«Il movimento dei Kirk è molto più del Maga»

Assuntina Morresi è docente di Chimica Fisica all’università di Perugia e vice capo di gabinetto del ministero per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità. Dopo aver assistito alla cerimonia per la morte di Kirk, ha scritto un articolo per Il Timone, intitolato: «Dal memorial di Charlie al risveglio cristiano di una generazione».
Che legame ci può essere fra quei funerali e una possibile rinascita religiosa?

«C’è un legame di partecipazione e di istanze ideali. I ragazzi che partecipavano agli incontri con Charlie Kirk cercavano un dialogo vero, facevano la fila per arrivare davanti al suo tavolino. Non erano ragazzi ideologici… Vedendoli, mi sono tornate alla mente le assemblee in università della fine degli anni Settanta e degli anni Ottanta quando ci interrogavamo su tutto. Ho rivisto l’esperienza fatta in Comunione e liberazione. Ho risentito quella tensione. Allora non c’era la rete, oggi c’è. Ma nel movimento di Kirk i confronti avvengono in presenza».

Lei ha scritto che il Tpusa (Turning point Usa) «è molto più del Maga» (Make american great again), in Italia si pensa che sia un braccio elettorale di Trump.
«Invece il Turning point è nato nel 2012, Kirk aveva 18 anni. È attecchito e cresciuto nelle università e nelle scuole prima e a prescindere da Trump. I Maga non nascono nelle università e nelle scuole. Trump arriva dopo, quando diventa portavoce di un popolo che non aveva rappresentanza politica. Anche Elegia americana di JD Vance è stato scritto prima. Ed è stato Kirk a segnalare Vance a Trump. Kirk non ha avuto cariche né nell’amministrazione né nei Maga. Il reverendo Rob McCoy, che ha parlato alla cerimonia in quanto pastore di Kirk, non fa parte del cartello Maga. Trump, che non è legato a nessun pastore, rappresenta l’America profonda, non necessariamente le comunità religiose».
Lei ci ha visto un’analogia con Silvio Berlusconi.
«Berlusconi non rappresentava un’esperienza religiosa, l’ha intercettata a un certo punto. Così Trump rappresenta un’istanza ideale anche tramite l’esperienza di Kirk. I ragazzi del Turning point continuerebbero a esistere anche se Trump perdesse. Ai funerali Gesù e la Bibbia sono stati nominati molto più di Trump».

Che cosa l’ha colpita della cerimonia?

«La partecipazione alla preghiera, prima ancora che alla cerimonia. Mi sono collegata prima che iniziasse e ho ascoltato tre ore di canzoni e inni religiosi. Le persone cantavano con le braccia alzate».

Che cosa le ha trasmesso la testimonianza della moglie?

«Mi hanno colpito due fatti. Il primo è che chiaramente non c’entrava con Trump. Quando ha detto che perdonava l’assassino di suo marito perché Gesù ha perdonato e perché anche Charlie l’avrebbe fatto, Trump ha detto, rivolto a lei: “Tu li perdoni, ma io li odio i miei oppositori”. Però l’ha detto scusandosi: “Mi dispiace”. Questo, secondo me, marca una differenza importante. Perché, in un certo senso, ha fatto capire che la posizione di lei era più evoluta».

E il secondo fatto?

«Perdonando l’assassino di suo marito, Erika, di formazione cattolica, ha assunto un ruolo guida nel movimento. Le è stata riconosciuta una leadership. È come se, in qualche modo, il perdono si proponga come testimonianza di comunione fra confessioni diverse. Molto più di tante formule pensate a tavolino, ecumenismi e sinodalità varie. Erika ha detto che Charlie voleva salvare i giovani come quello che l’ha ucciso».

Perché sono convinti che la loro fede contenga la salvezza per tutti?

«Perché vivono integralmente la fede. Il loro punto di riferimento non è il partito, ma l’esperienza religiosa. Dio patria e famiglia lo hanno vissuto, e lo stanno tuttora testimoniando, nel loro matrimonio. Questo vale anche per Marco Rubio e JD Vance».

Perché le nostre gerarchie hanno mantenuto grande distacco, quasi un imbarazzo, davanti a questo fenomeno e alla testimonianza di Erika Kirk?

«Bisognerebbe chiederlo a loro. Forse non l’hanno capito, forse hanno dato una lettura iniziale troppo politica e, in quel caso, sono state spiazzate da qualcosa di molto diverso. Qualcosa di fronte a cui c’è solo da alzarsi in piedi, grati».

La seconda smentita, oltre a quella che riguarda la riduzione del Tpusa a una sezione Maga, è che la testimonianza della vedova ridimensiona le accuse di fascismo e razzismo?
«Non ho visto niente del genere in quella cerimonia. Dove sono fascismo e razzismo? È chiaro che con i Maga ci sono interazioni, e ci sono diverse anime tra loro. Ma Tpusa non è un braccio armato, un collateralismo elettorale. La fede di quei ragazzi ha determinato la loro presenza nell’agorà pubblica. Dopo la morte di Kirk sono andati in chiesa».
Lei ha tracciato un parallelo tra il movimento di Kirk e Comunione e liberazione nelle università degli anni Settanta. 

