Tag Archivio per: utero

«Il neofemminismo? Arma per imporre il gender»

Idee chiare e concetti scolpiti senza troppi se e ma. Per capirci, la bio nel risvolto di copertina di Presidenta Anche no! – Resistere al fascino del neo femminismo (Il Timone), il suo primo libro, recita: «È sposata, felicemente e indissolubilmente». Raffaella Frullone, classe 1981, bergamasca con sangue campano, lavora per Tv2000 e InBlu2000 e collabora con il mensile Il Timone.

Si sta preparando a festeggiare l’8 marzo?

«Certo, quest’anno ho pure scritto un libro sul tema. È il mio contributo alla causa. Anzi, il mio contro contributo».

Contro contributo?
«Vorrei gettare un sasso oltre il pensiero unico che avvolge l’8 marzo».

Niente mimose?

«Sono una donna all’antica e se qualcuno mi regala dei fiori li accetto volentieri. Ma non parteciperò al rito collettivo di associazioni come Non una di meno che, come sempre, proclameranno lo sciopero produttivo e riproduttivo. In più, quest’anno ci sarà un nuovo bersaglio».

Quale?

«Il patriarcato. Tutto nasce da ciò che è accaduto dopo l’omicidio della povera Giulia Cecchettin. È stato un crescendo di manifestazioni. Il patriarcato è il principale male del mondo, più ancora di Vladimir Putin e del riscaldamento globale».

Non c’entrava?

«Secondo me Filippo Turetta, l’ex fidanzato, è l’esatto contrario di ciò che s’intende per virilità, forza e coraggio. È un esempio di uomo devirilizzato, tanto da lasciarsi andare alle sue passioni, senza dominarle».

Non parteciperà alle manifestazioni dell’8 marzo, ma almeno ammetterà che esiste una disparità retributiva fra i sessi?

«A dire il vero, non mi pare ci siano contratti che declinino gli stipendi in base al sesso. Mi baso su dati oggettivi. Gli uomini scelgono maggiormente percorsi cosiddetti Stem, ovvero legati alle discipline scientifiche, matematiche e ingegneristiche, le più pagate, e meno scelte dalle donne. Un altro dato oggettivo è che se una donna ha più figli lavora di più in casa, mentre un uomo con più figli lavora di più fuori per mantenere la famiglia. Non vedo disparità di genere nei trattamenti economici».

Perché la parità passa dal linguaggio?

«Perché modificando il linguaggio si cerca di modificare la realtà. Non si dice più “aborto”, ma “interruzione della gravidanza”, non si dice “utero in affitto”, ma “gestazione per altri”».

Facciamo un passo indietro: perché oggi si parla di parità di genere e non di sesso?

«Perché si vuole distinguere il sesso biologico con cui nasciamo, dall’identità di genere, cioè la percezione che ciascuno ha di sé e che dipende da fattori culturali. Ma se si introduce questa distinzione poi si è costretti a chiedersi quanti sono i generi».

Quand’è stata la prima volta che si è imbattuta nella parola gender?

«Era il Duemila, frequentavo il primo anno di Lingue a Bergamo e scoprii che il corso di letteratura inglese era tutto sul gender. Non avevo mai sentito questo termine prima di allora, ma di colpo presero a spiegarci che la nostra identità era un prodotto della cultura e che bisognava superare il maschile e il femminile. Dopo qualche anno il gender era ovunque».

C’è un momento di svolta preciso in cui è diventato prioritario anche a livello internazionale?

«Dopo la caduta del Muro di Berlino, le conferenze dell’Onu del Cairo e di Pechino lo misero al centro dell’agenda mondiale. E il gender equality divenne un concetto cardine».

Cosa si prefiggevano quelle conferenze?

«Una serie di rivoluzioni, politiche, socioeconomiche, demografiche, ambientali ed educative per creare un nuova etica mondiale».

Perché a un certo punto è iniziata la battaglia per la desinenza in «a»?

«Spesso chi utilizza “ministra”, “assessora” o “sindaca” lo fa in buona fede, pensando di non discriminare e di dire una cosa corretta. Per lo stesso motivo si toglie l’articolo davanti al cognome femminile. Ma questo è solo un tassello del mosaico».

In che senso?

«In Italia le prime battaglie per la desinenza sono iniziate negli anni Ottanta sulla scorta del testo Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini. Attraverso le modifiche della lingua si portavano avanti le battaglie femministe per l’aborto e il divorzio».

Poi la desinenza femminile non bastava più perché rispondeva a una logica binaria dei sessi?

«Era riduttiva e bisognava superare il binarismo. Con la percezione, i generi hanno iniziato a essere parecchi».

Almeno 58 secondo Facebook, così è arrivato l’asterisco.

«A forza d’inventare generi, per chi non s’identificava in quelli definiti, hanno messo il +. A quel punto è diventato necessario l’asterisco. Per identificarsi in qualcosa che, a sua volta, non è identificabile».

E soprattutto impronunciabile.

«Così è arrivata la scwha».

Anch’essa foneticamente complicata.

«Un suono nel mezzo di tutte le vocali, scritta come una “e” rovesciata».

Un altro salto di qualità è quando il Cambridge Dictionary decide di allargare il significato di woman?

«Nel 2022 ha integrato la definizione di donna con le persone transgender. Prima era “essere umano adulto di sesso femminile”, poi si è aggiunto “adulto che vive e si identifica come femmina anche se può aver avuto un altro sesso alla nascita”. La Bibbia della lingua inglese tentava d’imporsi sulla scienza e l’evidenza, cambiando ciò che la natura crea. Ma a questo punto si apre una serie di scenari».

Tipo?

«Tipo un uomo che, con bombardamenti ormonali e interventi chirurgici appare donna, vince il concorso di Miss Olanda. O, ancora più grave, atleti maschi, cosiddetti trans, che gareggiano nelle gare femminili».

Ora, però, nei Paesi anglosassoni c’è una frenata alla deriva transgender per gli adolescenti: in Italia?

«In diverse strutture sanitarie si somministrano i bloccanti della pubertà, illudendo ragazzi e ragazze di poter cambiare sesso. E illudendoli che assumendo questi farmaci smetteranno di soffrire a causa della propria identità sessuata. È curioso che quando si tratta d’importare novità dall’America e dall’Inghilterra siamo sempre pronti. Ma ora che ci sono ragazzi che denunciano i danni subiti con questi trattamenti, come mutilazioni e capacità riproduttiva compromessa, procediamo imperterriti».

La causa di queste situazioni?

«Non si vuole guardare alla vera natura del dolore di questi ragazzi che è psicologica ed esistenziale».

È un fenomeno certificato?

«Ci sono pochi studi sia all’estero che in Italia».

Il fenomeno della «carriera alias» nelle scuole è documentato?

