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«Sul vino si è vinto, ma la guerra del cibo è lunga»

Un visionario a capo del settore agroalimentare. È Luigi Scordamaglia, 56 anni, consigliere delegato di Filiera Italia. Da grande voleva fare il veterinario, fin quando Luigi Cremonini, grande produttore nel settore della carne, lo convince a mollare tutto per dedicarsi all’alimentazione. In pochi anni brucia le tappe, fino all’incarico attuale. Ultimamente lo hanno scoperto anche i conduttori televisivi più accorti. Impegnato in Europa in difesa del nostro vino e contro il Nutriscore, e in Italia a sostegno degli agricoltori in difficoltà per l’aumento dei prezzi causato dalla crisi energetica, per lui questi sono giorni caldi.

Ora che il bollino nero sul vino è stato scongiurato il pericolo è scampato per sempre?

«Doserei l’entusiasmo. Abbiamo vinto una battaglia non certo la guerra che è tutta da combattere. Abbiamo introdotto un po’ di buon senso nel testo sul consumo di alcol, ma la guerra tra opposte visioni prosegue».

Da chi è rappresentata quella che avversa il vino?

«Da una buona parte dei Paesi del Nord Europa e da poche, ben identificate, multinazionali che pensano che l’alimentazione del futuro debba essere omologata, non distintiva e sempre più composta da ingredienti sintetici e chimici a danno della qualità e dell’equilibrio dei cibi».

In che modo avete introdotto elementi di buon senso?

«Cancellando sugli alcolici l’etichettatura allarmistica, tipo quella in uso sui pacchetti di sigarette. È sufficiente consigliarne sempre un uso moderato e consapevole, come facciamo. Un’altra dose di buon senso è essere riusciti nelle scorse settimane a far eliminare sempre dal cancer plan (il piano europeo contro il cancro ndr) ogni riferimento esplicito al Nutriscore».

Quindi si può stare tranquilli?

«Mai. Abbiamo momentaneamente scampato il pericolo relativo al Piano anticancro, ma incombe sempre quello relativo all’obiettivo di armonizzare l’etichettatura nutrizionale con un unico sistema entro il 2022».

Cosa significa in concreto?

«La Commissione europea ha il compito d’identificare una sola grafica Fop (front of pay) che dia in maniera intuitiva le informazioni nutrizionali fondamentali. Al momento non esiste un unico sistema: si dovrà scegliere tra il Nutriscore e il Nutrinform, proposto dall’Italia».

In breve, cosa li diversifica?

«Il Nutriscore distingue tra alimenti buoni e cattivi, penalizzando prodotti come il parmigiano a vantaggio di formaggi di pessima qualità con ingredienti artificiali. Il Nutrinform, che sta sempre più convincendo i Paesi del Sud Europa, aiuta invece il consumatore a scegliere i singoli alimenti, meglio se di qualità per un apporto complessivo giornaliero equilibrato. Personalmente credo che, considerate le posizioni lontane tra i vari Paesi, la Commissione farebbe bene a prendersi un margine di riflessione ulteriore per definire un’indicazione unitaria».

A chi era venuto in mente di targare il vino come causa di malattie cancerogene?

«La commissione Beca del Parlamento europeo doveva scrivere il Piano anticancro. Ma casualmente, proprio nelle ultime settimane, anziché rilassarsi con un buon bicchiere di vino, Serge Hercberg, il professore francese inventore del Nutriscore, ha pensato di completare il suo già discutibile sistema con un bordo nero da apporre su tutti i prodotti contenenti oltre l’1% di gradazione alcolica».

Oltre l’1% chi si salva?

«Forse neanche le bevande analcoliche. Questi nostri interlocutori sembrano ignorare l’esistenza di testimonianze risalenti a 5 milioni di anni fa secondo le quali i primi ominidi mangiavano succhi da frutti fermentati con un certo livello alcolico».

