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«Perché io, comunista, non sono di sinistra»

Qualche giorno fa, ospite di Agorà su Rai 3, Marco Rizzo ha detto: «Non so se devo questo invito a Luisella Costamagna, torinese come me, oppure al fatto che oggi ricorre il centenario della nascita del Pcd’I (Partito comunista d’Italia ndr). Nel secondo caso, la prossima volta m’inviterete fra altri cento anni?».

Rai 3 la osteggia?

«Tutti i media di sinistra lo fanno».

E perché mai?

«Perché racconto la verità e dico che la sinistra ha tradito i suoi ideali».

Lei è un comunista di destra?

«Io sono figlio di un operaio della Fiat. Nato e vissuto a Torino, nel quartiere periferico di Borgo Vittoria, dove il Pci prendeva il massimo dei voti. Bene, nel palazzone che all’epoca ospitava la sede provinciale del partito, adesso c’è quella di Unicredit. Questo cambio di destinazione d’uso dà plasticamente il senso di ciò che è successo in questi anni».

Ovvero?

«La sinistra ha abbandonato le periferie e i lavoratori e si è convertita a Bruxelles e alla finanza. Eppure, in occasione di questo centenario, si dà massima visibilità a coloro che il Pci l’hanno sciolto, come Achille Occhetto e Massimo D’Alema. Ad Andrea Romano che giovedì si è presentato alla manifestazione di Livorno con una delegazione del Pd i nostri militanti hanno cantato: “Chi ha sciolto il Pci non può stare qui”».

Sessantuno anni, padre di tre figli, laureato in Scienze politiche, fondatore di Rifondazione comunista e del Partito dei comunisti italiani, deputato per tre legislature e poi europarlamentare fino al 2009, dal 2014 Marco Rizzo è segretario generale del Partito comunista (Pc).

Come vive?

«Scrivo libri e faccio il segretario. Politica non è solo sedere nelle istituzioni. Noi siamo l’unico partito nel quale un eletto percepisce uno stipendio da lavoratore».

Come il M5s.

«Si è visto com’è andata».

Quanti siete?

«Nel 2018 abbiamo preso circa 100.000 voti, alle europee del 2019 siamo arrivati a 250.000. Cresciamo».

Che cosa è vivo del comunismo oggi?

«Ci sono due grandi questioni. La prima è la difesa del lavoro. Siccome i tempi per produrre si ridurranno sempre più, siamo di fronte a un bivio. O imbocchiamo la strada della globalizzazione, con aziende private più forti degli Stati, pochi uomini padroni della ricchezza mondiale e un esercito di schiavi a produrla, oppure scegliamo una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, per lavorare tutti, lavorare meno e vivere meglio».

La seconda questione?

«È l’economia dominante sulla politica. In larga parte del mondo occidentale la finanza e i mercati comandano su tutto. Io credo che il primo passo del socialismo sia far tornare la politica a governare economia e finanza».

Come per esempio accade in Cina, unico paese in espansione in questa crisi da lei stessa prodotta?

«Non voglio certo dire che sia un Paese guida. Però in Cina economia e finanza non comandano la politica. Jack Ma, il miliardario di Alibaba che ha tentato di diventare indipendente, è stato bloccato dall’authority e ridotto a miti consigli. Un altro oligarca cinese è stato condannato a morte per corruzione. Ovviamente non teorizzo la pena di morte, è solo per dire che comanda la politica».

È l’esempio giusto: dovunque si sia realizzato, il comunismo ha generato morte e privazione delle libertà.

«Questo è l’interrogativo: socialismo e liberalismo si confrontato sul crinale tra giustizia sociale da una parte e libertà individuale dall’altra. Oggi il capitalismo occidentale garantisce davvero la libertà individuale? Quando Twitter censura il presidente americano in campagna elettorale è libertà? Lo dico al di là delle posizioni di Donald Trump. Se John Fitzgerald Kennedy fosse stato censurato dal New York Times, il giorno dopo l’Fbi avrebbe sigillato le rotative».

Quindi per la giustizia sociale lei sarebbe pronto a cedere le libertà?

«Dico che anche in Occidente non sono garantite. La Cina non è certo il modello, ma pensiamo a come ha affrontato la pandemia. In un mese e mezzo ha sconfitto il Covid. L’impostazione statale ha funzionato. In Occidente le cose sono andate peggio perché la sanità è finalizzata al profitto».

Anche in Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Finlandia, Norvegia, Danimarca si è contrastato efficacemente il Covid.

«Sono tutte isole e penisole».