«Entrambi mettono Cristo al centro. Negli anni Settanta Cl voleva fare la messa di Pasqua nell’orario scolastico e non fuori. Adesso non sarebbe possibile. Chiedeva le aule universitarie per gli incontri di catechesi perché diceva che Cristo c’entrava con la vita quotidiana e con lo studio. Non c’erano i Maga quando Kirk ha fatto i Turning point, non c’era Berlusconi quando è nata Cl».

Un altro parallelo riguarda il contesto di violenza. Si è detto che il clima di odio di oggi è paragonabile a quello che portò all’esplosione del terrorismo, mentre ora vediamo frange manifestare in modo violento, in particolare per il popolo palestinese.
«Le analogie ci sono e riguardano la piena agibilità agli spazi democratici. Mi chiedo che cosa accadrebbe se si volessero promuovere in alcune università dibattiti e confronti davvero liberi sull’aborto, il tema transgender e Israele. Provate a mettere un banchetto di libri con una bandiera di Israele in università…».

Il patriarca di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, ha detto che per vincere l’odio serve una nuova narrativa. La religione può esserlo?
«Per accogliere l’altro devi essere certo anche di te stesso, devi avere una tua ipotesi. La sfida di Israele è la più vertiginosa perché quella è una guerra di religione. Di una religione come quella islamica degenerata in ideologia che ha alimentato il terrorismo».

Fra l’islamismo e l’ebraismo, il cristianesimo è l’unica religione che può testimoniare la misericordia?

«La misericordia tiene conto della verità dei fatti, non li minimizza.  prescinde dalle responsabilità o le nasconde. La vedova di Kirk ha parlato dell’assassino di suo marito. Il perdono non è buonismo, ma è consapevole di chi è l’aggressore e chi l’aggredito. Israele ha vissuto in una continua minaccia di aggressione. Sono d’accordo con Pizzaballa, serve una postura diversa: quella dei francescani in Terra santa fa sì che intorno a loro non si combatta».

In un’intervista alla Verità, Carlo Freccero ha detto che sogna di vedere Leone XIV andare a Gaza a sporcare di sangue la sua veste bianca.

«Io sogno invece la libertà per i cristiani nei Paesi islamici. Libertà di espressione anche per chi non è musulmano. Sarebbe un primo vero passo verso la pace. Lasciate i cristiani liberi di esserlo, senza rinchiuderli nella parrocchietta. Questo sarebbe il vero inizio di una narrativa diversa. Lasciare che Charlie metta il tavolino del Turning point anche in quei paesi».

 

 

La Verità, 26 settembre 2025

«Il Papa a Gaza? Ascolterà lo Spirito Santo»

Teologo, già stretto collaboratore di Joseph Ratzinger nella Congregazione per la dottrina della fede e poi durante il suo pontificato, don Nicola Bux conserva autorevolezza e lucidità di giudizio di quella stagione. Ieri ha letto l’intervista alla Verità nella quale Carlo Freccero racconta il suo sogno di vedere papa Leone XIV andare a Gaza a sporcare la sua veste bianca con il sangue della guerra.
Don Nicola, anche lei è un sognatore?
«Ho letto e sono ammirato di quanto Freccero ha espresso con singolare profondità, individuando il nodo della vicenda che credo sia non appena di Gaza, ma del mondo intero perché quello che accade lì è, in un certo senso, emblematico di ciò che accade nel mondo. Condivido soprattutto la convinzione di Freccero per il quale una nuova narrativa possa venire dalla religione».
Che cosa le fa venire in mente l’immagine del Papa pellegrino disarmato a Gaza?
«Mi ricorda il bombardamento di Roma del 19 luglio 1943 e le macerie del quartiere di San Lorenzo dove Pio XII si recò per portare consolazione alla popolazione. E mi ricorda anche Giovanni Paolo II che si recò a Sarajevo. Diciamo che entrambi gli episodi giustificano in qualche maniera il sogno di Freccero».
Al fianco di Pio XII c’era un giovane Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI. La Chiesa sta dove il popolo è sofferente?

