«Il prosecco insegna che le crisi sono opportunità»
Un romanzo profetico, con un titolo sorridente e brioso come le bollicine. Era il 2008 quando Fulvio Ervas, 64enne scrittore trevigiano, iniziò a scrivere Finché c’è prosecco c’è speranza (Marcos y Marcos), giallo a sfondo verde approdato al cinema con Giuseppe Battiston nei panni del commissario Stucky. Da allora quel titolo è diventato un augurio nei brindisi di tante feste di famiglia. Faccia schietta e sguardo luminoso come un calice di cartizze, raggiungo Ervas in vacanza in Spagna, ospite di sua figlia.
Buongiorno Ervas, ha brindato per la promozione delle colline di Valdobbiadene a patrimonio dell’umanità?
«No, l’ho saputo di mattina ed era presto anche per lo spritz. Certo, la notizia non mi ha sorpreso: c’è stato un grande lavorio delle istituzioni e dei produttori per il riconoscimento che avrà conseguenze economiche. È un riconoscimento ad alto contenuto simbolico: per qualcuno è un premio al lavoro e all’ingegno, per altri è un incentivo agli inquinatori e agli sfruttatori del territorio. Può diventare un dibattito interessante sulla gestione ambientale nella nostra regione».
Anche per l’Unesco Finché c’è prosecco c’è speranza?
«Quando ho iniziato a scrivere il libro, nel 2008, stavamo entrando nel pieno della crisi economica. Eppure c’era, nel Veneto, una produzione che cresceva a due cifre, come la Cina, ed era quella del prosecco. Il titolo nasce dalla suggestione, e dalla convinzione, che anche le crisi sono opportunità. Che si può uscirne, bisogna però avere delle strategie. E, tra tutte le critiche che si possono fare ai “proseccari”, quella di non avere strategie è improponibile».
Parlando di critiche, concorda con quella di Camillo Langone che sul Foglio ha sottolineato l’eccessiva espansione del prosecco, indice di «femminilizzazione del gusto»?
«Non saprei, sono più preoccupato per la depilazione maschile, anche se ognuno è libero di fare ciò che ritiene decente. Immagino che Langone sarebbe più felice se tutti bevessimo raboso Piave, aspro e acido come lo faceva mio padre. Però era un Veneto da cui ci siamo spostati, e qualche motivo ci sarà. Non mi convincono queste etichettature. Lo champagne rende i francesi delle donnette?».
Pochi giorni prima della decisione dell’Unesco sulle colline del prosecco c’era stata anche la vittoria dell’abbinata Milano-Cortina d’Ampezzo per le Olimpiadi invernali del 2026. Il Nordest torna a essere locomotiva come si diceva un paio di decenni fa?
«Nel Nordest, dal Mose alla Pedemontana, ci sono opere faraoniche, tra le più grandi in Italia. Fatte sempre bene? Mah. Impattanti? Molto. Siamo uno snodo logistico importante, un’economia che regge. Ma che ha esigenze potenti, non sempre ben governate. Potremmo e dovremmo fare meglio. Ma vivere a Nordest è un po’ come stare dentro un vulcano. L’idea che non si dovrebbe cambiare nulla è inattuabile. Mi piacerebbe un po’ di spirito svedese-danese».
Che cosa non le piace di questo sistema socio-economico?
«Non c’è visione. La velocità che ha assunto questa fase economica e sociale è tale che non riusciamo a vedere la direzione del movimento. È come viaggiare su un super treno che fa sfrecciare immagini che non non riusciamo a decodificare».
Quindi non è soddisfatto della qualità della vita del Veneto? Spesso Treviso risulta ai primi posti delle classifiche nazionali.
«Mi piace Treviso, mi piace la sua morfologia, le acque, una certa dolcezza generale. Ho insegnato per molti anni a Mestre e la bruttezza urbanistica era, però, in parte bilanciata da una certa vivacità, anche caratteriale. Mi piacerebbe una Treviso più frizzante».
Il titolo del suo libro più famoso è un auspicio, ma si apre con quello che sembra un suicidio: il vino e la terra possono anche causare morte e rovina?
«Il vino ha una storia anche simbolica e culturale. Vino e birra si contendono storie e territori diversi, anche se oggi li troviamo assieme nei bar. Il prosecco, è innegabile, muove grandi interessi, produce un effetto antropico molto forte sul territorio. Quindi è una sorta di faglia sismica che può generare anche conseguenze negative. Il segreto è minimizzarle. Cioè far sì che si producano più benefici, non solo economici ma di comunità, che malefici».
Che cosa significa per il Veneto questa elezione delle colline trevigiane a Patrimonio dell’umanità?
«Simbolicamente è una vittoria: è la promozione ad un esame di Stato per il quale molto ci si è preparati. Abbiamo preso un voto attendibile? È stata una buffonata, come dicono i critici? Se questa promozione verrà vissuta come l’occasione solo per fare cassa vorrà dire che siamo dei ragionieri. Se invece sarà l’occasione per fare del legittimo profitto e anche per consolidare processi di salvaguardia e sostenibilità, sarà un esame superato a pieni voti. Siamo qui per testimoniare».