«Anche qui è difficile avere dei numeri. Centinaia di istituti utilizzano la “carriera alias” che consente a un ragazzo minorenne di essere chiamato con il cosiddetto nome d’elezione secondo il genere da lui prescelto. È curioso che se arriva in ritardo a scuola, quello stesso minore deve presentare la giustificazione della mamma. Questa concessione, oltre a essere un abuso amministrativo è un messaggio pericoloso perché si dice a un ragazzo che soffre per la sua sessualità che il suo corpo e il suo nome sono sbagliati. Ma nessuno nasce in un corpo sbagliato».

Tornando alle donne, lei scrive che il modello vincente di questi decenni è quello promosso da Cosmopolitan. Chi è la «Cosmo girl»?

«Cosmopolitan è un colosso editoriale tradotto in 35 lingue e rivoluzionato da Helen Gurley Brown, il suo storico direttore, che negli anni Ottanta depurò la rivista dai temi famigliari e legati al matrimonio, introducendo le linee guida della donna moderna. Per affermarle non si doveva esitare a inventare esperti e storie inesistenti. La nuova donna doveva essere indipendente, emancipata, sessualmente disinibita e svincolata da qualsiasi legame. In pratica, una single perfettamente rispondente all’oggetto delle fantasie maschili».

Il modello Cosmopolitan, di Sex and the city, Vanity Fair e decine di serie tv, ha creato il neofemminismo: in cosa differisce dal femminismo storico?

«Il filo rosso che collega le due stagioni sono le istanze legate ai diritti riproduttivi, aborto, fecondazione assistita, utero in affitto. La vera differenza è che prima si lottava per l’aborto e il divorzio perché non c’erano. Oggi c’è un’ipersensibilità attorno a queste presunte conquiste sebbene nessuno le discuta».

Non hanno ragione le neofemministe a temere che venga ridiscussa la legge 194?

«Mi piacerebbe che ce l’avessero, ma non c’è nessuno che intende metterla in discussione, purtroppo. Per conto mio andrebbe abolita».

Allora, se nessuno vuole ridiscuterla, perché lo temono?

«Perché l’aborto è un dogma intoccabile. Se solo si prova a dire qualcosa che non sia di totale appoggio si scatena il putiferio. Come accadde quando, nel giugno del 2022, la Corte suprema americana decise di affidare ai singoli Stati l’applicazione della legge sull’aborto. I titoli dei nostri giornali adottarono toni apocalittici».

Cosa pensa dell’uomo rappresentato nella comunicazione pubblicitaria?

«Mentre negli spot imperversa il mammo, nei media in generale l’uomo è sommerso di accuse di sessismo e mascolinità tossica, causa di tutti i mali. Proviamo a immaginare cosa accadrebbe se qualcuno parlasse di femminilità tossica. L’uomo che sparecchia la tavola esiste da un pezzo, perciò queste rappresentazioni arrivano a saldi finiti. Non viviamo più in famiglie in cui il padre rientra la sera e si siede a tavola, disinteressandosi completamente di ciò che è successo in casa».

Cosa pensa del caso Chiara Ferragni?

«Carrie Gress, una filosofa americana, dice che il femminismo è “un brand ideologico di grande successo”. Chiara Ferragni si è messa a servizio della causa neo femminista come si è visto un anno fa sul palco di Sanremo: diritti riproduttivi, donna che si autodetermina, “pensati libera”. Parliamo di un’imprenditrice con decine di milioni di seguaci e un fatturato da capogiro. Non mi pare fosse oppressa. Oggi attraversa un momento di crisi nella vita privata e famigliare che, per altro, sono sempre state sotto i riflettori secondo una rigorosa logica di marketing. Chissà se ora che qualche nodo è venuto al pettine starà riflettendo sull’efficacia di quel modello».

Che spazio vede per una diversa femminilità nei media?

«Dobbiamo constatare una discrepanza tra la realtà e la sua rappresentazione. Non credo che una femminilità più pacata sia minoritaria, anzi. Moltissime donne credono nella famiglia, si sacrificano per i propri cari, dipendono da un uomo senza troppe frustrazioni. Piuttosto, questo tipo di donna non buca e non viene rappresentata perché i media sono in gran parte in mano a un ceto professionale che sposa la formula Cosmopolitan».

 

 La Verità, 2 marzo 2024

 

«Famiglia naturale? Bella come una tribù che balla»

Tra virgolette. Lo ripete spesso, Antonella Elia, e vuol dire: le cose sono così, quasi. È innamoratissima di Pietro Delle Piane, ma per sposarsi è presto. Il rapporto con Mike Bongiorno era alla pari, più o meno. Le piacerebbe condurre un programma, ma dovrebbe essere speciale. Solo quando parla di sé e delle sue sofferenze, non poche, le virgolette spariscono. Sarebbe sbagliato vederla come una donna di contorno, una presenza decorativa. Trasmette fragilità, ma non le manca lo spirito della lotta. A BellaMa’ di Pierluigi Diaco ha fatto l’opinionista. A Citofonare Rai 2, condotto da Simona Ventura e Paola Perego, è inviata sul fronte dell’amore. Di recente, ospite di Oggi è un altro giorno su Rai 1, ha detto che «la famiglia tradizionale è bellissima».

È vero che quest’anno si sposa?

«Ehm… non credo, perché purtroppo ho paura. Per me il matrimonio è un vincolo sacro. Lo so che va di moda che se non funziona si divorzia. Ma, onestamente, io mi sposerei in chiesa e non posso considerare questa ipotesi. Se lo faccio dev’essere per tutta la vita».

Non è una bella prospettiva?

«Bellissima. Ma se considera la mia età e il fatto che ho vissuto tanto da sola nella savana…».

Bella metafora.

«Pietro potrebbe essere il compagno della vita, ma dovrei esserne certa. Quattro anni di fidanzamento forse non sono sufficienti per fare una scelta definitiva come il matrimonio».

I rodaggi lunghi servono ai ragazzi, quattro anni non bastano?

«Le statistiche dicono che più si diventa grandi più è difficile far durare le relazioni perché si è legati alle proprie abitudini. La convivenza è una scappatoia, consente una via d’uscita se qualcosa non funziona».

Scelta di comodo?

«Ha ragione, sono egoista e cagasotto».

E quindi niente vestito da sposa e confetti?

(Pausa) «È nell’aria, ma entro il 2023 rispondo maybe. Diciamo che non ho ancora organizzato nulla».

Non se la sente di rischiare?

«I rischi affettivi non mi sono congeniali, avendo avuto una serie di vicende… Però questo legame così saldo me lo tengo stretto. Anche mio papà e mia mamma ci hanno messo otto anni prima di sposarsi. Pensi il caso: si sposano, nasco io e dopo un anno e mezzo lei muore».

Poi è rimasta senza papà a 15 anni.

«Morì in un incidente stradale. L’idea di famiglia è sempre stata qualcosa di precario per me. Mio padre si è risposato con Paola quando avevo 9 anni. E poi anche la loro relazione è finita tragicamente».