Tuttavia, in Europa il consumo di alcol è superiore a quella degli altri continenti, perciò l’Oms chiede una riduzione del 10%.

«Chi ha una tradizione culturale e alimentare di millenni è abituato a distinguere tra uso e abuso. Imporre un bollino nero sulla bottiglia è una misura che può essere utile in molti Paesi del Nord Europa, dove molti giovani nel fine settimana sono abituati ad abusare spesso di mix di alcolici, non certo ai cittadini italiani che bevono un bicchiere di vino durante il pasto».

Dietro una problematica reale si nasconde qualcos’altro?

«Si strumentalizza una legittima preoccupazione per affermare interessi poco trasparenti. Se si promuove un prodotto trasformato con ingredienti sintetici e chimici di basso costo a scapito di quelli naturali si risparmia sulla produzione, si aumentano i margini di guadagno e, al contempo, si diventa salvatori del mondo».

Come in altri settori, si vuole applicare l’algoritmo anche in cucina?

«È la logica dell’omologazione. Si vuole applicare un algoritmo costruito a tavolino per favorire determinati prodotti e penalizzarne altri dimenticando che quello che ha fatto degli italiani uno dei popoli tra i più longevi al mondo è la dieta basata sull’equilibrio delle varie componenti alimentari di qualità».

Non bastano gli studi che mostrano che, dopo il Giappone, siamo il paese più longevo al mondo?

«Se prevalesse il buon senso dovrebbero bastare. Ma se dall’altra parte ci sono multinazionali globali o personalità come Bill Gates che investono risorse senza limiti nella fake meat e nel fake cheese il buon senso non è più sufficiente».

Perché dà fastidio il cibo made in Italy?

«Perché continua a crescere a due cifre all’anno sfondando l’obiettivo dei 50 miliardi di euro di esportazione come avvenuto nel 2021».

Nonostante la pandemia?

«Esatto. Anche nel 2020, anno in cui il commercio è crollato al livello dell’ultima guerra mondiale, l’export alimentare italiano è cresciuto con segno positivo: +1,5% contro -11% dell’intero manifatturiero italiano».

Una crescita imperdonabile?

«Per alcuni potenti interessi in particolare. Però, a mio avviso, non risulta imperdonabile solo la crescita del cibo italiano, ma anche la tenuta di tutte le culture alimentari distintive e non omologate».

È il conflitto tra globalizzazione e tradizione.

«Le multinazionali che producono cibo a bassissimo costo promosso come ecosostenibile vivono il successo del parmigiano reggiano o dell’olio d’oliva come un intralcio da eliminare».

A che punto è nel nostro Paese la risalita del comparto agroalimentare dopo la fase acuta della pandemia?

«Oggi l’agroalimentare è oggetto di una tempesta perfetta. L’esplosione dei costi delle risorse energetiche incide su tutta la filiera, dal campo agricolo alla trasformazione alla logistica distributiva, e mette in difficoltà soprattutto le piccole e medie imprese che non riescono a scaricare a valle questo aumento con il rischio che molte di queste debbano chiudere. Oggi oltre 40.000 dipendenti dell’industria alimentare sono a rischio disoccupazione».

Sono questi i motivi per cui in questi giorni gli agricoltori sono tornati a protestare in diverse piazze italiane?

«Certo senza agricoltura scomparirebbe una filiera di circa 550 miliardi di euro, il 25% del Pil italiano. Se gli agricoltori non hanno un reddito certo e adeguato, non gli si può chiedere di continuare a svolgere quel ruolo indispensabile non solo per garantire l’approvvigionamento alimentare del Paese, ma anche di tutela e presidio di paesaggi e territori e di difesa degli elevati standard di qualità e sicurezza che oggi la filiera agroalimentare italiana è in grado di garantire al consumatore. Da qui anche l’appello di questi giorni al presidente Draghi».

Cosa serve per tornare ai livelli precedenti l’avvento della pandemia?