«Questo è il suo statuto fondativo. La parrocchia di Gaza è retta da don Gabriel Romanelli che appartiene all’istituto del Verbo incarnato. Questo istituto è famoso per stare nelle situazioni più emarginate del mondo. La parrocchia riunisce anche la presenza dei cristiani ortodossi. Don Romanelli ha ribadito che loro non si muoveranno da lì».
L’immagine di papa Pacelli con le braccia allargate tra la gente di Roma è rimasta nella storia.
«È così, certo. Tuttavia, all’indomani della sua elezione, nella messa in Cappella sistina con i cardinali, papa Leone XIV ha detto che “noi dobbiamo sparire perché Cristo rimanga”. Un’espressione molto importante. Che ci deve far riflettere perché purtroppo, nell’attuale sensibilità mediatica, una visita del Papa, qualsiasi Papa, avrebbe un forte impatto mediatico, ma potrebbe avere anche un contrappeso negativo, di appagamento dello spettacolo».
Freccero non la immaginava con questa inclinazione.
«
No, anzi. Ammiro la sua idea perché egli stesso ha detto che sarebbe espressiva di una religione che si fa carico del dolore dell’umanità a differenza delle altre due religioni, l’ebraica e l’islamica, incapaci di usare la misericordia perché prigioniere della legge del taglione, occhio per occhio, dente per dente. Dicendo che si è dimenticato il comandamento “non uccidere”, papa Leone ha voluto richiamare la radice della guerra. Non dobbiamo avere paura a dire che questa radice si chiama peccato. Quando Freccero dice che la religione cristiana ha conservato una integrità dovrebbe includere che bisogna avere il coraggio di dire che la causa prima delle guerre, degli omicidi e delle violenze si chiama peccato. Proprio papa Pio XII diceva che “il peccato più grande nel mondo d’oggi consiste nel fatto che gli uomini hanno cominciato a perdere il senso del peccato”».
Che immagine sarebbe quella di papa Leone XIV tra le macerie di Gaza?
«Sarebbe l’immagine replicata di Cristo presente nel mondo e nell’umanità sofferente. Certamente avrebbe una sua efficacia. Però, in realtà, non sarebbe nient’altro che un’enfasi di quello che la Chiesa già fa a Gaza. Don Romanelli, il patriarca Pierbattista Pizzaballa e gli altri religiosi orientali dimostrano che la Chiesa non abbandona il popolo».
È vero, la Chiesa è già presente in quella tragedia. Ma l’andarci di proposito del vicario di Cristo in terra potrebbe produrre anche un soprassalto emotivo?
«Non dubito che un atto del genere avrebbe tale impatto e porterebbe a riflettere. Tuttavia, occorre valutare ciò che rimarrebbe a carico di coloro che vivono lì tutti i giorni. I padri francescani, la comunità di cui fa parte il patriarca di Gerusalemme, da otto secoli sono nella Terra santa e, grazie alla loro minorità, al basso profilo, riescono a mantenere la posizione tra gli opposti contendenti. Perché, come mi hanno detto diversi cristiani del posto, il problema non è la guerra di Gaza ma la persistenza dei cristiani in quella regione».
Che cosa potrebbe smuovere una visita di papa Prevost a Gaza?
«Realisticamente, credo quasi nulla perché le parti non guardano al Papa come a un’autorità morale, ma come a un capo politico. Dai musulmani viene percepito come il capo dell’Occidente. Anzi, dalle fasce più estremiste, come il capo delle crociate. Gli ebrei non lo vedono come il vicario di Cristo, ma con sospetto, come una presenza che potrebbe interferire negli affari del Paese. Leone XIV dovrebbe calibrare l’iniziativa con i cristiani locali, soprattutto adesso che c’è una recrudescenza degli ebrei radicali contro i cristiani. In particolare, dovrebbe confrontarsi con il patriarca di Gerusalemme che è un profondissimo conoscitore del mondo ebraico».
Un gesto così potrebbe scalfire l’insensibilità di Benjamin Netanyahu e dei terroristi di Hamas?
«Forse sì, perché è vero che qualsiasi gesto dirompente può avere effetti imprevisti. Tutto è possibile. Il Papa potrebbe sentirsi ispirato a rompere degli schemi e a osare. Quando Paolo VI andò in Terra santa nel 1964 era ben conscio che sarebbe stato strumentalizzato. Però osò farlo dopo aver accuratamente preparato quell’azione. Le problematiche sono complesse».
Sarebbe un gesto profetico, una testimonianza oltre i protocolli della diplomazia che appartiene a una Chiesa del martirio?
«Quando si dice “gesto profetico” si dice Spirito santo. In passato vescovi e preti hanno promosso marce per la pace in luoghi di guerra, ma dopo tanti anni siamo al punto di prima. Il problema è la conversione del cuore dell’uomo a Dio, all’amore per il prossimo e alla grazia. Questo è un lavoro diuturno, non basta un gesto, per quanto eclatante. La Chiesa va in tutto il mondo a far conoscere il vangelo per far conoscere Dio. Questo cambia l’uomo perché quando si conosce e ama Dio non si fa la guerra».
Questa idea è poco realistica e nemmeno ipotizzabile?
«È ipotizzabile perché il Papa è assistito in modo speciale dallo Spirito santo. Se lo farà sarà perché si sarà sentito incoraggiato a farlo. Se non lo farà vuol dire che lo Spirito santo non gliel’ha suggerito».

 

La Verità, 21 settembre 2025

 

«Sogno il Papa che sporca la veste di sangue a Gaza»

Ci penso da giorni, settimane. E non se ne va, questo pensiero. Mi chiedo: che cosa accadrebbe se papa Leone XIV andasse a Gaza? Ora. Andasse fisicamente. E la sua veste bianca si sporcasse con il sangue della guerra? Dei morti ebrei e palestinesi, i due popoli che si odiano? È un pensiero che non se ne va: che cosa accadrebbe? Forse il mondo si fermerebbe. Tratterrebbe il fiato. Forse per un momento si fermerebbe anche l’odio. Lì, in quella terra. In quelle macerie dell’umanità. Dove la ferita è più profonda e purulenta, nella carne del mondo».

Da geniaccio visionario, Carlo Freccero immagina. Segue i voli della sua mente. È molto più che un ex vulcanico direttore di televisioni. Molto più dell’ex uomo di Silvio Berlusconi e dei primi palinsesti di Canale 5 e poi di La Cinq in Francia, di Italia Uno e Rai 2. Freccero è un intellettuale non allineato. In gioventù è stato credente, poi ha letto Jean Paul Sartre e si è allontanato. Oggi è un uomo di 75 anni che continua a studiare e a interrogarsi. A non arrendersi alle lascivie del nichilismo. E a farsi domande davanti alle sciagure del mondo. Il Covid. Le guerre. Le risposte delle ideologie con le loro pretese di aggiustare i popoli a immagine e convenienza delle élite. Risposte sempre più insufficienti e che, alla fine, con le loro agende e i loro reset, producono nuove violenze come abbiamo visto con l’assassinio di Charlie Kirk. E nuovi soprusi, come vediamo attraverso la manipolazione continua dell’informazione, ultimo caso i droni russi che avrebbero provocato la distruzione di un’abitazione in Polonia e armato l’operazione Sentinella dell’Est della Nato. E allora, dice Freccero: «Solo la religione, anzi, solo il cristianesimo può, forse, rappresentare una novità».