Chi si è preso cura di lei?

«Paola, fino a quando ho avuto 18 anni e sono andata a vivere con un ragazzo».

Precoce.

«Dopo tre anni ho lasciato anche lui».

Com’è arrivata in televisione?

«Dopo aver studiato recitazione tre anni in una scuola privata di Torino, sono entrata al Teatro della Tosse di Genova. Ho fatto le prime tournée con Aldo Trionfo, recitando in Peccato che sia una sgualdrina di John Ford, e Tonino Conte. Poi ho partecipato ai provini della Corrida di Corrado».

E lui la chiamò.

«Lo facevo ridere perché ero goffa, mentre le altre erano belle e perfette».

La scelse perché con lei poteva giocare?

«Pensi che ero seduta a fianco di Michela Rocco di Torrepadula. Me ne stavo lì, ingobbita, perché mi sentivo fuori posto, come sempre del resto. E Corrado mi chiese proprio perché me ne stavo incurvata. “Perché mi vergogno”, dissi. Si mise a ridere e mi prese».

Qual era il suo tratto distintivo?

«La straordinaria umanità e la tenerezza verso le persone che lo circondavano, a partire da me fino all’ultimo tecnico dello studio».

Poi arrivò Raimondo Vianello.

«Mi aveva visto con Corrado e mi portò a Pressing».

Duetti favolosi.

«Sfruttava la mia goffaggine e la mia comicità involontaria».

Un flash su Raimondo?

«Era il re dell’autoironia. Trasformava ogni situazione in una presa in giro. Quando, la domenica, ci si trovava a vedere le partite e io mi annoiavo a morte, mi diceva: “Si faccia le unghie, Antonella”. Poi in trasmissione si appoggiava sulla mia ignoranza per inventare le gag».

Mike Bongiorno?

«Dopo 3 anni di Pressing, feci La ruota della fortuna, poi Viva Mozart… Fu il mio ultimo anno di tv prima di tornare a teatro, altro errore…».

Ne aveva soggezione?

«Mica tanto. Era un rapporto più alla pari, tra virgolette. A Corrado e Raimondo davo del lei. Mike era affettuoso, protettivo e accudente. Anche se a volte s’incavolava, ma questo è risaputo».

Quasi amici?

«Sì, anche amici. Quando andammo a Vienna per Viva Mozart, mi portò a visitare i mercatini, ad assaggiare la Sacher torte in una pasticceria bellissima…».

Si trovava bene vicino a figure autorevoli perché cercava il padre perso presto?

«Mi era di conforto che mi mostrassero affetto e apprezzamento. Non ho abbastanza autostima, da sola non mi sento mai ok».

Quando ha partecipato all’Isola dei famosi è parsa tutt’altro che insicura.

«Perché ho un caratterino mica da ridere. Quando combatto, combatto all’estremo. E i reality sono terreno di combattimento».

Letteralmente, cone nella rissa nel fango con Aida Yespica rimasta nella storia della tv.

«Era nella sabbia, altrimenti sarebbe stato wrestling. Ho carattere e volontà, sennò mica sarei arrivata dove sono. L’Isola è come la vita di strada, tutti contro tutti. Sono stata abituata a lottare fin da piccola per le perdite e gli abbandoni… Quindi, tra virgolette, vengo dalla strada, l’ho vista subito brutta. Il reality è vita non arte, non c’entra il talento, non ci sono copioni, porti te stessa con le tue bassezze e grandezze. Oddio, grandezze se ne vedono poche».

Parlando di strada, cosa pensa degli studenti che protestano in tenda contro il caro affitti?

«Che da Seregno a Milano si può ben fare la pendolare. E che la realizzazione di sé stessi non è un fatto di privilegi, ma di fatica, sudore e sacrificio. Poi, riguardo al caro affitti, per carità, è giusto intervenire, non si può pesare solo sui genitori, non si può sfruttare così la gente. Ma prendere il treno non è la fine del mondo».

Lei ne ha presi molti?

«Quando ero modella facevo la spola Torino Milano. A 24 o 25 anni, quando speravo di diventare attrice, prendevo la cuccetta da Torino a Roma. Viaggiavo tutta la notte, mi truccavo nel bagno del treno, scendevo a Termini e pigliavo i mezzi per andare al provino davanti a registi importanti. Finito, me ne tornavo a Torino. Durante le prime tournée ho dormito su brandine sfondate. Il treno e la vita da pendolare è una materia su cui sono preparata».

I provini come andavano?

(Sospiro) «Insomma… Mario Monicelli mi fece andare quattro volte per la parte di Il male oscuro, una produzione italo francese, che poi andò a Emmanuel Seigner, moglie di Roman Polanski. Feci un provino anche per Massimo Troisi, ma non mi scelse. Invece, Salvatore Nocita mi prese per I promessi sposi della Rai».

Quest’anno ha fatto l’inviata per Simona Ventura e Paola Perego e l’opinionista di BellaMa’. È soddisfatta o vorrebbe un programma suo?

«Mi diverto sia come inviata che racconta storie d’amore sia con Diaco con il quale c’è empatia… Forse sarebbe il momento di una conduzione, ma dovrebbe trattarsi di un programma un po’ fuori dai canoni. Io funziono di più in coppia, da sola probabilmente non mi divertirei».

Parteciperebbe ancora a qualche reality, magari meno estremo dell’Isola?

«No no, a me piace L’Isola perché è proprio l’avventura. Una tentazione irresistibile».

Qualcosa che invece non rifarebbe?

«Il Grande Fratello. Troppo claustrofobico, la convivenza forzata con altri non fa per me. All’Isola vai a nuotare o a camminare e torni dopo due ore. Lì mi chiudevo nella sauna e sudavo sette camicie».

Amici e amiche nel mondo dello spettacolo?

«Non ho molte frequentazioni… Sento spesso Adriana Volpe e Laura Freddi, ma non ci vediamo molto per i troppi impegni. Diaco lo considero un amico. Simona e Paola cercano di aumentare la mia autostima. Per le prime 15 puntate di Citofonare Rai 2, Paola mi mandava dei vocali d’incoraggiamento. Anche Simona è molto affettuosa».

Qual è la dote che apprezza di più nel suo compagno?

«L’energia. E poi è profondamente buono, innocente. Pietro è innocente».

Qualche giorno fa Laura Chiatti è stata sommersa di critiche perché ha detto che l’uomo che lava i piatti le fa calare la libido. Capita anche a lei?

(Ride) «Pietro lo trovo sexy quando carica la lavastoviglie. Quando cucina per me è come se distribuisse amore. Lo fa perché non vuole che lo faccia io e questo è bellissimo».

Le ho sentito dire che «la famiglia tradizionale è bellissima»: che cosa le piace?