Anche l’Italia è una penisola, ma le nostre frontiere sono aperte. La pandemia ha mostrato le crepe della globalizzazione, ma nell’Unione sovietica c’erano sia povertà che dittatura.

«L’Urss di quegli anni si confrontava con Hitler e Mussolini. E la democratica America ha lanciato due bombe atomiche quando la guerra era già vinta. Chiederci degli orrori del sistema sovietico è come rinfacciare l’Inquisizione alla Chiesa di papa Francesco. Bisogna contestualizzare».

C’è sempre una contestualizzazione che fa da alibi, tuttavia è andata così dovunque e comunque.

«In Cina in vent’anni 700 milioni di persone sono state riscattate dalla povertà. Nel mondo capitalista la povertà aumenta e le libertà diminuiscono. I social media hanno bloccato Libero, il Manifesto, l’autore di satira LefrasidiOsho e il sottoscritto. Oggi se non sei sui social non esisti, ma se sei sui social devi allinearti».

È una dittatura strisciante?

«C’è il rischio. Dopo l’avvento delle tv private nacquero organismi di controllo come l’Autorità per le telecomunicazioni, la legge sulla par condicio, l’Osservatorio di Pavia. Perché non si fa la stessa cosa con il Web?».

I social media non sono democratici?

«I vari Mark Zuckerberg e Jack Dorsey hanno un controllo totale. L’Unione europea, che regola anche le misure degli ascensori e degli spazzolini da denti, su queste situazioni latita. Quando ho commentato i fatti di Capitol Hill e sono stato oscurato da Facebook, sanzionato da un’authority della Silicon Valley, non ho avuto notizie della nostra amata Europa».

La Rete è uno strumento di omologazione?

«Non solo. La dittatura digitale si espande. Ora ci sono i corsi di laurea di sei mesi di Google. Se le aziende cominceranno ad assumere i laureati di Google le università pubbliche e private diventeranno obsolete».

Come giudica il fatto che in Italia la sinistra continua a governare senza vincere le elezioni?

«Antonio Gramsci si rivolterebbe nella tomba sentendo questo uso del termine sinistra. I suoi rappresentanti sono più legati ai poteri di Bruxelles e Francoforte di quanto lo siano quelli del centrodestra».

D’Alema ha detto che serve un nuovo partito di sinistra.

«Ha detto anche che dev’essere un partito che raccolga le idee del Pci. Pensi la beffa: è stato tra coloro che l’hanno sciolto».

Il Partito comunista si è trasformato in un grande partito radicale che al posto dei proletari difende i gay, i migranti e le femministe?

«È una mutazione genetica iniziata negli anni Settanta. Invece di aggiungere ai diritti sociali i diritti civili, ha sostituito i primi con i secondi. Diciamo che Marco Pannella ha vinto perché quel Pci, che lo odiava, attraverso i passaggi in Pds, Ds e Pd, si è trasformato in un partito di cultura radical chic. Basta guardare le mappe geografiche del voto».

O le intestazioni genitore 1 e genitore 2 sui documenti anagrafici.

«Hanno sostituito le battaglie sostanziali dei lavoratori con quelle superficiali del pensiero unico. Se poi aggiungiamo anche l’utero in affitto siamo al peggio del peggio».

Della legge Zan contro l’omotransfobia cosa pensa?

«Credo che gli atti violenti e di discriminazione debbano essere tutti puniti. Però fare una legge per specificare reati contro minoranze particolari non significa voler colpire i trasgressori, ma fare propaganda».

Pc è diventata la sigla di politicamente corretto?

«Visto che sono il segretario del Pc al massimo può voler dire più case, più conoscenza, più cultura».

Si definirebbe un nostalgico, un romantico, un utopista, una persona orgogliosa o solo fuori del tempo?

«Mi definisco un uomo con una passione politica con i piedi piantati per terra e la schiena dritta».

Come giudica l’azione di Matteo Renzi?

«Come tutti quelli che vivono nel Palazzo, parla del paese ma pensa a sé stesso. È sicuramente il più capace nel turpiloquio della politica».

Ha perso clamorosamente?

«Direi di sì. Essendo politicamente morto, se fosse riuscito ad ammazzare Conte sarebbe rinato, perché chi ne avesse preso il posto avrebbe dovuto essergli riconoscente. E così si sarebbe seduto al tavolo delle nuove decisioni».

Che vittoria è quella di Conte?

«Esclusivamente individuale. In quale posto al mondo uno così diventa presidente del consiglio e ci rimane?».

Come giudica il comportamento del Pd?