«Non si può dipendere troppo dall’estero per beni di prima necessità. Nella malaugurata ipotesi di un’esasperazione della crisi tra Russia e Ucraina si sarebbero bloccati il primo e il terzo fornitore mondiale di grano, facendo esplodere i prezzi già alti di questa e di altre materie prime agricole. La soluzione è una sola: bisogna aumentare la produzione agricola nazionale attraverso contratti di lungo termine che valorizzino adeguatamente il nostro prodotto».

È ciò di cui si occupa Filiera Italia?

«È l’elemento ispiratore della sua stessa esistenza».

Che cosa significa il fatto che, nell’occasione dell’attacco al vino la nostra classe politica si è mostrata unita a prescindere dagli schieramenti?

«Su questi argomenti la classe politica si sta muovendo con un livello di unità difficile da vedere in altri campi. Forse perché il settore è così strategico per il Paese e così di buon senso sono le nostre richieste che non si poteva fare diversamente».

In passato lei ha detto che l’agricoltura è il nuovo petrolio: i nostri politici ne sono consapevoli?

«Finalmente cominciano a esserlo anche grazie alla fondamentale azione svolta da Coldiretti e Filiera Italia».

Perché a volte sembra che difendere categorie come i ristoratori sia un atto corporativo?

« L’agroalimentare non è più la Cenerentola dell’economia come si riteneva fino a poco tempo fa. Abbiamo una superficie di terra che è un fazzoletto rispetto ad altri Paesi del mondo, eppure riusciamo a ricavarci oltre 64 miliardi di euro, il più alto valore aggiunto in Europa».

Uno dei nemici da sconfiggere è l’Italian sounding, i prodotti che imitano il made in Italy?

«Gli effetti sono drammatici perché se è vero il nostro export cresce, l’Italian sounding aumenta in maniera molto più veloce».

Su questo fronte come state agendo?

«Attraverso strumenti giuridici sempre più efficaci, con accordi bilaterali sempre più mirati e con campagne di comunicazione sempre più specifiche nei principali mercati di esportazione».

Però intanto si valuta il Prosek croato.

«Ovviamente bisognerebbe evitare il fuoco amico, come l’atteggiamento della Commissione europea poco rispettoso del Prosecco doc. Ma ci auguriamo che tutto ciò finisca presto e la richiesta croata sia rigettata».

Cosa pensa del fatto che gli over 50 senza super green pass non possono recarsi al lavoro?

«I lavoratori del settore manifatturiero italiano hanno dato prova di grandissima responsabilità. Insieme ai sindacati abbiamo spiegato loro l’importanza della vaccinazione e abbiamo raggiunto lo straordinario risultato volontario di oltre il 99% dei vaccinati. A questo punto il sacrificio però dev’essere ripagato e, con la fine dell’emergenza, bisogna aprire tutto senza più limitazioni ai positivi  asintomatici e senza più ostacoli alla ripresa di tutte le attività, soprattutto di ristorazione e ospitalità».

 

La Verità, 19 febbraio 2022

«Per difendere il Prosecco serve l’ecosostenibilità»

Vino, cibo, turismo, cultura, storia. C’è tutto questo nella parabola di Giancarlo Moretti Polegato, imprenditore atipico, radicato nel territorio tra Asolo, Conegliano e Valdobbiadene, colline del Prosecco. Un vignaiolo illuminato, autore di un importante recupero di archeologia industriale, finalizzato alla rinascita di una zona del paese. Quello della storica ex filanda – divenuta calzificio Si-Si e Golden lady, chiuso a fine anni Novanta per le delocalizzazioni – trasformata in una scuola professionale di ristorazione che, insieme ad altre attività circostanti, è tornata a essere il cuore di Valdobbiadene come un tempo. Fratello di Mario, mister Geox, Giancarlo avrebbe dovuto essere l’uomo dei conti della famiglia, una dinastia da sempre produttrice di vini di alta qualità. Sessantadue anni, sposato con Augusta Pavan, ex modella che ha calcato le passerelle in giro per il mondo, è padre di Diva Maddalena (il nonno si chiamava Divo) e Leonardo, anche loro impegnati nell’azienda di famiglia. Il suo quartier generale è Villa Sandi, dimora palladiana che risale al 1622, acquistata negli anni Ottanta, alle pendici del Montello, zona della Prima guerra mondiale. Nei sotterranei si trovarono lunghe gallerie, ora riciclate come cantine per la maturazione dei rossi pregiati. Ci incontriamo nella sede della scuola Dieffe, frequentata da 250 studenti. Dei quali Polegato ha scritto: «Vedere così tanti di voi passare dai timidi sorrisi e un po’ d’incertezza iniziale a via via maggiore sicurezza e più larghi sorrisi, impegnati e seri nel percorso di formazione intrapreso, è stata per me la più grande e bella delle gratificazioni».