«Mi piace il nucleo. È come una tribù che balla. La famiglia di Pietro è enorme, fatta di legami profondi di amore tra fratelli, zii, cugini. Le mie zie, quando è morto mio padre, sono sparite nel nulla, non mi hanno più filato. Non ho mai veramente vissuto in una famiglia. Sono rimasta sola come un cane randagio, perché nessuno dei parenti, che sicuramente ho, mi ha più cercato».

C’è qualcosa nella vita che non rifarebbe?

«L’ho detto anche da Serena Bortone: mi sono pentita di aver abortito».

Perché?

«Avevo un essere vivente, in embrione, dentro di me. Era una vita a cui non ho dato modo di esistere. Una vita che era parte di me, un essere a cui avrei fatto da madre».

In quell’occasione ha parlato di peccato: è credente?

«Sì, ma la mia amarezza non deriva dal fatto che credo in Dio. O forse sì… Ho capito di aver commesso un peccato contro un altro essere vivente. So che Dio mi perdona, sono io che non mi perdono».

Non l’aiuta insistere sull’irreparabilità dell’azione, il Padreterno perdona.

«Certo. Ma se ti tagli una mano non ricresce. Forse potrei espiare, compiendo azioni meritevoli per recuperare il rispetto di me stessa che, per quello specifico atto, non ho. Se quando morirò Dio mi dirà che mi ha perdonato sarò felice. Ne ho parlato con un prete e mi sono vergognata. Se non l’avessi fatto oggi ci sarebbe un ragazzo di 26 anni, chissà perché penso che sarebbe stato un maschio…».

Che cosa pensa della maternità surrogata?

«Dell’utero in affitto? Non lo so, è una questione delicatissima. Ho amici omosessuali che sono padri meravigliosi e crescono bambini sereni. I figli sono nati da una donna in California, non una donna povera. Lo so, in questi casi si parla di compravendita, ma io non mi sento né di accusare né di giudicare».

Con tutto quello che ha vissuto, come fa a essere sempre sorridente?

«Provo a trasmettere gioia, a mettere in evidenza la felicità che ho dentro di me, assieme al dolore. Che però non mi piace raccontare perché mi fa sentire patetica. A volte capita che riveli anche le mie tristezze, ma solo in qualche intervista».

 

La Verità, 20 maggio 2023

«L’utero in affitto, orrore che mortifica le donne»

Femminista e cattolica. Da quando Eugenia Roccella è ministro per le Pari opportunità, la natalità e la famiglia del governo Meloni i media ce la disegnano dogmatica e sempre in trincea. In realtà, è figura complessa e sfaccettata. Giornalista, figlia di Franco, già capo dell’Ugi (Unione goliardica italiana) e fondatore del Partito radicale all’interno del quale animò accesi dibattiti con Marco Pannella, anche lei militò in quel partito prima di avvicinarsi alla fede cristiana. Un saggio della sua eleganza si è avuto qualche domenica fa su Rai 3 in quel «vedo che si coinvolge» lasciato cadere davanti all’incontinente Lucia Annunziata: «E fatele queste leggi, cazzo!». Se si vuole provare il piacere di leggere Una famiglia radicale (Rubbettino), oltre a una biografia particolarissima si scoprirà uno spaccato dell’ultimo cinquantennio italiano.

Questo libro è nato prima che si profilasse l’idea di diventare ministro?

«Sì. Pensavo ormai di aver abbandonato la politica e durante il lockdown avevo iniziato a scrivere. Se avessi saputo che sarei tornata con un impegno così importante non credo che l’avrei pubblicato. È un libro molto privato».

Fonte di problemi?

«No, semplicemente comporta un altro tipo di esposizione. Avevo deciso di scriverlo per due motivi. Il primo è che mi veniva spesso chiesto come, da radicale, si possa diventare cristiana. Il secondo motivo è non disperdere la storia soprattutto di mio padre, ma anche di mia madre, nelle vicende del nostro Paese. Lui non ha lasciato quasi niente di scritto, eppure un gran numero di testimoni e di storici come Gaetano Quagliariello e Giovanni Orsina gli riconosce ampio credito intellettuale nella stagione dell’Ugi e del Pr».

Lei ha avuto un’infanzia e un’adolescenza singolari, con un padrino di battesimo e una madrina di comunione leader radicali.

«Non credo che Sergio Stanzani, futuro segretario del Pr, e Liliana Pannella, sorella di Marco, siano entrati altre volte in chiesa dopo averlo fatto per me. La mia è stata un’adolescenza trasgressiva opposta alle normali trasgressioni. Io lo ero se andavo in chiesa, al punto che lo facevo di nascosto dai miei. Il battesimo fu un’imposizione su mio padre di mia zia che mi aveva educato fino allora. Lui, come contropartita, impose un padrino ferocemente anticlericale».

E la comunione?

«Fu una mia scelta. Avevo già incontrato proprio a scuola la fede, grazie a un sacerdote che mi aveva avvicinato ai vangeli di cui ero digiuna. Mi si era aperto un mondo. Come madrina di cresima mia madre m’invitò a scegliere un’amica cui ero affezionata e io indicai la sorella di Pannella. Vivevo una situazione ambivalente: immersa in un mondo laicista e antireligioso, ero sotterraneamente attratta dal cristianesimo. Quando gli chiesi il permesso di accedere alla comunione, da siciliano più che da laico e radicale, mio padre disse che per una donna non era male essere cattolica».

Quanto ha pesato nella sua vita la vicenda di sua sorella Simonetta, abbandonata nell’incubatrice e mai più ripresa dai suoi genitori?

«È una vicenda tragica, difficile da elaborare. Un fatto che ho ricostruito dolorosamente negli anni. E che comprende una riflessione che, partendo dalla mia famiglia, coinvolge il pensiero oggi dominante».

Qual è questo pensiero?

«L’idea che la vita non sia la costruzione della coscienza, ma la ricerca della realizzazione attraverso l’assolvimento dei propri desideri. Io auspicavo che questa ricerca di libertà venisse accompagnata dalla responsabilità personale. Invece, non fu e non è così. A causa di quella cultura, nessuno si incaricò della sopravvivenza di mia sorella. Ma non do colpe ai miei genitori».

Ci vuole molta misericordia.

«Anche il mio affidamento alla zia e l’anoressia successiva nacquero in quella cultura. Mio padre e mia madre erano persone generose, calde, affettivamente ricche. Ci adoravamo. Non porto rancore ai miei genitori. Sono grata perché lo sono stati, anche se nessuno dei due avrebbe voluto esserlo. Ma quell’individualismo può lasciare  intorno a sé morti e feriti. Nel caso di mia sorella, letteralmente».

Dall’appoggio alla clinica gestita da Adele Faccio e Giorgio Conciani alla sua posizione di oggi sull’aborto cos’è successo?

