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«Il patriarcato? Esiste nelle comunità islamiche chiuse»

Ex maestra di tennis, ex deputata Pd, femminista, in prima linea sui diritti civili e sui temi dell’educazione con Didacta Italia, pochi giorni fa Anna Paola Concia ha firmato con Simone Lenzi e Ivano Scalfarotto un decalogo su «Destra, sinistra e l’alternativa che vorremmo». Dal 5 agosto 2011 è unita civilmente con la psicologa Ricarda Trautmann che ha assunto il suo  cognome. Vive a Francoforte.
In occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne ha postato su X: «Mi scuserete se non partecipo alla saga delle banalità che oggi si ripetono urbi et orbi». Reazioni?
«Alcune donne si sono offese, molte hanno capito e concordato, gli odiatori che insultano non li considero. Alle donne che si sono offese ho spiegato che, siccome per me la violenza di genere è una cosa seria, rifuggo gli appuntamenti di circostanza perché, sempre secondo me, servono atti legislativi e processi culturali graduali e profondi».
Ci si aspettava che partecipasse alla manifestazione del 25 novembre che avveniva a ridosso dell’anniversario dell’uccisione di Giulia Cecchettin e dell’intervento del ministro Giuseppe Valditara?
«A parte il fatto che vivo in Germania, penso che bruciare la fotografia di un ministro com’è stato fatto non sia il modo migliore per rispondere alla violenza che si voleva condannare con quella manifestazione».
Il cui slogan era «Disarmiamo il patriarcato»: bersaglio corretto?
«Su questa parola c’è la solita polarizzazione. Chi lo nomina è di sinistra, chi non lo nomina è di destra. Trovo che il manicheismo non aiuti a capire. In 40 anni di lotte, noi femministe al patriarcato abbiamo dato una bella botta. Ora è tramortito, rimangono gli strascichi di una cultura che ancora non si rassegna. Femminicidi e violenza di genere sono azioni di uomini che non accettano la libertà femminile».
Come definisce il patriarcato?
«Le società patriarcali erano quelle in cui l’uomo era padre padrone».
Ovvero il patriarca: in quali ambienti c’è ancora?
«Nelle società occidentali grazie alle battaglie femministe è tramortito. Ma la cultura patriarcale si esprime soprattutto nelle relazioni affettive. Sono state fatte delle leggi, si son fatti passi avanti sul piano culturale. Oggi noi donne oggettivamente non viviamo più con il patriarca sopra la testa, sebbene resistano disuguaglianze tra uomini e donne, come il gender gap. Il patriarca sopravvive nei Paesi dell’integralismo islamico. E in quelle comunità insediate nei Paesi occidentali che non si sono integrate».
L’integrazione è una sfida possibile?
«Io vivo in un Paese dove gli immigrati sono il 20%. Sebbene la Germania investa molto sull’integrazione, in alcune aree non è compiuta. Non volerlo vedere è un errore madornale».
Qualche giorno fa sul sito FeministPost Marina Terragni ci ha ricordato il Capodanno 2016 a Colonia quando decine di donne furono violentate da arabi e nordafricani.
«Fu una pagina molto buia che aprì gli occhi sulla necessità di maggior integrazione di uomini e ragazzi provenienti dai Paesi musulmani. Ci furono denunce e accuse di razzismo, ma i fatti erano inequivocabili».
Che cosa disapprova del neofemminismo?
«Il suo integralismo e la sua matrice profondamente anti occidentale. È una frangia coccolata dai media che tende a cancellare la differenza sessuale».
È anche incline al vittimismo?
«Purtroppo sì. L’identificazione tra l’essere donna e l’essere vittima è una trappola mortale che rischia di consolidare il patriarcato».