Mi fa un suo identikit in poche parole?

«Sono uno dei tanti imprenditori del Nordest che lavora con passione credendo nei propri collaboratori. Il primo patrimonio di un’azienda sono le sue risorse umane. Io m’impegno a essere la cabina di regia delle varie attività, razionalizzando investimenti, produzioni e acquisizioni nelle diverse tenute».

Attività che le stanno dando soddisfazioni, mi pare.

«Non mi lamento. Con 106 dipendenti e 26 milioni di bottiglie l’anno nei diversi marchi, Villa Sandi è una delle maggiori cantine italiane, prima per export della provincia di Treviso. Negli ultimi cinque anni abbiamo raddoppiato il fatturato, sfiorando i 100 milioni. Le nostre produzioni sono presenti in 104 paesi, il Cartizze “Vigna La Rivetta” ha conquistato i Tre bicchieri del Gambero rosso. Ma il riconoscimento cui tengo maggiormente è la fedeltà dei nostri clienti».

È figlio d’arte.

«Mio padre ha sempre avuto la passione del vino. Purtroppo è morto in un incidente stradale quando avevo vent’anni. Nelle sue intenzioni il vignaiolo doveva essere mio fratello, iscritto alla scuola enologica di Conegliano, mentre io ho studiato ragioneria e avrei dovuto occuparmi dell’amministrazione. Poi, quando mio fratello ha avuto l’idea della suola traspirante con la quale ha creato uno dei marchi calzaturieri più affermati nel mondo, la nostra storia è cambiata».

Siete cresciuti con vostra madre.

«È stata il nostro unico punto di riferimento. Veniva in azienda tutti i giorni anche negli ultimi tempi, prima di morire, un anno fa. È sempre stata partecipe delle nostre scelte e ci stimolava continuamente. Perciò abbiamo voluto aggiungere il suo cognome e chiamarci Moretti Polegato».

Avete deciso con lei di acquisire Villa Sandi?

«Era già un sogno di mio padre. Vivevamo lì vicino e guardandola facendo progetti. Dopo la sua morte, nel 1979, con la spinta di mia madre l’abbiamo acquistata da una famiglia romana, ma abbiamo preferito darle il nome dell’architetto costruttore. Era tradizione dei nobili veneziani edificare nell’entroterra. L’abbiamo restaurata, ristrutturata e aperta al pubblico, sicuri che anche dopo quattro secoli potesse esercitare il suo fascino. Coniugando mondo del vino e paesaggio, arte e storia, le abbiamo dato appeal turistico, creando un circuito di ospitalità con percorsi e due locande. Ogni anno arrivano 20.000 visitatori, anche americani e giapponesi, molti dei quali vengono anche qui alla scuola, curiosi di vedere i segreti dei prodotti locali. Anche i sotterranei, 1,5 chilometri di gallerie, usate durante la guerra sul Piave, rientrano nella visita».

Erano rifugi bellici e depositi di munizioni?