«Si è capovolto un mondo. Da ciò che erano all’epoca la condizione della donna, il diritto di famiglia e la discriminazione degli omosessuali c’è stato un rovesciamento totale. Ho seguito questo percorso rimettendo al centro i veri bisogni dell’uomo sui quali m’illuminò Pier Paolo Pasolini quando previde il tradimento degli intellettuali progressisti che avrebbero accolto i diritti civili in un contesto di “ideologia edonistica e falsa tolleranza” escludendo “ogni reale alterità”».

Come riemerse la fede che non aveva più coltivato?

«La fede c’era, chiusa in un cassetto dove l’avevo accantonata come elemento incongruo al contesto. Riemerse durante la malattia di mia madre. Standole vicino mi ritrovai a pregare».

Perché lasciò il Partito radicale?

«Quando mia madre si è ammalata mi stavo già allontanando dal Pr e da Pannella. Non mi riconoscevo nella svolta ideologica che avevano intrapreso».

Si può essere femminista e cattolica allo stesso tempo?

«Certamente. Il cristianesimo pone le basi culturali della pari dignità delle donne, nella differenza».

Quest’ultima sottolineatura serve a non identificare femminismo e livellamento dei sessi?

«Il femminismo è composto da molte correnti, io appartengo a quella della differenza, che in Italia è stata maggioritaria. Il corpo sessuato è il punto di partenza per valorizzare la differenza. C’è ingiustizia quando due persone uguali sono trattate in modo diverso, ma anche quando due persone diverse sono trattate in modo uguale».

Perché oggi la regolarizzazione dei figli di coppie omosessuali è al centro dell’agenda politica?

«Perché si cerca di occultare il problema dell’utero in affitto».

Perché è importante?

«Perché la maternità viene spezzettata e svilita. Esiste un mercato transnazionale della maternità e dei bambini per cui ci possono essere fino a tre madri».

Quali sono?

«La madre sociale, che alleverà il bambino, la madre genetica che dà gli ovociti, e infine quella che presta l’utero. Nella maternità surrogata si prende sempre l’ovocita da una donna e l’utero da un’altra».

Perché?

«Innanzitutto per evitare contenziosi. Se la madre gestazionale fosse anche la donatrice dell’ovocita, nel caso ci ripensasse e volesse tenersi il bambino, sebbene abbia firmato un contratto di cessione, per qualunque corte sarebbe difficile sostenere che non ne ha diritto. Separare le due funzioni serve a impedire controversie».

E l’unico motivo?

«Ce n’è un secondo. Per l’ovocita, che trasmette il Dna, la scelta del committente avviene in base alle caratteristiche genetiche che si desidera abbia il bambino, mentre la donna che porta avanti la gravidanza viene selezionata con altri criteri».

Una pratica razzista?

«Si sceglie sul catalogo il colore della pelle, degli occhi, dei capelli, la statura, il quoziente d’intelligenza. Lascio a lei dire se sia un comportamento razzista. In questi cataloghi le persone bianche hanno un costo superiore».

La battaglia condotta dai sindaci riguarda in prevalenza le coppie di donne per le quali non necessariamente si ricorre all’utero in affitto.

«I sindaci sono pubblici ufficiali e la nostra legge stabilisce due modi di filiazione, biologico o adottivo. Non ce n’è un altro».

Come ci si regola nei casi di due donne con un figlio del precedente matrimonio eterosessuale?

«Seguendo la legge italiana tutti i bambini avrebbero una mamma e un papà. Quando le coppie tornano da pratiche di fecondazione non consentite nel nostro Paese, la registrazione del genitore biologico è automatica. Da quel momento il bambino gode di tutti i diritti, come accade per le mamme single. Non vedo in piazza madri single, con un figlio non riconosciuto dal padre o vedove. Eppure, se si vuole il riconoscimento del nuovo compagno o compagna, anche loro devono seguire la procedura adottiva in casi speciali».

Il governo è accusato di fare scelte ideologiche.

«Il governo in carica non ha fatto nulla di nuovo. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha chiesto che venisse rispettata la legge in vigore. Che è sempre la stessa, e la sinistra ha avuto tutto il tempo per cambiarla, ma non l’ha fatto. La sentenza delle sezioni unite civili della Cassazione del 30 dicembre 2022 recita: “L’automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternità surrogata e degli atti di autorità straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non è funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi”».

Perché il Parlamento europeo ha approvato un emendamento che invita l’Italia a regolarizzare i figli di coppie omogenitoriali?

«È un pronunciamento solo politico perché il certificato europeo di filiazione dei figli fatti all’estero con la maternità surrogata è stato bocciato dal Parlamento italiano. Ma anche dal Senato francese, con l’esplicita motivazione che favorirebbe l’utero in affitto».

Perché vi ricorrono più di frequente le coppie eterosessuali?

«Le coppie etero possono mascherare il ricorso alla maternità surrogata. Ma è un mercato da estirpare sia che riguardi coppie omo che eterosessuali».

Cosa pensa del caso di Anna Obregon, l’attrice che è ricorsa all’utero in affitto nel quale è stato impiantato un ovocita fecondato dal seme del figlio morto?

«Non mi piace dare giudizi sui comportamenti personali. Vorrei dire però che casi del genere saranno sempre più frequenti e inevitabili, se si continua a considerare ogni desiderio individuale un diritto».

Con Elly Schlein segretaria del Pd si profila un lungo periodo di scontro?

«In passato al Parlamento europeo non ha votato un emendamento contro l’utero in affitto. Vedremo come si comporterà il Pd di fronte alla proposta di Carolina Varchi di Fdi che, pur senza aggravare le pene, chiede di perseguire la maternità surrogata anche se praticata all’estero».

A fronte dell’espandersi della cultura dei diritti il recupero di un’antropologia tradizionale è una battaglia di retroguardia?

«È una battaglia di avanguardia e di salvaguardia. Il rifiuto di queste pratiche e di questa cultura non deriva innanzitutto da un giudizio etico, ma dalla necessità di conservare l’esperienza umana con tutta la sua ricchezza e tutti i suoi limiti».

 

La Verità, 8 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

«Ddl Zan scritto male: i desideri non sono diritti»

Dirigente del Pd, valdostano, formato nelle comunità di base, militante dei diritti delle persone omosessuali, presidente dell’Arcigay dal 2007 al 2010 e ora di Equality Italia, Aurelio Mancuso è l’estensore dell’appello per la modifica del disegno di legge Zan sull’omotransfobia firmato da oltre 450 personalità dell’area del Partito democratico e di Italia viva, dalla regista Cristina Comencini all’ex presidente dell’Istituto Gramsci Beppe Vacca, dalla filosofa Francesca Izzo all’ex sindacalista Giorgio Benvenuto.

Perché il vostro appello è rivolto al presidente della commissione Giustizia del Senato, Andrea Ostellari?

«Chiediamo di essere auditi almeno al Senato, visto che alla Camera non è avvenuto».

Risposte?

«So che la nostra richiesta verrà presa in esame».

C’è un comitato promotore?