Appurato che giuristi e sociologi affermano che non c’è più, che cosa sopravvive del patriarcato?
«Il machismo e il maschilismo. Per sconfiggerli non bastano le leggi, serve un processo culturale che ci impegni tutti».
Intervistata dalla Verità Giorgia Meloni ha detto che le violenze e gli stupri sono favoriti dall’immigrazione irregolare: è razzista o fattuale?
«Nella marginalità c’è prevaricazione e quindi anche violenza sessuale. È un elemento di disagio sociale che vale sia per gli immigrati irregolari sia per i cittadini italiani».
Intanto i dati dicono che l’incidenza sui reati di violenza e stupro è superiore alla percentuale di immigrati nel nostro Paese.
«Questo problema non può essere affrontato dicendo se sono peggio gli immigrati o gli italiani. Sappiamo tutti che se la violenza è esercitata da un amico le donne tendono a denunciare meno. L’Istat ci dice che esiste una violenza sommersa che deve essere indagata e contrastata».
I femminicidi perpetrati sono espressione di mascolinità tossica o sintomo di debolezza?
«Un uomo che risponde con l’assassinio di una donna che gli ha detto no è sicuramente espressione di mascolinità tossica».
L’incapacità di accettare un abbandono è sintomo di debolezza?
«Certo che lo è. Purtroppo, stiamo educando generazioni incapaci di accettare le sconfitte. Che, invece, nella vita esistono. Siamo cresciuti anche attraverso le sconfitte, accettandole ci siamo rinforzati. Bisogna imparare a farci i conti».
Chi erano i suoi genitori?
«Due dirigenti dell’Azione cattolica. Mio padre è stato formatore di Gianni Letta, erano entrambi di Avezzano».
Era un padre autoritario o amico?
«Era un padre severo. Un democristiano puro. Si è confrontato con quattro figli impegnativi, io sono l’ultima. Negli anni delle contestazioni a casa mia c’era tutto l’arco parlamentare. Mia sorella era del Pdup, mio fratello radicale, un altro del Msi, io comunista. Facevamo discussioni feroci, ma i miei genitori erano democratici e noi abbiamo vissuto ognuno la propria vita».
Perché oggi tanti cosiddetti maschi bianchi non accettano l’abbandono di una donna?
«Qui ci vorrebbe una psicologa… Se vuole giro la domanda a mia moglie che lo è».
Prego.
Risponde Ricarda Concia, criminologa: «La causa è la mancanza di autostima. Oggi si è creato uno squilibrio, gli uomini non sono cresciuti quanto le donne e hanno perso il privilegio del capo. Inoltre, se le cose vanno bene, l’uomo medio attribuisce il merito a sé stesso, se vanno male dà la colpa agli altri, nel caso specifico alla donna».
Perché secondo lei in questi anni si è parlato di mamme elicottero e mamme spazzaneve e mai di padri?
«Infatti, i padri non esistono e non hanno mai responsabilità… Mi sembra una follia».
Le mamme delle chat di Whatsapp fanno di tutto perché i figli non trovino ostacoli?
«Tutto questo sindacalismo protettivo dei figli non li aiuta a crescere. Quando andavo a scuola l’insegnante aveva sempre ragione. Andavo malissimo in matematica, avevo un professore complicato, ma nonostante questo i miei genitori non mettevano mai in discussione l’autorità dell’insegnante. Lo scardinamento dell’autorevolezza dell’insegnante rende più fragile il percorso educativo. Non si può ricorrere al Tar perché tuo figlio ha preso sette anziché otto. Tu sei un genitore e fai il genitore, l’insegnante fa l’insegnante».
Deriva da questi atteggiamenti l’incapacità di metabolizzare un’opposizione femminile?
«Filippo Turetta è l’esempio eclatante di questo».