«E sono diventati suggestive cantine, ideali per la maturazione dello spumante classico e dei rossi che chiedono un invecchiamento fino a cinque o sette anni. La villa e le colline appartengono al comprensorio che nel luglio scorso è stato proclamato patrimonio dell’Unesco. Un riconoscimento che, oltre a darci visibilità internazionale, ci carica di responsabilità».

Il prosecco ha ottenuto riconoscimenti, ma anche critiche per l’invadenza sul territorio e l’uso di sostanze chimiche nocive. In che modo le vostre coltivazioni rispondono alle esigenze di sostenibilità ambientale?

«Vino uguale turismo come territorio uguale turismo. Il rispetto dell’ambiente è un fatto di cultura, una forma di riconoscenza verso una terra che ci ha dato tanta ricchezza e opportunità. Gran parte dei 160 ettari che possediamo tra Veneto e Friuli è certificata con il marchio “biodiversity friend”. Non usiamo diserbanti e pesticidi. I vigneti sono vicini alle case, immersi nei centri abitati: è giusto essere molto rigorosi. Questo è il fronte su cui siamo più impegnati. I commissari certificano periodicamente il rispetto dei parametri di agricoltura sostenibile, l’attenzione alle risorse idriche, l’utilizzo di energie rinnovabili, il mantenimento di aree a bosco e siepi per la salvaguardia dell’habitat adatto alle specie animali. C’è un dialogo continuo e serrato tra i consorzi di tutela ambientale e i coltivatori».

Tanto più ora che si insiste a parlare di green economy.

«Proprio perché quest’area ha avuto un grande sviluppo negli ultimi dieci anni è stata messa sotto il microscopio. Con 560 milioni di bottiglie all’anno nei vari segmenti Doc, Docg e Cartizze, il consorzio del Prosecco è il primo in Italia. Le nostre bollicine hanno conosciuto un grande boom nel mondo, il 70% viene distribuito all’estero, dal Sudamerica all’Australia. Ma Prosecco è il territorio che dà il nome al vino, come il Chianti o lo Champagne, mentre l’uva si chiama glera. Il territorio non si può espandere, si può solo difendere e tutelare. Sono sicuro che le giovani generazioni ci aiuteranno a essere più attenti alle esigenze della sostenibilità».

Lei sottolinea questo binomio tra produzione vinicola e paesaggio perché ritiene che insieme in futuro possano incrementare la loro attrattiva turistica?

«Ne sono convinto. L’obiettivo è creare un turismo che vada oltre il mordi e fuggi. In California gli americani sono riusciti a creare dei flussi di visitatori legati alle degustazioni. L’economia turistica alimentata dal vino è tutta da promuovere. Credo che anche la Regione Veneto abbia questo interesse. Tanto più che dispone di un pacchetto di offerte di grande appeal internazionale, da Venezia all’Arena di Verona, dalle Dolomiti al Lago di Garda. Nel febbraio 2021 a Cortina ci saranno i Campionati del mondo di sci, prova generale delle Olimpiadi del 2026. Ma bisogna rimboccarsi le maniche».

Come, per esempio?

«Io posso parlare per il nostro territorio. Credo che dobbiamo potenziare le infrastrutture dell’ospitalità. Forse non servono grandi interventi, ma possiamo migliorare la rete viaria, creare piste ciclabili, recuperare casali e rustici, rendere più moderni ristoranti, locande e agriturismi dotandoli di tutti i comfort».

Lei si è portato avanti con il recupero di questa vecchia fabbrica?

«L’ex filanda Piva è sempre stata il cuore vitale di tutto il paese dal quale tanti emigranti erano partiti per l’estero. Era l’unica grande fabbrica rimasta. Prima del boom del Prosecco, con 1200 operai alimentava l’economia di Valdobbiadene. Come altri calzifici, in seguito alle delocalizzazioni, è stata chiusa a fine anni Novanta. Noi l’abbiamo acquistata nel Duemila dai proprietari di Golden lady. C’erano ancora le lire, paragonate all’oggi, tra acquisto e restauro, abbiamo investito 5 o 6 miliardi per riqualificare tutta l’area, ristrutturando la viabilità con parcheggio, supermercato, locanda, sede della Confartigianato e questa magnifica scuola».