Ripartiamo da quel pensiero che non se ne vuole andare.

«Anzi, si precisa progressivamente in forza di altri fatti».

Per esempio?

«Gliene faccio uno molto importante, che hanno visto tutti, ma che l’informazione unica ha stolidamente ignorato».

La ascolto.

«Pietrangelo Buttafuoco, presidente della Biennale di Venezia, ha concluso l’ultima Mostra del cinema invitando a parlare in un videomessaggio il patriarca di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa. Il quale ha richiamato la cronaca di tutti i giorni e le immagini continue “che parlano di morte, dolore e distruzione. Siamo talmente pieni di dolore che sembra non esserci spazio per quello di altri, un clima di odio sempre più profondo nelle popolazioni ebree e palestinese”. E poi ha detto soprattutto un’altra cosa, il cardinale».

Quale?

«Che c’è bisogno di una nuova narrativa e di nuovi linguaggi per provare a sconfiggere questo odio».

La politica non ce la fa?

«No. E questo è l’altro fatto che consolida la mia riflessione. Lo vediamo tutti i giorni. Lo tocchiamo con mano. Anche Donald Trump con tutto il suo impegno, tutti i suoi interessi e tutto il suo narcisismo, non ce la fa. È chiaro, no? Netanyahu invade Gaza con la ferocia che vediamo e lui risponde che non sa e deve informarsi. È un modo ambiguo di camuffare la sua impotenza, di fatto lasciando andare le cose. Lo stesso sta accadendo con Putin e Zelensky».

E allora?

«Allora le parole di Pizzaballa hanno approfondito il mio tarlo. Solo la religione può essere questo nuovo linguaggio, questa nuova narrativa. Che cosa accadrebbe se Leone XIV andasse a Gaza, con la sua veste bianca. A sporcarla con il sangue della guerra e dei morti. Che cosa accadrebbe se andasse lì, se si inginocchiasse tra le macerie, pellegrino inerme, nel posto dove la ferita è più profonda e lacerante?».

Le rigiro la domanda.

«Penso che saremmo costretti a fermarci. Tutti. Penso che il mondo trasalirebbe. Avrebbe un attimo di stupore. Di sospensione. Forse lo avrebbe anche Netanyahu e lo avrebbero anche i terroristi di Hamas. Lo spero. Voglio crederci».

In questi giorni il Santo Padre ha detto che a Gaza c’è «una situazione inaccettabile» e che «Dio ha comandato di non uccidere».

«Esattamente. E la sua voce è la più forte e potente. Ma io mi domando, senza voler essere né presuntuoso né invadente – lo so che il rischio di sembrarlo è molto elevato ma va bene, rischio – mi domando: perché non far seguire un grande gesto, una grande testimonianza a queste parole, a queste esortazioni. In fondo, perché è stata geniale l’idea di Buttafuoco alla fine della Mostra del cinema? Perché, invece di appiattirsi sui soliti proclami e i soliti conformismi degli attori con la kefiah o dei patetici militanti della Flotilla schierati da una parte sola, ha coinvolto uno che vive lì».

In fondo, se vogliamo accentuare la visionarietà, la suggestione della sua idea, è il metodo dell’incarnazione cristiana.

«In un certo senso sì. Leone XIV ci metterebbe il suo corpo, la sua persona fisica. Da pellegrino disarmato. A me vengono in mente anche le crociate».

Questa sarebbe una crociata disarmata.

«Come posso dire: una crociata mistica».

Ricorderebbe anche un’immagine del Vecchio Testamento, quella di Abramo che sale al monte per il sacrificio di Isacco.

«Questo lo lascio dire a a lei. Però il riferimento al sacrificio ci può stare».

Per altro, sebbene nella sua prima intervista abbia precisato che è necessario fare una «una distinzione tra la voce della Santa Sede che promuove la pace e il ruolo di mediatore, che è molto diverso e non è altrettanto realistico», papa Leone XIV si è anche detto «molto consapevole delle implicazioni di pensare al Vaticano come a un mediatore».

«Infatti, anche questo mi fa sperare. Tuttavia, il pellegrino disarmato è più del mediatore. La mediazione appartiene ancora alla sfera della politica e della diplomazia. Che, certo, può essere molto importante, in una situazione come questa. Invece, la mia provocazione ha più a che fare con la sfera della testimonianza e del sacrificio».

Però io le faccio due obiezioni. La prima: noi siamo nessuno e ignoriamo quali implicazioni avrebbe ora un viaggio del Papa a Gaza. Ricordiamoci che stiamo parlando del Vaticano, stiamo peccando di superbia.

«È vero, è così. Siamo ignoranti e possiamo apparire anche arroganti, lo so. Ma direi in un altro modo: siamo ingenui. E l’ingenuità ha una sua purezza e una sua forza».

Ha la forza bambina della speranza, direbbe Charles Péguy.

«Mi dica la seconda obiezione».