Mamme spazzaneve e padri amici educano figli fragili?
«Io non sono una tradizionalista. Con i miei genitori era difficile parlare, oggi si parla di più e questo per me è un fatto positivo. Farsi raccontare, parlare e confrontarsi non vuol dire essere genitori amici».
Può essere la scomparsa del padre la malattia della società contemporanea?
«No. Sono d’accordo che c’è la morte del padre, ma è un fatto storico. Oggi dobbiamo costruire insieme un tempo nuovo, ma non a colpi di machete».
Il gender può essere un’espressione perversa del patriarcato?
«Oggi la fluidità sessuale è un dato di realtà. Penso che tutti debbano avere diritto di cittadinanza. Acquisita questa fluidità, rifiuto la cancellazione delle donne. Sono per riconoscere gli uomini, le donne, le persone fluide, le persone transgender e chi più ne ha più ne metta, ma senza cancellare nessuno».
Il ricorso alla maternità surrogata e alla Gpa è una forma di sfruttamento del corpo della donna?
«Sì. Durante la manifestazione dell’altro giorno un cartello recitava: “Non siamo macchine per la riproduzione, ma donne pronte alla rivoluzione”. Apprendo con piacere che anche le donne di Non una di meno sono contro la Gpa».
L’ammissione di persone trans o iper-androgine alle competizioni femminili come alle ultime Olimpiadi può essere espressione di una cultura patriarcale?
«Sono una donna di sport e sono una che non esclude ma allo stesso tempo non impone: penso che se oggi molte persone trans atlete vogliono gareggiare è arrivato il momento di creare una terza categoria».
Mah…
«Lo sport deve avere condizioni paritarie di partenza: tra una persona trans e una donna non lo sono. È un dato scientifico. Chiediamoci perché le donne trans che diventano uomini non chiedono mai di competere nelle gare maschili. La biologia esiste e ha la sua incidenza».
Lo sfruttamento commerciale del corpo femminile nelle piattaforme, nei social, nella promozione pubblicitaria è un’espressione del maschilismo o del patriarcato?
«Del maschilismo, del racconto maschile sul corpo delle donne».
Le neofemministe vorrebbero legalizzare la prostituzione.
«Sono favorevoli al sex worker, io sono contraria. La prostituzione femminile risponde a una domanda di sesso a pagamento di uomini. Il 90% di questa risposta comporta la tratta delle donne. E sono donne giovani. Poi c’è un 10% di donne che decidono di vendere il proprio corpo. In Italia, grazie alla legge Merlin, se una donna vuole prostituirsi può farlo, ma promuoverlo a emblema della libertà femminile è imbarazzante. Il 90% sono donne sfruttate».
Le piaceva lo spot per la Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne che recitava: «Se io non voglio, tu non puoi»?
«Francesca Capelli, una giornalista che vive in Argentina, ha suggerito che era meglio scrivere: “Se io non voglio, tu non devi” anziché tu non puoi. Perché potere, può eccome, purtroppo».
Che cosa pensa del fatto che l’8 marzo scorso Non una di meno ha impedito la partecipazione alle manifestazioni di donne che volevano ricordare le vittime del massacro del 7 ottobre?
«La fobia antioccidentalista di Non una di meno è così forte da negare gli stupri del 7 ottobre. Questo è contro il femminismo. Per quanto mi riguarda, loro possono chiamarsi come vogliono, ma non sono un movimento femminista».
È favorevole alla creazione di un’associazione Saman Abbas come proposto dal professor Ricolfi?
«Totalmente. Anzi, sono disponibile a dare una mano. Bisogna occuparsi anche di queste ragazze che sono più esposte al patriarcato».