«Il soggetto propulsore è una chat su whatsapp di persone di centrosinistra nata sul tema della maternità surrogata. Il lavoro su questo tema è sfociato nell’appello per la modifica del ddl Zan».

Perché la definite «una legge pasticciata»?

«Perché era nata per estendere le aggravanti previste dalla legge Reale-Mancino alle persone gay, lesbiche e trans».

Invece?

«Invece dall’iter della Camera si è via via trasformata in una legge che interviene sul sesso, sulle persone disabili e l’identità di genere. Si è appesantita a causa delle spinte nel Pd e nei 5 stelle».

Il punto che più disapprovate è il ricorso all’identità di genere?

«I punti di dissenso sono due: il modo di intendere il sesso e l’uso dell’espressione “identità di genere”. Sul primo punto è incredibile che le donne siano trattate come una minoranza. Qualche giorno fa in una videoconferenza sul Corriere.it Alessandro Zan ha detto che la legge può combattere anche la misandria».

L’ha evocata per stabilire una sorta di par condicio delle discriminazioni?

«Ma così ha equiparato la misoginia, che è un crimine, con la misandria, che ha rarissimi riscontri nella realtà».

Per i sostenitori del ddl il sesso va messo in relazione ai diritti, cioè a un’ideologia?

«È una componente della condizione umana sottoposta all’autodeterminazione da mettere in relazione alla sfera dei diritti. Noi firmatari dell’appello siamo convinti che questa visione, di derivazione anglosassone, non possa trasformarsi in una legge dello Stato».

Veniamo al secondo punto, l’identità di genere.

«Fino a qualche anno fa questa espressione riguardava i transessuali, persone che intraprendevano dolorosi percorsi di transizione, normati anche dalla legislazione italiana. Oggi sulla spinta dei movimenti Lgbt si sta affermando il concetto di genere percepito».

Semplificando, in base a come mi sento in un determinato momento decido se entrare in un bagno o in uno spogliatoio maschile o femminile?

«Ognuno è libero di sentirsi come gli pare, ma l’autopercezione non può diventare legge. Un conto è cambiare le norme sulla transizione che sono del 1982, un altro è dare dignità legislativa alla fluidità a seconda di come ci si alza al mattino. Le faccio un esempio…».

Prego.

«In Messico, siccome la percentuale minima di candidature femminili alle elezioni non era stata rispettata, una lista di soli uomini si è autoproclamata composta di tutte donne. Ripeto: ognuno può percepirsi come vuole, ma lo Stato ha le sue regole».

Diversamente dovrebbe fare una legge per ognuno dei numerosi generi ipotizzati dai movimenti Lgbt.

«Tutti siamo liberi di sentirci secondo i nostri desideri, ma i desideri non sono automaticamente diritti».

Un altro elemento controverso riguarda il linguaggio che potrebbe favorire atti discriminatori.

«In Europa e in America si è deciso di estendere le aggravanti che riguardavano le persone discriminate dalle dittature nazifasciste e comuniste alle persone gay, lesbiche e trans. Questo è l’alveo culturale».

Perché in Italia non basta integrare la legge esistente con le aggressioni a sfondo sessuale?

«Le varie maggioranze di destra e di sinistra che si sono susseguite non hanno mai voluto o avuto la forza di approvare le estensioni alla legge Mancino. Io resto dell’idea che la legge contro l’omotransfobia serva. Il problema è che questa è scritta male».

Scritta male o maliziosamente? Non crede che la tutela delle minoranze nasconda una minaccia alla libera espressione?

«Anche qui c’è da correggere un errore madornale. Tutto ciò che si dice contro gli omosessuali viene tacciato di omofobia. Invece, se dico che sono contro il matrimonio gay o che i gay non dovrebbero poter adottare dei bambini non uso espressioni omofobe, ma omonegative. Invece dire “i gay devono essere tutti bruciati” è istigazione all’odio».

Parlare di padre e madre è discriminatorio verso i bambini di persone omogenitoriali?

«Capisco alcune preoccupazioni però penso che il buon senso e i limiti garantisti del ddl eviteranno degenerazioni giuridiche. Dire che la famiglia è composta da padre e madre appartiene all’espressione del libero pensiero».

Non è troppo ottimista considerando che in tanti documenti al posto della desinenza che indica il sesso si inizia a usare l’asterisco?

«Io non lo uso e sono convinto che chi intenterà cause su questi temi le perderà. Insisto: se la legge l’avessi scritta io avrei puntato sulla prevenzione più che sulle sanzioni. Ricordiamoci che le vere vittime dell’omotransfobia sono le persone trans, uccise per strada perché obbligate a prostituirsi».

Lei parla di prevenzione, ma all’articolo 7 il ddl prevede l’istituzione della Giornata contro l’omotransfobia: lo scopo è l’indottrinamento gender dei bambini nelle scuole?

«La Giornata internazionale contro l’omofobia c’è già dal 2004. Quello che mi preoccupa degli articoli 7 e 8 è che nelle scuole si vada a propagandare la maternità surrogata e il self-identity. Siccome sappiamo che nel movimento Lgbt ci sono associazioni che propugnano la maternità surrogata, nell’appello chiediamo che questa propaganda sia vietata. Come, per esempio, ha fatto la regione Emilia Romagna governata dal centrosinistra, che in un comma ha precisato di non concedere contributi alle associazioni che promuovono la gestazione per altri».

Qualche giorno fa Marilena Grassadonia, esponente di Sinistra italiana e presidente delle Famiglie arcobaleno, ha detto che la legge Zan è solo il primo passo e che i successivi sono l’autocertificazione di genere e l’utero in affitto.

«Rispondo con una provocazione: se Arcigay e le altre associazioni Lgbt approvassero questo programma io riproporrei il matrimonio egualitario e la riforma della legge sulle adozioni. Purtroppo oggi, a causa della polarizzazione che spacca il fronte politico, è impossibile costruire percorsi riformisti. Anziché parlare dei diritti dei bambini, i veri soggetti deboli, si parla della gestazione per altri perché si privilegiano i desideri degli adulti».

Non si fa prima a rimettere al centro la famiglia?

«Con attenzione. La famiglia è anche una grande questione sociale. Io mi sono battuto per aiutare quelle numerose proponendo di aumentare gli assegni. Perché il centrodestra quando ha governato non ha approvato il quoziente famigliare? Oggi si fanno pochi bambini non per motivi ideologici, ma per motivi economici».

Con la Giornata contro l’omotransfobia arriveremo all’indottrinamento gender dei paesi anglosassoni?

«Sono stato in centinaia di scuole e ho constatato che pongono giustamente dei paletti. Nel nostro appello c’è scritto che bisogna promuovere l’educazione sessuale e alla salute all’interno di un lavoro curriculare sistematico. Non si deve fare propaganda. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti ci si sta accorgendo dei danni causati dall’uso dei bloccanti della pubertà e si comincia a fare marcia indietro».

Perché ha sottoscritto un appello all’Onu contro l’utero in affitto?