Il Papa non può essere l’aggiustatore del mondo. Lo dice e lo ripete, il suo compito è innanzitutto testimoniare Cristo all’umanità, confermare la fede nelle persone.

«E il suo andare lì, nel luogo della croce, nel Calvario contemporaneo, non sarebbe una grande testimonianza a Cristo?».

Bisogna capire che cosa ne pensa il Papa, qual è il suo primo e vero compito.

«Non tocca certo a noi suggerire nulla, ci mancherebbe. Ma a me pare che il punto sia la differenza della testimonianza cristiana in un mondo in cui le altre grandi religioni vengono piegate all’odio. Invece, il messaggio cristiano è amore. La Terra santa è la terra delle grandi religioni monoteiste, ma solo il cristianesimo conserva questa integrità. Però, forse per reazione alle crociate o anche all’Inquisizione, si è intimidito, abbandonando il pensiero forte e scegliendo il silenzio. È proprio questo il paradosso».

Quale?

«Che in una fase di integralismi e fanatismi crescenti rimane zitta l’unica fede che predica amore anziché odio. La Chiesa ha sempre dato asilo ai fedeli di tutte le confessioni. Il patriarca è rimasto a Gerusalemme, non solo come scudo delle vittime, ma anche a testimonianza dell’identità cristiana, di accoglienza e amore. Mi spingo a dire che certamente anche Pizzaballa sarebbe felice della visita di Leone XIV».

Il cui pontificato sarebbe profondamente segnato da quel gesto.

«Penso di sì. Ma ripeto, con umiltà e ingenuità, non sarebbe un bel modo di caratterizzarlo?».

 

La Verità, 20 settembre 2025

«Vorrei parlare di politica senza risse e tifoserie»

Tommaso Labate è il giornalista che rivelò il piano per la rielezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica. Quella volta il Quirinale smentì con una nota ufficiale, ma poi si sa come andarono le cose. Eppure Labate, cronista politico del Corriere della Sera, conduttore televisivo e radiofonico, si considera ancora un ragazzo di Calabria, precisamente di Marina di Gioiosa ionica, il paese dove, quando può, ritorna. Pier Silvio Berlusconi lo considera «un bravo giornalista e una faccia televisiva». «Sono contento di questa stima, spero di meritarla», abbozza lui.
Come nasce Realpolitik, in onda dal 17 settembre su Rete 4?
Nasce dalla voglia di raccontare la politica oltre la contrapposizione tra le tifoserie, per mostrarne i meccanismi dietro la scena. E per far capire l’attinenza che ha con la vita di tutti i giorni.
Spesso ospite di talk show, già co-conduttore con David Parenzo di In onda e poi al timone di Non è un paese per giovani su Radio 2: come si accinge a questa nuova avventura?
Con lo spirito che mi ha sempre guidato, occupandomi di politica. Cioè con l’assillo di farmi comprendere dal numero più alto possibile di persone. Quando scrivo o lavoro a un programma tv la mia testa è sempre rivolta a chi c’è dall’altra parte. Ora questa urgenza l’avverto ancora di più.
Che eredità raccoglie nella serata di Fuori dal coro di Mario Giordano?
Fuori dal coro non lascia eredità perché si sposta alla domenica. Quanto a Mario Giordano, che avevo intervistato per il Corriere, è stato il primo a scrivermi appena uscita la notizia. Un messaggio bellissimo.
Come farà quando l’Inter giocherà in Champions di mercoledì?
Bella domanda. Spesso, per motivi di lavoro o di famiglia, vedo le partite in differita. Mi sono abituato a sconnettere i dati del cellulare o a viaggiare in treno avvolto in una sciarpa per estraniarmi. Una sera ho viaggiato imbacuccato per preservare la visione notturna di un Inter Spal.
In uno studio televisivo sarà difficile isolarsi.
Infatti, spero che l’Inter giochi sempre di martedì (ride).
Quale sarà la specificità di Realpolitik?
Ci saranno retroscena, analisi, approfondimenti, sondaggi. I programmi che si occupano di politica sono tutti bellissimi.
Questa è una democristianata.
Realpolitik sarà bellissimo in un modo diverso.
Metterà a confronto posizioni opposte?
Preferiamo la contrapposizione sui perché a quella sulle persone. Mi spiego: non mostreremo il servizio su Donald Trump per farlo commentare in studio da chi lo ritiene un genio e da chi lo considera un pericolo per la democrazia mondiale. Diversamente, ci interessa capire perché Trump ha fatto o detto certe cose. Vogliamo capire i meccanismi della politica.
Contenuti sì, tifoserie no?
Esatto. Ci saranno confronti anche accesi, ma sui perché degli argomenti. Avremo ospiti che non si vedono altrove e con un elevato grado di autorevolezza.
Qualche nome?
Se anticipassi gli ospiti, Realpolitik dovrebbe cambiare nome.
Come le sarà d’aiuto l’esperienza di ospite degli ultimi anni?
In questo lavoro tutto è utile. Joseph Conrad si chiedeva come spiegare alla propria moglie che quando guardava fuori dalla finestra stava lavorando. Usare un mezzo pubblico, fare colazione al bar, fare la fila alla cassa non automatica del supermercato, guardare in faccia le persone può essere più utile che andare in tv.
Senza porsi limiti, chi è l’ospite che vorrebbe avere a tutti i costi?
Potrei dire il Papa, ma non lo dico. Mi guida uno scaramantico attaccamento alla realtà. L’intervista agognata è quella che realizzi davvero non quella che sogni.
Il suo debutto prosegue il tentativo di allargare l’offerta giornalistica di Rete 4 iniziato con Bianca Berlinguer?
Quando chiami una persona nuova in un palinsesto di successo allarghi. Se aggiungi un posto a tavola per un amico in più, la tavolata si allarga per forza.
Si presenti con un mini identikit.
Mi chiamo Tommaso Labate, vengo da Marina di Gioiosa ionica, un paesino di 6000 anime, vivo a Roma, sono solidamente attaccato alle mie radici, alla mia identità e alla credibilità che spero di essermi costruito. Tengo molto a tutte e tre queste caratteristiche perché so che se ne perdi solo una poi non la ritrovi più.
È un giornalista progressista, conservatore, di centro?
Un giornalista che si ritiene onesto e che non fa sconti. Nessuno mi ha mai accusato di essere stato sleale o di essermi fatto condizionare da convinzioni personali. Se qualcuno sostiene il contrario sono pronto a difendermi anche davanti a un Gran giurì.
Che cosa guarda in tv?
Tanto calcio e tanto tennis.
E che cosa evita?
Le serie tv. Le trovo complicate da seguire in coppia; uno si addormenta, l’altro no… Preferisco un buon film. Sono un telespettatore più moderno che contemporaneo.
Un bel libro letto quest’estate?
Rimini di Pier Vittorio Tondelli. È la storia di un giornalista che viene mandato a dirigere il dorso adriatico di un quotidiano nazionale. Rileggerlo mi ha dato il senso dell’inizio di una nuova avventura.
Cosa pensa del fatto che Giorgia Meloni non parla volentieri con la stampa italiana?
Penso che con la stampa del proprio Paese si dovrebbe parlare sempre. Non credo nella disintermediazione, che si possa comunicare solo attraverso i propri canali. I giornalisti non sono l’arbre magique della macchina, ma lo sterzo o il cambio, senza i quali la macchina no va o non va bene.
E cosa pensa dell’atteggiamento dei giornalisti alle conferenze stampa di Mario Draghi?
Draghi ha parlato con i giornalisti italiani molto più di quanto ci si aspettasse. Personalmente, non applaudirei nemmeno se la conferenza stampa la tenesse mia madre. Al contrario di molti colleghi, non ho mai pensato che avesse chance di diventare presidente della Repubblica.
Mentre Draghi era di default SuperMario, Meloni dovrebbe essere Mary Poppins ma non lo è?
Su questo mi accodo al carrozzone. Draghi era SuperMario non per il lavoro da premier, ma per il famoso «wathever it takes» pronunciato da capo della Bce. La prova è che Monti, suo omonimo e anche lui presidente di un governo di larghe intese, nessuno l’ha mai chiamato SuperMario.
E la Meloni obbligata a essere Mary Poppins?
Quando sei premier nessuno ti fa i complimenti. Il rispetto delle promesse elettorali è un criterio sopravvalutato oltre che erroneo. Il governo gialloverde si è distinto per aver assolto alle promesse elettorali dei suoi soci: il reddito di cittadinanza da una parte e quota 100 dall’altra. Eppure, oggi chi vorrebbe di nuovo il governo gialloverde? Spesso ci concentriamo sul mantenimento delle promesse e poco sulla loro qualità e i loro effetti sul Paese.