È una vittoria della cultura e della tradizione locale?
«Sicuramente è la vittoria di una capacità imprenditoriale e organizzativa molto netta. Non sono sicuro che nasca da un’idea culturale o da una specifica tradizione locale. Non vedo una particolare cultura del vino e della vite, quanto piuttosto un’abilità nella coltivazione: il merito della tradizione locale è aver saputo coltivare in condizioni morfologiche speciali. Sono attitudini indispensabili, senza le quali non si raggiunge alcun risultato. Dietro a tutto questo, più che tradizione e cultura, ci sono soprattutto scienza e ricerca. Ci sono le scuole di enologia, abilità lavorativa, capacità di promuovere un prodotto e di fare squadra, condizione non comunissima nel Veneto».
È la conferma che una specificità locale può avere ambizioni internazionali e mondiali? E che la globalizzazione va temperata?
«Sono convinto che sia una vittoria quando il prodotto di un territorio conquista un segmento di mercato importante. E che una volta entrato nel flusso oceanico del mercato le correnti possano davvero portarlo ovunque. Questa facilità di flusso dei mercati mondiali, che chiamiamo globalizzazione, ha giovato al prosecco. Se poi, entrasse con rilevanza nel mercato cinese, gli gioverebbe ancora di più. Non possiamo essere antiglobalizzatori con le merci degli altri e globalizzatori con le nostre».
Ha detto che per questa terra servono «pennelli da pittori non caterpillar che distruggono». Servono anche penne da scrittori: com’è nata l’idea di trarre un libro dalla cultura del prosecco?
«L’idea del libro nasce dal fatto che, da agronomo, ero colpito dalla sfida tra la monocultura e la bellezza del luogo. Se si riescono a tenere armonicamente assieme due forze eterogenee allora significa che si è imparato molto e che si vuole durare nel tempo. Oltre all’ispettore Stucky, il protagonista del romanzo è il conte Ancillotto, un vignaiolo che, guidato dal motto “meglio meno ma meglio”, ama la terra come si ama una donna, con ardore e delicatezza. Nel 2008 ho provato a raccontare la passione per il vino, la bellezza delle colline, i suoi incanti, e anche gli effetti di alterazione che un’attività umana invasiva può produrre. Sono attratto dal raccontare luoghi e storie in cui ci sono processi in movimento. La promozione dell’Unesco è una tappa di questo processo. Soddisfa molte coscienze e ne agita altre, ma pone anche delle sfide. Non è un premio in denaro, ma una responsabilità».
Il protagonista dei suoi romanzi è l’ispettore Stucky, ma i suoi sono gialli per indagare sul territorio e le sue incongruenze.
«Sono innamorato di questo Veneto. Ma se fossi nato in Calabria sarei innamorato del suo territorio. Rispetto la terra che mi nutre. Per questo ho scelto, nel filone poliziesco, di creare romanzi attorno a delitti e casi ambientali. In Italia i crimini più gravi sono ambientali. E solo degli imbecilli bucano la barca, cioè l’ambiente, su cui stanno navigando».
Come divide la sua attività di professore e scrittore?
«Prima di tutto viene la scuola, nel tempo libero scrivo. Ancora mi diverto a insegnare. E spero di avere una qualche utilità, non solo nel formare una conoscenza scientifica, fragile in Italia. Ma anche nel convincere le nuove generazioni che l’insegnante può essere uno strumento e un’opportunità significativa per crescere».
Dieci anni fa la professione di insegnante le ispirò il romanzo Follia docente. Che cosa è più folle nella scuola di oggi?
«È troppo distante dal mondo. Trovo che i modelli di trasmissione delle informazioni, le modalità didattiche e molti contenuti siano troppo statici e che nell’epoca della crisi degli enti di mediazione – famiglia, Stato, Chiesa – la scuola non riesca a stare al passo con le nuove richieste di formazione».
Commesse di Treviso, il primo giallo scritto a quattro mani con sua sorella, uscì nel 2005 quando lei aveva già 50 anni: prima a che cosa si dedicava?
«All’orto. Come adesso».
Come ha cominciato a scrivere? Che cosa le ha aperto questa vocazione adulta?
«Leggo molto, soprattutto saggi scientifici. Avevo molte cose nella testa da scaricare. In realtà i miei romanzi sono riassunti, semplificati, di saggi scientifici».
Chi sono i suoi autori di riferimento?
«Come giallista, Fred Vargas».
Il suo prossimo libro?
«Un libro per ragazzi, in autunno».
Se, visto che ha portato fortuna, dopo la speranza legata al prosecco dovesse formulare un nuovo auspicio, cosa suggerirebbe?
«Finché rispettiamo l’ambiente c’è speranza».
La Verità, 14 luglio 2019