 

La Verità, 30 novembre 2024

Da Augias a Serra, chi sono i nuovi guru d’opposizione

L’altra sera ce n’erano due, comodamente adagiati sulle poltroncine di La torre di Babele, nuovo caminetto antigovernativo di La7. Corrado Augias e Michele Serra, categoria guru d’opposizione. Il primo, con l’aria del vecchio saggio richiamato in servizio, transfuga dal servizio pubblico, causa emergenza democratica. Il secondo, costretto ad alzarsi dall’Amaca per gli improrogabili straordinari, motivati dalla medesima emergenza e, va detto, da una certa evanescenza di coloro che l’opposizione dovrebbero farla di professione.

Il dovere chiama; dunque, ai posti di combattimento. Augias e Serra, entrambi repubblicaner, sono i capifila delle due principali scuole di pensiero della nuova genia. La scuola romana e la scuola emiliana. L’altra sera si confrontavano sui «giovani». Capirete. Non hanno più fiducia nel futuro. Hanno paura del clima impazzito, della crisi economico sociale e degli attacchi terroristici. I giovani, dicevano un ottantottenne e un quasi settantenne, considerano l’Italia un «Paese in declino». La tesi è stata plasticamente rappresentata dalla cover dell’ultimo libro firmato da Serra con Francesco Tullio Altan (toujours Repubblica) intitolato Ballate dei tempi che corrono (Feltrinelli), «in cui si vede un popolo che va all’indietro», ha sintetizzato il capofila emiliano. Mentre invece bisogna cercare di uscire in avanti, «buttandola in politica», per esempio come si è fatto nelle bellissime manifestazioni del 25 novembre contro i femminicidi. Insomma, i «giovani, ai quali dobbiamo rivolgerci senza paternalismi», si è detto senza ridere, dovrebbero impegnarsi a scalzare chi comanda in quest’Italia retrograda.

È la summa ideologica del lavorio che di questi tempi agita le redazioni dei talk show, dei grandi giornali, delle tv militanti. Cercasi guru d’opposizione disperatamente. Meglio ancora, se dotato di muscoli demolitori. Detto degli straordinari di Serra, che dall’abituale sermoncino a Che tempo che fa ora è ovunque, e del richiamo in prima linea di Augias, da un po’ tutto questo gran daffare rimbalza tra La7 e il Corrierone, tra Repubblica e il Nove. Poi ci pensano siti e piattaforme a rilanciare ultimatum e invettive, implementando e viralizzando l’apocalisse imminente. Autori, cantautori, scrittori, opinionisti, comici, grandi firme, satiri e saltimbanchi sono in trincea mai come ora. L’operazione ha accelerato dopo lo scollinamento del primo anno di governo Meloni perché una serie di nefaste previsioni date per ineluttabili sono state puntualmente smentite. La correzione del Pnrr? Sicuramente bocciata e le rate rinviate sine die (come conferma l’arrivo della quarta tranche all’Italia, primo Paese dell’Ue). Le agenzie di rating? Ci avrebbero di sicuro declassato, innescando la procedura di default (come certifica il mantenimento degli standard e in un caso il miglioramento dell’outlook). Le alleanze internazionali? Godendo di zero autorevolezza, l’Italia si sarebbe rapidamente isolata (come mostrano le missioni con Ursula von der Leyen, il patto con l’Albania sui migranti e le classifiche di popolarità del premier di Politico e Forbes). Poi il Pil sarebbe sprofondato, l’occupazione crollata, l’inflazione avrebbe divorato i nostri risparmi e la popolazione assaltato i centri commerciali mettendo a ferro e fuoco città e campagne.

Pur al netto di alcune gaffe soprattutto a livello di comunicazione e immagine, dai corsi di «educazione alle relazioni» del ministro per l’Istruzione e il merito Giuseppe Valditara alle imprudenze del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, senza tralasciare la gestione di alcune situazioni in Rai, le cose non sembrano esser andate così. I fatti sono testardi e, purtroppo per i professionisti del campo largo, stretto, giusto o ingiusto, il problema della tenuta governativa sussiste. Perciò, saggiamente preoccupate, le migliori menti left oriented stanno producendo il massimo sforzo per chiamare a raccolta la crème. Il pontefice emerito della scuola emiliana Pierluigi Bersani, sempre in vena di metafore contro «le destre» («tra la Meloni e Salvini è in atto la gara del gambero a chi si allontana di più dalla lettera della Costituzione»), si è praticamente trasformato in un arredo degli studi di Otto e mezzo e DiMartedì. Complice un album di Canzoni da osteria, per compattare la squadra, ultimamente è sceso a valle anche Francesco Guccini. Il quale, prima ha guadagnato il salotto di Fabio Fazio, poi è rimbalzato sul Corrierone per confidare ad Aldo Cazzullo che lui non è convinto che Mussolini fosse un genio e che a rovinare tutto fossero quelli che lo circondavano… No e poi no: «Il Duce un genio non era; e temo non lo sia neppure la Meloni». Tiè.