 

Panorama, 17 settembre 2025

«L’Unione inventa nemici finti per sopravvivere»

Toni Capuozzo ha trascorso l’estate a Pantelleria a scrivere i testi di un programma televisivo e di uno spettacolo teatrale. «L’anno prossimo saranno 50 anni dal terremoto del Friuli e con il pianista Remo Anzovino, anche lui friulano, vogliamo provare a ricordarlo a modo nostro».
Si prepara anche a tornare in tv: quando e dove?
«In dicembre su Rete 4, con un programma che si chiama I giganti, dedicato ai grandi che hanno fatto la storia. È un ciclo di quattro puntate, cui forse ne seguiranno altri».
Chi saranno i primi giganti?
«Karol Woytila, la Regina Elisabetta, John Fitzgerald Kennedy e Leonardo da Vinci».
Leonardo?
«È un programma che non ha un tempo di elezione. Potevano esserci l’imperatore Adriano, Ciro il Grande o Giulio Cesare. Sono personaggi scelti in base al peso avuto nella storia, non in base all’epoca».
Di chi è stata l’idea?
«Di Pier Silvio Berlusconi».
C’entra la sua lettera a Silvio Berlusconi quando è mancato?
«Non ci ho pensato. Mi hanno chiesto di raccontare queste figure con il piglio dell’inviato. In passato, ho raccontato tante tragedie e personaggi minori. Dopo aver scartabellato tra i libri di storia, proverò a togliere un po’ di polvere a questi personaggi».
Perché è utile farne memoria?
«Essendomi occupato più volte di conflitti in Europa ho constatato che da una parte, la nostra, tendiamo a condannare la memoria, mentre a Est la si coltiva perché si è consapevoli che il passato insegna. Mi fa pensare la leggerezza con cui certi leader di oggi usano il termine “guerra”. Soffriamo di una forma di anoressia della memoria. Oggi siamo impegnati nella difesa dell’Ucraina e ci sfugge che il Donbass un diritto alla secessione ce l’aveva. Così come ce l’aveva il Kosovo, per difendere il quale siamo intervenuti. Oppure dimentichiamo che c’è stata la Brexit visto che oggi, a capo della coalizione dei “Volenterosi”, c’è il leader britannico Keir Starmer».
Perché ha scritto Vite di confine (Biblioteca dell’immagine): una sorta di «spoon river» sulle tante storie attraversate dai rivolgimenti della Giulia, di Gorizia e dell’Istria?
«Intanto perché sono nato e cresciuto da quelle parti. Poi perché ho passato la vita a raccontare guerre lontane che si combattono per contrasti sul possesso del territorio o delle materie prime. Così ho provato a rileggere la storia di queste terre con l’occhio di chi pensa che non siamo migliori dei russi e degli ucraini o più civili degli ebrei e dei palestinesi. Forse siamo più pacifici perché tanti danni li abbiamo già fatti. Quel confine è stato teatro di due guerre. Ci sono stati il Carso della Prima guerra mondiale e i partigiani di Tito e le foibe nella Seconda. Gorizia e Nuova Gorica sono capitale europea della cultura 2025».
Le comunità su quel confine colpite dalla globalizzazione sono un mondo finito?
«Non credo. La globalizzazione ha spinto per contraccolpo tante comunità locali ad avere più care le proprie radici e la propria storia. Il che non significa essere nemici della globalizzazione, ma guardarla con la propria identità».
Storia e radici sono risorse da cui ripartire?
«Certo. Purtroppo, molti conflitti, come in Siria, in Palestina o tra Russia e Ucraina, sono provocati da contrasti di identità. Due stili di vita, due caratteri e due modi di parlare che ci fanno ragionare in termini di “noi e gli altri” spesso si incarnano come unghie nella storia. I conflitti identitari sono più granitici dei conflitti d’interessi».
Perché in questi casi è più difficile mediare?
«Perché non è facile comprendere le identità senza negarle. Coinvolgere i sentimenti dei popoli è decisivo, ma purtroppo la nostra è un’Europa di ragionieri, non di popoli. Quando pensi a Erasmo puoi sentirti europeo, quando pensi ai trattati no. L’Europa è una banca di storia, di cultura e di appartenenze. Solo con le identità locali si può costruire un’identità comunitaria; essere europei non è in contraddizione con il sentirsi allo stesso tempo siciliani, valdostani o friulani».
Qual è il capitolo di storia ancora da scrivere che queste vite fanno emergere?
«Quello sul male compiuto. Il capitolo sul male che da italiani abbiamo fatto agli slavi durante il fascismo e il capitolo sul male che gli slavi hanno fatto agli italiani: i 600 desaparecidos di Gorizia e le migliaia di infoibati. Basta vedere le difficoltà di condividere sia il Giorno della Memoria che il Giorno del Ricordo per capirlo. Una visione idealistica ci porta a vedere tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra. Ma, sempre parlando dei capitoli da scrivere, ricordiamo che i buoni hanno chiuso la Seconda guerra mondiale lanciando due bombe atomiche su due città di civili».
Che cosa pensa della richiesta della Slovenia di vedersi restituite molte opere d’arte in possesso dell’Italia?
«Penso che il principio della restituzione di beni legalmente acquisiti debba essere applicato con buon senso. La restituzione all’Etiopia dell’Obelisco di Axum aveva un valore simbolico perché diceva il nostro pentimento di Paese colonialista e premiava l’orgoglio indipendentista del popolo africano. Nel caso della richiesta della Slovenia, mi pare appartenga a un puntiglio notarile, figlio della cancel culture che vorrebbe riportare indietro l’orologio della storia. Come in un gioco dell’oca in cui si riparte da zero. L’acquisizione di opere d’arte racconta un’epoca storica come lo fa, a volte egregiamente, l’architettura fascista. Al British museum ci sono pochissime opere british, ma tutti, da europei, ne abbiamo goduto. Se l’Egitto dovesse richiedere indietro le sue opere, il Museo egizio di Torino chiuderebbe».