«Il Pd è il progetto politico più conseguente ai poteri economici e finanziari che governano l’Europa. Terminato il suo mandato, Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia dei governi Renzi e Gentiloni, è entrato nel Cda di Unicredit, la più grande banca italiana, con la prospettiva di diventarne presidente. Sono le porte girevoli del potere».

Era il governo delle quattro sinistre, ora sono rimaste in tre.

«Come i briganti della canzone di Domenico Modugno».

Come possono essere alleati il partito dell’establishment e quello della decrescita?

«Uno guida la nave, l’altro tradisce il 35% di consensi che conquistò alle elezioni del 2018. Non si è mai vista questa capacità di dire una cosa e di fare l’esatto contrario. Passano da destra a sinistra spostandosi a 360 gradi. Ora svoltano al centro».

Come vede una coalizione che va da Roberto Speranza a lady Mastella?

«Da Liliana Segre a Renata Polverini, Franza o Spagna purché se magna».

Condivide la politica dei sussidi e dei ristori per lenire i morsi della pandemia?

«È una politica priva di visione. Anziché costruire lavoro si costruisce assistenzialismo. Il reddito di cittadinanza dev’essere una soluzione d’emergenza temporanea. Su questo avrei una proposta…».

Prego.

«Prendiamo la fragile conformazione del nostro territorio, spesso preda di dissesti idrogeologici per cui semplici acquazzoni si trasformano in alluvioni epocali. Lo Stato potrebbe promuovere un grande piano di manutenzione del territorio, destinando chi percepisce il reddito di cittadinanza a riforestare le montagne, pulire i fiumi, risistemare le zone terremotate con la tecnologia e le competenze necessarie. Facendo lavorare geometri, ingegneri, giovani, immigrati. È l’idea contraria allo stare a casa passivi, prendendo una miseria e perdendo autostima. È un piano di ricostruzione che potrebbe impiegare un milione di persone e permetterebbe di risparmiare i costi che sosteniamo per riparare le calamità che periodicamente colpiscono l’Italia».

 

La Verità, 24 gennaio 2021

Chernobyl stana la falsità dell’ideologia sovietica

«Qual è il prezzo delle menzogne?». Il primo episodio di Chernobyl è racchiuso tra la domanda pronunciata dalla voce fuori campo di Valerij Legasov e la morte di un uccellino che precipita a terra, avvelenato dalle radiazioni. Lo scienziato mandato dal Cremlino per fare luce sull’incidente alla centrale nucleare del 26 aprile 1986 a 120 chilometri da Kiev non regge più il peso delle colpe e dell’omertà. Sono trascorsi due anni dal più grande disastro nucleare della storia e, dopo aver registrato le sue memorie su sei audiocassette, Legasov (Jared Harris) s’impicca. Tra le due morti che aprono e chiudono la prima puntata si dispiega tutta la drammaticità di Chernobyl, la miniserie in 5 episodi prodotta da Sky e Hbo, ideata e sceneggiata da Craig Mazin e diretta da Johan Renck (Sky Atlantic, lunedì, ore 21.15). Nella quale il vero protagonista è proprio la menzogna, ovvero il tentativo d’insabbiamento dell’accaduto operato dagli uomini della nomenklatura sovietica.

La temperatura del reattore numero 4 si è alzata fino a provocare l’esplosione del nocciolo, ma i responsabili della centrale non lo vogliono ammettere. La reputazione dell’Urss va tutelata prima e sopra ogni cosa. L’incidente è solo una disattenzione del personale di turno e sarà rapidamente ridimensionato. Chi sosterrà il contrario sarà ridotto al silenzio. Non serve evacuare la città né adottare procedure di particolare emergenza, l’immagine del socialismo è prioritaria, sottolinea il burocrate anziano citando l’effigie di Lenin appesa alla parete. Invece, tra i corridoi di lamiera, i sotterranei invasi dalle acque infette, le fiamme radioattive si consuma la catastrofe. Il volto intriso di timori e fragilità della moglie del pompiere richiamato in servizio trasmette tutto il senso d’impotenza e d’ineluttabilità della tragedia incombente. E mentre i vicini di casa provano a esorcizzarla, alcune particelle della nube tossica svolazzano minacciose nell’aria blu della notte.

Contestata dai media ufficiali russi, a metà tra linguaggio documentaristico e racconto di finzione, Chernobyl ha ottenuto il più elevato indice di gradimento per una serie tv sull’autorevole sito Imdb e si candida a essere uno dei migliori show dell’anno. Nelle facce spaventate delle maestranze, costrette dai superiori a mansioni a rischio di contaminazione e inadeguate all’apocalisse in atto, si evidenzia in modo lampante la contraddizione fatale tra ideologia e tragica realtà.

La Verità, 13 giugno 2019