Però, in fondo, gli emiliani sono dei simpatici gigioni. Lambrusco, tigelle, proverbi e una partita a rubamazzo.

Un pizzico di astio in più aleggia invece nella covata romana. La borgatara di Colle Oppio è un’usurpatrice. Mica ha studiato nei licei di Prati. Non ha l’erre francese e neppure l’armocromista. Stia manza, anche se è donna. Più dell’azionista Augias, la demolizione cafonal di Roberto D’Agostino partorisce tre o quattro necrologi governativi al dì, si dice ben visti dal sommo Sergio Mattarella. Per poi tracimare nei talk e nei giornaloni magisteriali. Quelli che, pure, sono già altamente rappresentati dall’attacco a tre punte, di solito composto da Massimo Giannini, editorialista di Repubblica, Annalisa Cuzzocrea, vicedirettrice della Stampa e Cazzullo, vicedirettore e firma principe del Corsera. Ubiqui e inflessibili. Spietati ed eleganti. Ma loro, più che veri e propri guru d’opposizione, sono alti funzionari in servizio h 24.

 

La Verità, 13 dicembre 2023

«Il linguaggio dimostra che Meloni è laureata dentro»

Saggista, docente di Linguistica italiana all’Università di Cagliari, autore di studi sulla comunicazione dei maggiori leader politici (dopo il Renziario, il Salvinario e il Berlusconario, ecco il Melonario, sempre da Castelvecchi editore), Massimo Arcangeli è in prima linea contro le storture prodotte dal politicamente corretto nell’uso della lingua. Sarà forse per la petizione contro lo schwa scritta con lo storico Angelo D’Orsi e firmata da tanti intellettuali autorevoli, o perché collabora anche con testate non mainstream, fatto sta che la voce di Wikipedia che lo riguarda è sempre lacunosa e non registra le sue ultime iniziative pubbliche.

In questi giorni uscirà il dizionario del linguaggio parlato, scritto e postato di Giorgia Meloni realizzato con più ricercatori. Definirebbe il premier attuale erede o successore di Silvio Berlusconi?

«Se posso permettermi, né erede né successore perché tra loro esistono distanze rilevanti se non, per alcuni versi, abissali».

Lui era un imprenditore visionario, lei una militante da sempre.

«Meloni è stata fedele fino all’ultimo alla destra sociale, con una storia consolidata di opposizione. Berlusconi è stato un grande imprenditore e l’inventore della tv commerciale. Retroterra che non collimano. Ricordo situazioni in cui Meloni si espresse in modo critico su Maurizio Costanzo o Maria De Filippi. Poi c’è una distanza geografica, Meloni è espressione del mondo romano e Berlusconi di quello milanese. Con tutto quello che questo comporta nella cultura politica».

Elementi convergenti?

«Ci sono e coinvolgono anche Umberto Bossi. Mi riferisco al populismo come elemento positivo di base. Non nell’accezione deteriore che vediamo incarnata, per esempio, dai 5 stelle».

Berlusconi sapeva e Meloni sa interpretare le istanze popolari?

«Hanno la capacità di interpretare i bisogni della gente comune e di parlare alla pancia del Paese. È quella percezione nazionalpopolare della politica che la sinistra non ha saputo fare propria diventando radical chic e fallendo gran parte dei suoi obiettivi».

Vede elementi comuni nel linguaggio?

«Innanzitutto, la personalizzazione della leadership. Più nel caso di Berlusconi ma anche parlando Meloni, il punto di riferimento del partito e della coalizione sono loro. Nella Seconda repubblica ci hanno provato a esserlo anche Matteo Renzi, danneggiato dal suo superego, e Matteo Salvini, con gli esiti che abbiamo visto. La seconda componente comune è la spettacolarizzazione della politica. Anche se Meloni non è una donna di spettacolo, lo sa usare. E sa usare bene i social che, nell’epoca della promocrazia, è molto importante».

Della promocrazia?