Com’è nata l’idea di scrivere Cos’è la guerra – I conflitti spiegati ai ragazzi (Signs books)?
«La prima volta l’avevo scritto 15 anni fa per Mondadori. Ho deciso di aggiornarlo su richiesta di alcune scuole e sulla spinta degli ultimi conflitti, a Gaza e in Ucraina, dove il nostro coinvolgimento è maggiore sia a livello emotivo che come fornitori di armi. Da bambino orecchiavo le notizie sulle guerre senza accontentarmi delle versioni cinematografiche dove il buono non moriva mai. Oggi i videogiochi possono far pensare ai ragazzi che la violenza sia virtuale. Anche noi adulti siamo più incapaci di leggere la follia della guerra e più succubi di una paura sottile perché cresciuti in un mondo di pace. Ma se pensiamo che la Svizzera costruisce bunker antiatomici e che le nostre armi sparano al confine tra Ucraina e Russia ci rendiamo conto che la guerra non riguarda solo il passato. Capire i conflitti in modo razionale è importante come capire di salute, di economia, di politica».
Con l’invasione dell’Ucraina stiamo tornando a uno scenario da Guerra fredda?
«È più complicato perché l’America si sta tirando indietro. Questa rischia di essere una Guerra fredda regionale, che riguarda solo l’Europa».
Dall’altra parte, come abbiamo visto a Pechino, si uniscono.
«C’è coesione, a differenza di ciò che c’è nel nostro continente, baciato dal benessere, anziano, e che non ha nessuna intenzione di mandare i propri figli a combattere. Siamo l’Europa dei principi, una specie di club inglese, molto esoso, che dispensa mandati di cattura a questo e a quel nemico che poi vediamo accolto sul tappeto rosso non solo in America. Siamo un club livoroso che non conta niente».
Come giudica la strategia dei «Volenterosi»?
«Nel migliore dei casi, sognano qualcosa che non è. L’accordo di pace con l’odiato Putin è un esercizio verbale. L’Europa sta cercando di giustificare gli errori di questi anni in cui, invece di mettere in atto una grande operazione per spegnere il conflitto, ha perseguito l’idea di combattere “fino all’ultimo ucraino”. Se dal 2014 si fosse concesso quello che si sta definendo adesso si sarebbe evitato il pericolo di trasformare una crisi regionale in una guerra mondiale. Si è dovuto aspettare l’arrivo del puzzone Donald Trump per parlare di pace. Per tre anni l’ha fatto solo il Papa. Mentre si lavora solo per nascondere gli errori compiuti, parlare di difesa della democrazia e del diritto internazionale è recitare una fiaba per bambini».
Diminuiscono anche le speranze di una soluzione in Medio Oriente.
«Lì la pace sembra una missione impossibile. Non ci sono spazi di mediazione a causa del fatto che, da Camp David in poi, i palestinesi hanno rifiutato accordi per i quali oggi brinderebbero. Esaurite le mediazioni resta la forza che, in questo momento, è dalla parte di Israele. Il quale se ne frega delle condanne del mondo. Come diceva Golda Meir: “Preferiamo le vostre condanne alle vostre condoglianze”. Non possiamo illuderci che si possa sconfiggere Hamas con strumenti militari: i ragazzi palestinesi che adesso hanno 11 anni, tra altri 10 anni cercheranno di replicare il 7 ottobre».
L’opinione pubblica europea però simpatizza per il popolo palestinese.
«Perché è un’opinione pubblica parolaia. La stessa che pensa di attuare la parità di genere cambiando le desinenze alle parole. O che raccoglie firme per escludere gli attori filo israeliani dalla Mostra di Venezia. Non faccio sconti a Netanyahu, ma non parlo di “genocidio” perché è solo un modo per dirsi dalla parte giusta. “Pulizia etnica” è già abbastanza grave».
Con sollievo di molti, Donald Trump non prenderà il Nobel, magari lo prenderà la Flotilla di Greta Thunberg?
«Sarebbe la tomba del Nobel. Che per altro è già in agonia da quando l’ha conferito a Barack Obama che faceva stragi di civili con i droni. Chi è stato in Afghanistan sa che ogni assembramento, fosse un matrimonio o un funerale, veniva bombardato senza troppe distinzioni. La Flotilla non verrà trattata con i guanti bianchi e Israele sarà accusato di essere violento e repressivo. È una regia già scritta da anime belle».
Cosa pensa degli ultimi richiami al protagonismo dell’Ue?
«Mi sembra una forma di accanimento terapeutico. Per tenere in vita un’istituzione morente e risollevare i consensi calanti in patria, non c’è di meglio che inventarsi un nemico. La Russia che vuole invaderci è perfetta».
È giusto giocare Italia Israele di calcio allo stadio di Udine o pensa che sia inopportuno?
«Per me sì. Si può anche esibire sugli spalti una bandiera palestinese, potrebbe essere un modo polemico di dialogare. Rinunciare alla partita sarebbe la condanna del silenzio».
Un’ultima domanda: che idea si è fatto della chiusura del programma radiofonico di Marcello Foa?
«Negli ambienti dove agisce la criminalità organizzata, le persone che si presentano in pubblico annunciano la propria appartenenza e provenienza. Anche nel giornalismo accade qualcosa di simile. I cani sciolti sono più fragili ed esposti agli attacchi, conviene avere un guinzaglio. Foa non ce l’aveva».

