannini: un feeling particolare con gli omossessuali?

«Ah ah ah… non ci avevo pensato. Pura combinazione. Ho lavorato alla costruzione di un percorso artistico».

Chi sono i geni della musica italiana?

«Giancarlo Bigazzi, Mogol, Ennio Morricone che faceva l’arrangiatore alla Rca, Sergio Endrigo».

I cantautori non sembrano la sua tazza di tè.

«Non è vero. Francesco de Gregori, Lucio Dalla, Fabrizio de André, altro che!».

Tiziano Ferro. Dice Maionchi: «Il suo disco non lo voleva nessuno, poi...»

Tiziano Ferro. Dice Maionchi: «Il suo disco non lo voleva nessuno, poi…»

Lei è severa o solo burbera?

«Vorrei essere severa, ma non sempre ci riesco. Invece, credo che una certa severità all’inglese, stavolta sì, possa servire. Con i ragazzi spingo su questo tasto per capire di che cosa hanno davvero bisogno. Anche se ho 44 anni di discografia sulle spalle, a volte sono spaventata perché quando si lavora per gli altri un tuo errore lo possono pagare loro».

Parliamo della sua vita. Ha sposato un uomo di dieci anni più giovane.

«Il Salerno. Un autore di musica, un paroliere che ha scritto tanti successi».

Una sua nonna invece si separò dal marito all’inizio del Novecento.

«Siamo donne un po’ ribelli. Diciamo che la mia era una famiglia matriarcale».

Ha definito il matrimonio una rottura di coglioni.

«Volevo dire che a volte devi adattarti, essere tollerante».

Il suo regge, nonostante…

«Vale la pena salvarlo sempre. A meno che non ci siano cose gravi. Il matrimonio è fondamentale».

Anche se si è traditi?

«Sa quanti amici e colleghi mi hanno tradito? Non si può lasciare un marito per la sciocchezza di una sera. Ci vuole un po’ di pazienza. Ecco, insieme agli incassatori i vincitori sono anche le persone pazienti. Le persone miti, anche se io non lo sono molto».

Non si deve confondere mitezza con mancanza di schiettezza.

«Esatto. Per dire, san Francesco non si tirò indietro quando c’era da dire al Papa che qualcosa non andava».

Questo Papa le piace?

«Mi piace perché sta facendo un tentativo di cambiare certe cose in Vaticano che era importante cambiare».

Nell’ambiente dello spettacolo se ne vedono di tutti i colori quanto a matrimonio e famiglia.

«E mi dispiace. La famiglia è troppo importante. E non sono bacchettona. Posso presentarle mia figlia?».

È un piacere… Anche sui figli: oggi li si vogliono a tutti i costi o anche non li si vogliono a tutti i costi.

«È vero. Quello che si vede è troppo».

Signora Maionchi, possiamo parlare del tumore?

«È stata una brutta botta. Ho sempre fatto regolarmente gli esami. Tre anni fa il mio medico mi ha detto che c’era qualcosa che non andava. Si pensa sempre di essere immuni, invece stavolta era toccato a me. Fortunatamente i linfonodi erano sani. Ho fatto la radioterapia, non mi sono scoraggiata. Magari a una donna più giovane va peggio perché il male cammina più velocemente. Ho fatto i controlli di recente e va tutto bene».

Ho letto che dice il rosario tutti i giorni: è vero o è una boutade?

«È vero, mi piace. È come un mantra. Per venti minuti mi allontano dal mondo dei viventi e apro un altro canale di comunicazione».

È superstiziosa?

«No, fatalista sì. Quando sarà il mio momento, arriverà».

È credente?

«Sì. Anche se non frequento il fan club perché non sempre mi ha soddisfatto».

Quand’era più giovane o di recente?

«Quand’ero più giovane. Però, adesso quello che conta di più è che sono credente».

Le piace molto stare con i giovani. Si vede che è a suo agio, senza maternalismi…

«Mi piace perché sono freschi, immediati, non costruiti. Anche nelle stupidaggini. Non ho retropensieri. Mi piace anche quando mi mandano a dar via il culo. Spesso hanno ragione».

Chi è la persona da cui ha avuto di più?

«Mio marito, anche se abbiamo passato la vita a litigare. Ma nel litigio abbiamo scoperto delle cose di noi che non conoscevamo».

La Verità, 29 ottobre 2017