«Della politica basata sull’autopromozione, sul marketing. Berlusconi era un simpatico imbonitore, lo dico in positivo. Meloni compete sui vari media. Entrambi sanno che nella politica 2.0 i media che interagiscono tra loro hanno un effetto moltiplicato».

Lei è più multitasking di lui?

«Pur non essendo nemmeno lei nativa digitale».

Entrambi politici pop?

«Se dovessimo redigere un vocabolario delle nuove parole o dei tormentoni inventati da politici nell’ultimo ventennio il primato spetterebbe a loro. Con “cribbio”, “mi consenta” e “l’Italia è il Paese che amo” abbiamo tutto Berlusconi. Per rappresentare Meloni citerei l’avverbio “sommessamente”, che usa spesso e in varie sfumature, oppure il neologismo “nomadare”, in riferimento all’azione dei nomadi, i rom, entrato nella Treccani».

C’è molta differenza dal linguaggio della Prima repubblica?

«Come per Berlusconi che aveva un linguaggio doubleface, sia famigliare che volgare, dalla “patonza” al gesto delle corna, espressioni che tutti abbiamo, anche Meloni alterna il romanesco ai tecnicismi anglosassoni, per esempio in materia economica. Questa è una differenza, ma ci sono anche affinità con la Prima repubblica».

Quali?

«Ho ascoltato centinaia di discorsi a braccio di Giorgia Meloni verificandone la capacità di tenere il filo del discorso. Ecco: lei sa controllare l’esposizione per un tempo molto più lungo degli altri politici contemporanei. Per trovarne qualcuno con la stessa capacità bisogna risalire a Bettino Craxi, Enrico Berlinguer o Aldo Moro. Inoltre, ho trovato una memorizzazione formidabile dei contenuti. Pur parlando a braccio, riesce a riproporli con le stesse parole usate diversi anni prima, fatti salvi i cambiamenti del contesto».

Questo ne accentua la percezione di coerenza e lealtà?

«La lealtà è un elemento fondamentale del suo discorso, al punto che si sono individuate espressioni tratte dalla cultura cavalleresca che, per qualcuno, erano di derivazione fascista. In realtà, sono eredità della cultura risorgimentale e, andando più indietro, dell’immaginario letterario e cinematografico di Tolkien e del fantasy che Meloni ha fatto proprie».

Cosa pensa del ricorso all’inflessione romanesca vuol dire questo?

«È un vezzo».

Da correggere in un ruolo istituzionale?

«Avrebbe potuto fare dei corsi di dizione, se non l’ha fatto è perché il romanesco le è caro. Da premier mi pare vi ricorra di meno».

Cosa significa, come scrive, che è «laureata dentro»?

«Che non ha bisogno di avere una laurea per dimostrare di saper scrivere e parlare bene. È sufficientemente colta, ha le sue letture evidenziabili, parla inglese e spagnolo in modo più che accettabile. Anche Renzi e Berlusconi parlano bene. Lei parla e argomenta meglio. Ha anche capacità di accelerare e decelerare efficacemente i ritmi del discorso».

Il linguaggio deriva dalla vita concreta e lei ha fatto tanti mestieri, dalla barman alla baby sitter, perché il padre non c’era e la madre aveva perso il lavoro… Ha ragione Pietrangelo Buttafuoco a dire che ha una storia di sinistra?

«Paradossalmente sì, una storia di sinistra vissuta sul versante opposto».

«Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana»: questo linguaggio è vincente rispetto alla comunicazione della sinistra abituata ai continui distinguo millimetrici?

«Se dicessi che sono uomo, sono padre, sono cristiano criticherebbero pure me. Siccome c’è la moltiplicazione dei generi, dobbiamo stare attenti a declinare la nostra identità. Ma mi sembra un problema falso e intellettualoide. Nessuno deve temere di dire chi è, purché rispetti l’identità altrui. Il politicamente corretto vorrebbe che il neutro si imponesse anche in questo. Io non voglio assistere all’affermarsi della tirannia del neutro».