Un progetto molto ambizioso.

«Ci avevano proposto di fare un centro sportivo con palestre e scuola di ballo. Ci ho pensato: un imprenditore fa i suoi calcoli… non avrei avuto contributi per la scuola professionale… Ma, poco alla volta, anche confrontandomi con i ristoratori della zona e con il preside, Alberto Raffaelli, mi sono appassionato. Il successo di queste zone lo dobbiamo al vino: creare una sinergia con una scuola che formerà cuochi e ristoratori era la cosa giusta da fare. Forse, se non fossi stato un imprenditore del settore, non avrei capito».

Com’è stata accolta questa operazione dalla popolazione locale?

«Molto bene perché, come dicevo, abbiamo recuperato un’area industriale con la sua storia, finalizzandola a qualcosa di utile per tutta la zona. La scuola è valore aggiunto. Questi ragazzi saranno ambasciatori della nostra cucina legata alla terra e alle eccellenze locali là dove andranno a lavorare. E già cominciano a esserlo con i premi che vincono ai vari concorsi gastronomici».

Ha altri progetti in serbo?

«No. Abbiamo appena acquistato Borgo Conventi, un vigneto nel Collio, per produrre del vino fermo. È un’area paragonabile a questa, un colle nel goriziano, al confine con la Slovenia, dove nascono eccellenti vini, Malvasia, Picolit, Ribolla, Sauvignon, Cabernet, vari tipi di Pinot… È un investimento che completa la nostra offerta di bollicine. Anche lì incentiveremo le visite alla cantina, creeremo una locanda per l’ospitalità. C’è tanto da lavorare…».

 

La Verità, 1 dicembre 2019

«Il prosecco insegna che le crisi sono opportunità»

Un romanzo profetico, con un titolo sorridente e brioso come le bollicine. Era il 2008 quando Fulvio Ervas, 64enne scrittore trevigiano, iniziò a scrivere Finché c’è prosecco c’è speranza (Marcos y Marcos), giallo a sfondo verde approdato al cinema con Giuseppe Battiston nei panni del commissario Stucky. Da allora quel titolo è diventato un augurio nei brindisi di tante feste di famiglia. Faccia schietta e sguardo luminoso come un calice di cartizze, raggiungo Ervas in vacanza in Spagna, ospite di sua figlia.

Buongiorno Ervas, ha brindato per la promozione delle colline di Valdobbiadene a patrimonio dell’umanità?

«No, l’ho saputo di mattina ed era presto anche per lo spritz. Certo, la notizia non mi ha sorpreso: c’è stato un grande lavorio delle istituzioni e dei produttori per il riconoscimento che avrà conseguenze economiche. È un riconoscimento ad alto contenuto simbolico: per qualcuno è un premio al lavoro e all’ingegno, per altri è un incentivo agli inquinatori e agli sfruttatori del territorio. Può diventare un dibattito interessante sulla gestione ambientale nella nostra regione».

Anche per l’Unesco Finché c’è prosecco c’è speranza?

«Quando ho iniziato a scrivere il libro, nel 2008, stavamo entrando nel pieno della crisi economica. Eppure c’era, nel Veneto, una produzione che cresceva a due cifre, come la Cina, ed era quella del prosecco. Il titolo nasce dalla suggestione, e dalla convinzione, che anche le crisi sono opportunità. Che si può uscirne, bisogna però avere delle strategie. E, tra tutte le critiche che si possono fare ai “proseccari”, quella di non avere strategie è improponibile».

Parlando di critiche, concorda con quella di Camillo Langone che sul Foglio ha sottolineato l’eccessiva espansione del prosecco, indice di «femminilizzazione del gusto»?