«Perché ritengo che comprare, vendere, o anche donare un bambino, come ipocritamente qualcuno dice, leda il diritto proprio del bambino. Se viene abbandonato lo aiutiamo. Ma decidere per contratto che vada a una coppia, etero o omo non m’importa, è una violazione del suo diritto a conoscere la madre che l’ha tenuto in grembo nove mesi. Il secondo aspetto criminale è che ci sono donne obbligate dai mariti e dalla condizione sociale, per esempio nell’Est europeo e nel Sud del mondo, usate come contenitore per fabbricare i figli dei ricchi».

La nostra società decide che si può sopprimere un embrione nel grembo materno e allo stesso tempo che lo si può impiantare a pagamento.

«Io difendo la legge 194, se mai andrebbe pienamente applicata. Ma il discorso ci porterebbe lontano. Sebbene creda che il desiderio di essere genitore vada rispettato, non è un diritto riconosciuto. Altrimenti le costituzioni lo prevederebbero. Se c’è questo desiderio diffuso di genitorialità, perché nel nostro Paese, dove ci sono bambini ancora negli istituti, non si mette mano alla legge sulle adozioni?».

Come spiega il fatto che Enrico Letta ha fatto del ddl Zan una delle battaglie prioritarie del Pd?

«Capisco che Letta sia arrivato quando il treno della legge era già partito, ma quando uno diventa segretario del più grande partito del centrosinistra avrebbe il dovere di ascoltare chi da più di un anno studia e lavora su questi temi».

Nel Pd non c’è confronto sull’argomento?

«Non c’è stato un vero dibattito, decidono gli eletti senza un’adeguata discussione. Per altro in un partito che è nato da culture diverse. È molto difficile riconoscersi su questi temi nel Pd».

Sono credbili coloro che dicono di approvare il ddl per poi migliorarlo? Questa legge comporta un salto di paradigma?

«Se la legge sarà approvata così vedremo come si comporterà il Pd negli step successivi. Quando, cioè, si comincerà a discutere di utero in affitto e di autocertificazione di genere. Vedremo se è già diventato un partito radicale di massa».

La discussione del primo maggio, giorno dei lavoratori, sul ddl Zan non è la prova che è già così?

«Diciamo che lo sta diventando. Ma anche questo è frutto di una tendenza sovranazionale. Da una parte c’è il sovranismo, dall’altra una serie di visioni minoritarie. In mezzo sono rimasti i riformisti e i liberali, schiacciati dalla polarizzazione dei rispettivi campi. Difendo Fedez che si è esposto, ma non può essere il santone del Pd. Lui fa il cantante e promuove le sue attività commerciali. Magari ce lo troveremo in politica. Se ci è arrivato Grillo…».

 

 

La Verità, 15 maggio 2021 (versione integrale)

«L’overdose di gay è il nuovo conformismo»

Nella sede di Rtl 102.5 a Cologno monzese fervono i preparativi per il trasferimento a Villasimius in Sardegna da dove l’emittente trasmetterà fino a fine agosto. «Io invece, mi trasferisco a casa mia a Parma», confida ironico Mauro Coruzzi, in arte Platinette. «Devo rimettermi in sesto per poter dare una mano a una persona cara che ha bisogno di me». Il tempo a disposizione non è molto, alle 17 incombe Password, il programma che conduce con Nicoletta De Ponti. Pochi convenevoli e si parte.

Dalla mise, l’intervista è a Mauro Coruzzi.

«Se per lei ha importanza… è un conformismo anche questo».

Mauro sta chiedendo più spazio?

«No. Credo sia un work in progress, come direbbero quelli che parlano bene. Non amo seguire regole neanche nell’abbigliamento o altre che indicano qualche segretario di partito o qualche televisivo. Neanche a scuola le seguivo».

Coruzzi frequenta la radio e Platinette, più telegenica, la tv?

«No. Platinette è un riciclaggio di me stesso e di modelli altrui, da Mae West a Mina, splendida ragazza madre nell’Italia dei Sessanta. Cerco il difforme, non il conforme. Platinette è una travestita, ma se la trova certe notti nella bassa padana non la riconosce. Mauro è un ragazzo obeso, con una testa che lavora più del corpo e tanta voglia di migliorare il suo aspetto».

Tra i due c’è intesa?

«Una felice collaborazione, come quella che ci fu tra Mara Carfagna e Alessandra Mussolini quando fecero la legge contro l’omofobia. La dobbiamo a loro, non agli illuminati di sinistra, tipo Franco Grillini dell’Arci o Vladimir Luxuria, che ha approfittato dell’anno in Parlamento per rifarsi le tette. Personalmente ho speso un patrimonio in questa battaglia, solo la tessera radicale costava 600 euro. Ma c’era Marco Pannella…».

Marco Pannella.

«Quando andò ad Arcore ebbi un orgasmo. Speravo nella fusione tra la sua creatività e lo spirito liberale di Berlusconi. Non trovo che il sistema delle cooperative abbia migliorato la convivenza civile. Purtroppo, l’avvicinamento tra i due non ha avuto seguito. E il mio spirito liberale e libertario è rimasto orfano pur avendo i genitori».

Ricominciamo da quelli veri.

«Contadini inurbati da Langhirano a Parma, sperando in un miglioramento. Mia madre era operaia in una fabbrica di conserve di pomodoro, mio padre muratore. Non conoscevano l’italiano, la sera guardavano Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi per imparare qualcosa».

Infanzia e adolescenza in povertà.

«Avevo intuito che la cosiddetta cultura, senza la k degli anni Settanta, poteva essere d’aiuto. Alle magistrali ero un inguaribile secchione che però partecipava alle occupazioni, al Movimento studentesco e tutto il resto. Studiavo perché mi piaceva, e mi piace tuttora».

Amici?

«Amori in classe, nella scuola, come tutti».

Non se omosessuali.

«Non solo omosessuali».

Figure importanti di quegli anni?

«Una professoressa d’italiano, tale Irma Traversa Coscia, donna fantastica, unghie curatissime e cervello fulminante. Le chiesi cosa potevo presentare di difforme alla maturità. Scegliemmo Alberto Moravia che avevo conosciuto attraverso Il conformista del parmense Bernardo Bertolucci. Non pago, aggiunsi L’uomo che si gioca il cielo a dadi, una canzone di Roberto Vecchioni».

Garzone di fruttivendolo, poi giornalista: cosa c’è in mezzo?

«Volevo dei soldi per i cavoli miei. Finii le medie facendo consegne della spesa per un verduraio, come i rider di oggi. Guadagnavo 500 lire ogni sabato che spendevo in cinema pizza e Coca cola. Come regalo per la terza media, anziché il Ciao chiesi a mia madre, complice con il figlio frocio come da copione, di andare al concerto di Mina a Parma. Fu un’apparizione, era il 1968».

La sua svolta?