Parlando di leaderizzazione e storytelling, due anni dopo Io sono Giorgia sta per pubblicare un nuovo libro: non sarà troppo?

«Ha capito che deve mantenere un contatto forte con i suoi lettori, follower e potenziali elettori. Se fossi in lei farei un libro l’anno».

Appartenevano a questa filosofia anche «Gli appunti di Giorgia»?.

«Quell’idea nacque in occasione della scelta dei ministri, quando Berlusconi le attribuì comportamenti scorretti. Allora lei s’inventò “Gli appunti di Giorgia”. Gli appunti si usano prima di metterli in bella forma per la divulgazione. In quel modo mandò un messaggio di trasparenza: non ho niente da nascondere, vi mostro la mia agenda, come sono realmente».

Com’è cambiata la sua comunicazione da presidente di Fdi a presidente del consiglio?

«Si è istituzionalizzata, a partire dagli abiti che sono, giustamente, meno scanzonati di un tempo. Costruisce i discorsi in modo più ecumenico, smussando i toni del primo decennio del Duemila che, secondo me, è stato il più efficace. Usa maggiormente termini angloamericani, in una proiezione più internazionale e di attenzione ai mercati».

Come giudica la modifica delle intestazioni dei ministeri, per esempio dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, dell’Istruzione e del merito…

«Mi sembrano modifiche di facciata. Ho trovato inutile la specificazione del merito per un Paese che fonda il suo futuro sull’istruzione. Sarebbe stato innovativo se, oltre al merito, avesse aggiunto l’inclusione, rubando il monopolio di questo tema alla sinistra».

Non sarebbe stato un cedimento al mainstream?

«Non credo. Da docente universitario dico che, forse a causa della pandemia, c’è un’esplosione della fragilità giovanile che non ho mai riscontrato in trent’anni d’insegnamento. Rischiamo di far crescere tanti soggetti anomali, instabili. Su questo non c’è né destra né sinistra. Perciò, mi batto per l’adozione dello psicologo in ogni plesso scolastico e università. Come già avviene nelle scuole del Nordeuropa e americane».

Perché si critica il ricorso a termini come nazione e patria?

«Altro falso problema. Nazione compare nella nostra Costituzione e anche patria è un termine di alveo risorgimentale. Chi insiste sugli echi fascisti di questi vocaboli non conosce la storia».

Intravede dei punti deboli nell’azione del premier? Quali consigli le darebbe nella comunicazione?

«L’unico punto debole di Giorgia Meloni è Giorgia Meloni. Se vuole durare deve basarsi davvero sul merito delle persone giuste».

Invece?

«Ci sono ministri, sottosegretari e parlamentari non all’altezza».

Qualcuno in particolare?

«Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. Un anno fa si è consumato il più scandaloso concorso scolastico ordinario della storia della Repubblica con decine e decine di quiz sbagliati o mal formulati come hanno documentato le perizie di docenti specializzati. L’ex ministro Patrizio Bianchi non ha fatto quasi nulla e Valditara nulla».

Tornando alla comunicazione, cos’ha pensato dello speech dopo l’incontro con il presidente tunisino Kaïs Saied senza giornalisti davanti?

«Che non è meloniano e non doveva essere così. Si è lasciata convincere da qualcuno».

Ha un rapporto ancora conflittuale con i media e preferisce la disintermediazione, rivolgersi alla gente senza la mediazioni dei giornalisti?

«Sì. Sa bene che i contenuti possono essere manipolati e ricuciti in modi non sempre consoni. Se potesse opterebbe per la disintermediazione totale».

Il confronto linguistico con Elly Schlein?

«Se devo prendere appunti di quello che dice Giorgia Meloni trascrivo poco perché capisco gli snodi del ragionamento. Se parla Elly Schlein sono costretto a trascrivere tutto e poi, alla fine, rileggendo, stento a fare la sintesi. Lo ha detto anche Concita De Gregorio: rileggi, ma il titolo non salta fuori. Ma purtroppo, questo non è solo un problema di vocabolario».

 

La Verità, 17 giugno 2023