«Non saprei, sono più preoccupato per la depilazione maschile, anche se ognuno è libero di fare ciò che ritiene decente. Immagino che Langone sarebbe più felice se tutti bevessimo raboso Piave, aspro e acido come lo faceva mio padre. Però era un Veneto da cui ci siamo spostati, e qualche motivo ci sarà. Non mi convincono queste etichettature. Lo champagne rende i francesi delle donnette?».

Pochi giorni prima della decisione dell’Unesco sulle colline del prosecco c’era stata anche la vittoria dell’abbinata Milano-Cortina d’Ampezzo per le Olimpiadi invernali del 2026. Il Nordest torna a essere locomotiva come si diceva un paio di decenni fa?

«Nel Nordest, dal Mose alla Pedemontana, ci sono opere faraoniche, tra le più grandi in Italia. Fatte sempre bene? Mah. Impattanti? Molto. Siamo uno snodo logistico importante, un’economia che regge. Ma che ha esigenze potenti, non sempre ben governate. Potremmo e dovremmo fare meglio. Ma vivere a Nordest è un po’ come stare dentro un vulcano. L’idea che non si dovrebbe cambiare nulla è inattuabile. Mi piacerebbe un po’ di spirito svedese-danese».

Che cosa non le piace di questo sistema socio-economico?

«Non c’è visione. La velocità che ha assunto questa fase economica e sociale è tale che non riusciamo a vedere la direzione del movimento. È come viaggiare su un super treno che fa sfrecciare immagini che non non riusciamo a decodificare».

Quindi non è soddisfatto della qualità della vita del Veneto? Spesso Treviso risulta ai primi posti delle classifiche nazionali.

«Mi piace Treviso, mi piace la sua morfologia, le acque, una certa dolcezza generale. Ho insegnato per molti anni a Mestre e la bruttezza urbanistica era, però, in parte bilanciata da una certa vivacità, anche caratteriale. Mi piacerebbe una Treviso più frizzante».

Il titolo del suo libro più famoso è un auspicio, ma si apre con quello che sembra un suicidio: il vino e la terra possono anche causare morte e rovina?

«Il vino ha una storia anche simbolica e culturale. Vino e birra si contendono storie e territori diversi, anche se oggi li troviamo assieme nei bar.  Il prosecco, è innegabile, muove grandi interessi, produce un effetto antropico molto forte sul territorio. Quindi è una sorta di faglia sismica che può generare anche conseguenze negative. Il segreto è minimizzarle. Cioè far sì che si producano più benefici, non solo economici ma di comunità, che malefici».

Che cosa significa per il Veneto questa elezione delle colline trevigiane a Patrimonio dell’umanità?

«Simbolicamente è una vittoria: è la promozione ad un esame di Stato per il quale molto ci si è preparati. Abbiamo preso un voto attendibile? È stata una buffonata, come dicono i critici? Se questa promozione verrà vissuta come l’occasione solo per fare cassa vorrà dire che siamo dei ragionieri. Se invece sarà l’occasione per fare del legittimo profitto e anche per consolidare processi di salvaguardia e sostenibilità, sarà un esame superato a pieni voti. Siamo qui per testimoniare».

È una vittoria della cultura e della tradizione locale?

«Sicuramente è la vittoria di una capacità imprenditoriale e organizzativa molto netta.  Non sono sicuro che nasca da un’idea culturale o da una specifica tradizione locale. Non vedo una particolare cultura del vino e della vite, quanto piuttosto un’abilità nella coltivazione: il merito della tradizione locale è aver saputo coltivare in condizioni morfologiche speciali. Sono attitudini indispensabili, senza le quali non si raggiunge alcun risultato. Dietro a tutto questo, più che tradizione e cultura, ci sono soprattutto scienza e ricerca. Ci sono le scuole di enologia, abilità lavorativa, capacità di promuovere un prodotto e di fare squadra, condizione non comunissima nel Veneto».

È la conferma che una specificità locale può avere ambizioni internazionali e mondiali? E che la globalizzazione va temperata?