«L’inizio di una devozione. Poi il destino generoso me la fece incontrare ancora. Nel 1981 eravamo nel suo ufficio per fondare il Mina fan club quando lei arrivò, pelliccia fino a terra e maglione nero: “Io prendo un cappuccino scuro, voi?”. Sparì, ma ci fece sapere che l’idea del fan club le piaceva. Noi ci esibivamo en travesti col nome di Le Pumitrozzole, crasi di puttane mignotte troie zoccole lesbiche. “Magari, d’ora in avanti quando mi chiamano mando voi”, buttò lì».

Invece?

«La ritrovai a fine anni Ottanta quando lavoravo per Rock Caffè di Rai2 e mi suggerirono di provinare Benedetta Mazzini, sua secondogenita. Arruolata, ma la madre sorvegliava, così ebbi l’occasione di frequentarla. Un’altra l’ho avuta per gli spot della Tim durante il Festival di Sanremo 2018».

Maurizio Costanzo dove l’ha scovata?

«Uscì un articoletto su Panorama sulla speaker di un piccolo network radiofonico di nome Platinette che faceva dell’esagerazione e dell’irriverenza la sua cifra. Mi fece chiamare per una serata del Costanzo show dedicata alle drag queen. Declinai. Ci riprovò per una puntata sulle patologie alimentari, argomento che conosco bene. Quando arrivò al Parioli e io ero seduto in platea prima del trucco chiese agli assistenti: “E quello chi è?”. Non poteva riconoscermi, ma da quella sera c’innamorammo».

Qualche giorno fa ha scatenato un putiferio dicendo che gli omosessuali hanno troppo spazio.

«Trovo che la lamentela continua delle associazioni Lgbt abbia poca ragione d’essere. Non si fa un film o un talent o un reality show senza una travestita o due omosex che litigano. Un’overdose. Un nuovo conformismo. Cristiano Malgioglio io so che è un grande autore, ma non sono sicuro che il pubblico colga. Nel pomeriggio di Rai1 Pierluigi Diaco conduce un programma sui buoni sentimenti, con la posta del cuore. Sembra di essere nel dopoguerra».

La sua è una critica di costume?

«Non solo. In Italia se non sei famiglia, compresa quella omosessuale, non sei niente. Non ce l’ho con chi si unisce civilmente, il rapporto codificato dalle leggi mi fa piacere. Ma così si uccide la singolarità, io sono famiglia di me stesso. Se esco con certi amici tradizionali o anche omosex mi annoio a morte. Parlano di figli, di carriere a Londra, portano una cena normale come prova di solidità del rapporto: “Era caldo, non sapevamo che fare, abbiamo tagliato un melone e cenato alle otto di sera”. Sì, e alle otto e dieci?».

Concorda con la sensazione che il Gay pride goda di stampa molto migliore di quella del Family day?

«Ammazza! Non c’è dubbio. Se dissenti sul Gay pride non hai cittadinanza. Eppure le conquiste sono state fatte, ci si può un po’ prendere in giro. Volevo affittare una decappottabile per sfilare come Lana Turner. Mi hanno detto di no perché l’auto inquina. Capisce? Ho ripiegato su un risciò, che è costato quasi più della decappottabile».

Si impegnerebbe senza se e senza ma sui matrimoni gay? Da uno a dieci…

«Quattro. Come i figli di Lorella Cuccarini…».

Sulla stepchild adoption.

«Zero, senza incertezze. Tiziano Ferro se ne faccia una ragione».

Sull’utero in affitto?

«Sottozero. È una forma orribile di sfruttamento delle donne. Ti presto il mio forno per cuocere le tigelle e poi le mangi tu. Dopo l’approvazione della legge Codice rosso per la violenza sulle donne voluta da Giulia Bongiorno non ho visto né sentito esultare le organizzazioni Lgbt: solo perché Bongiorno appartiene a uno schieramento diverso?».

Sul Me too?

«Uno. Guarda caso, si salvano tutti. Fausto Brizzi è tornato, persino Cristiano Ronaldo non sarà processato. Si vogliono moralizzare anche le donne che sono felici di concedersi per trarne un vantaggio. Perché le nostre attrici, bravissime per carità, erano tutte sposate a produttori cinematografici?».

Sulla triptorelina, il farmaco che rallenta la pubertà per chi avverte disforia di genere.

«Zero anche qui. Ci fosse un ormone che ci permettesse di stare in bilico tutta la vita, quello servirebbe».

Nemmeno le unioni civili la convincono?

«Non mi convince il matrimonio come mutuo soccorso. L’assistenza, la successione, la reversibilità erano possibili anche prima, bastava andare dal notaio con 100 euro. Non m’interessano la metà del cielo e quelle cose lì. Anche Maria di Nazareth era sola… Nasciamo singolarmente, ma non si fa mai una legge per l’individuo».

Ha seguito la vicenda di Bibbiano?

«Poco. Non mi ha preso emotivamente, anche se mi rendo conto… Ciò che mi colpisce è che questi fatti avvengano a Reggio Emilia, città di partigiani e comunisti, governata a lungo da Graziano Delrio. Allora è vero che i comunisti mangiano i bambini».

Definisca Linus.

«C’è qualcosa da dire?».

Barbara D’Urso.

«L’unica che abbia sottomesso la volontà per ottenere dei risultati. Ho massima ammirazione, ma vorrei vederla applicata su altre tematiche, oltre alla difesa delle donne e dei gay».

Maria De Filippi.

«La donna che avrei voluto essere. Mai visto un copione, mai avuto tanta libertà come con lei. Una gratificazione riuscire a farla ridere fino a scapicollare».

Regista cinematografico preferito?

«George Cukor. Donne è un capolavoro assoluto: un film con tutte le star di Hollywood che parlano di uomini per tutto il tempo senza che se ne veda uno. Ex equo con Luchino Visconti ed Ernst Lubitsch».

E il cinema italiano? Ferzan Ozpetek, Luca Guadagnino, Gianni Amelio…

«Non lo seguo molto. Per carità, con Ozpetek e Amelio ho anche lavorato. Chiamami col tuo nome mi è parso retorico al confronto con Il giardino dei Finzi Contini o Rocco e i suoi fratelli».

Letture preferite?

«Le biografie. Non avendo una vita interessante, leggo quelle altrui. Aprirò una libreria di sole biografie».

Che cosa le manca di più oggi e in prospettiva futura?

«Un faro. Rifaccio il nome di Pannella, per il tipo di visione costante che rende la vita soddisfacente. Non ha mai nascosto il suo essere omosessuale, ma non ne ha mai fatto strumento di lotta se non al servizio del cittadino, come dimostrano le battaglie per l’aborto, il divorzio e l’eutanasia».

Alla fine si è avvicinato alla Chiesa.

«Sì, doveva fare i conti con qualcuno. Con la sua coscienza, credo; più che con il Dio dalla barba bianca».

 

La Verità, 28 luglio 2019