«Sono convinto che sia una vittoria quando il prodotto di un territorio conquista un segmento di mercato importante. E che una volta entrato nel flusso oceanico del mercato le correnti possano davvero portarlo ovunque. Questa facilità di flusso dei mercati mondiali, che chiamiamo globalizzazione, ha giovato al prosecco. Se poi, entrasse con rilevanza nel mercato cinese, gli gioverebbe ancora di più. Non possiamo essere antiglobalizzatori con le merci degli altri e globalizzatori con le nostre».

Ha detto che per questa terra servono «pennelli da pittori non caterpillar che distruggono». Servono anche penne da scrittori: com’è nata l’idea di trarre un libro dalla cultura del prosecco?

«L’idea del libro nasce dal fatto che, da agronomo, ero colpito dalla sfida tra la monocultura e la bellezza del luogo. Se si riescono a tenere armonicamente assieme due forze eterogenee allora significa che si è imparato molto e che si vuole durare nel tempo.  Oltre all’ispettore Stucky, il protagonista del romanzo è il conte Ancillotto, un vignaiolo che, guidato dal motto “meglio meno ma meglio”, ama la terra come si ama una donna, con ardore e delicatezza. Nel 2008 ho provato a raccontare la passione per il vino, la bellezza delle colline, i suoi incanti, e anche gli effetti di alterazione che un’attività umana invasiva può produrre. Sono attratto dal raccontare luoghi e storie in cui ci sono processi in movimento. La promozione dell’Unesco è una tappa di questo processo. Soddisfa molte coscienze e ne agita altre, ma pone anche delle sfide. Non è un premio in denaro, ma una responsabilità».

Il protagonista dei suoi romanzi è l’ispettore Stucky, ma i suoi sono gialli per indagare sul territorio e le sue incongruenze.

«Sono innamorato di questo Veneto. Ma se fossi nato in Calabria sarei innamorato del suo territorio. Rispetto la terra che mi nutre.  Per questo ho scelto, nel filone poliziesco, di creare romanzi attorno a delitti e casi ambientali. In Italia i crimini più gravi sono ambientali. E solo degli imbecilli bucano la barca, cioè l’ambiente, su cui stanno navigando».

Come divide la sua attività di professore e scrittore?

«Prima di tutto viene la scuola, nel tempo libero scrivo. Ancora mi diverto a insegnare. E spero di avere una qualche utilità, non solo nel formare una conoscenza scientifica, fragile in Italia. Ma anche nel convincere le nuove generazioni che l’insegnante può essere uno strumento e un’opportunità significativa per crescere».

Dieci anni fa la professione di insegnante le ispirò il romanzo Follia docente. Che cosa è più folle nella scuola di oggi?

«È troppo distante dal mondo. Trovo che i modelli di trasmissione delle informazioni, le modalità didattiche e molti contenuti siano troppo statici e che nell’epoca della crisi degli enti di mediazione – famiglia, Stato, Chiesa – la scuola non riesca a stare al passo con le nuove richieste di formazione».

Commesse di Treviso, il primo giallo scritto a quattro mani con sua sorella, uscì nel 2005 quando lei aveva già 50 anni: prima a che cosa si dedicava?

«All’orto. Come adesso».

Come ha cominciato a scrivere? Che cosa le ha aperto questa vocazione adulta?

«Leggo molto, soprattutto saggi scientifici. Avevo molte cose nella testa da scaricare. In realtà i miei romanzi sono riassunti, semplificati, di saggi scientifici».

Chi sono i suoi autori di riferimento?

«Come giallista, Fred Vargas».

Il suo prossimo libro?

«Un libro per ragazzi, in autunno».

Se, visto che ha portato fortuna, dopo la speranza legata al prosecco dovesse formulare un nuovo auspicio, cosa suggerirebbe? 

«Finché rispettiamo l’ambiente c’è speranza».

La Verità, 14 luglio 2019