 

La Verità, 4 settembre 2025

«La cacciata di Foa? Tutto inizia dalla riforma Renzi»

Carlo Freccero non è particolarmente sorpreso dalla cancellazione di Giù la maschera, la striscia quotidiana su Radio 1 ideata e condotta dall’ex presidente della Rai, Marcello Foa. L’ex direttore di Rai 2, personalità vulcanica che non si fa problemi ad andare controcorrente, propone un ragionamento più articolato che non si limita al livello della dirigenza di Viale Mazzini e alla sua insipienza. «Non mi stupisce che uno dei pochi veri giornalisti in circolazione, Marcello Foa, sia stato cancellato con il suo staff di eccellenza dai palinsesti radiofonici della Rai della prossima stagione».

Non la stupisce perché il programma è stato cancellato per volere della politica?

«Il nuovo direttore di Radio 1, Nicola Rao, persegue una sua linea editoriale che suppongo non tanto dettata da politiche culturali, quanto da esigenze propagandistiche».

Marcello Foa è un ex giornalista del Giornale, un autore di saggi sul controllo dell’informazione, che si può iscrivere al mondo conservatore come la dirigenza della Rai di oggi: non c’è contraddizione nel chiudergli il programma?

«Questa è una lettura superficiale. Da sempre Foa ha fatto della controinformazione il suo terreno d’indagine».

Quindi, lei non è sorpreso.

«No. Perché Foa è rilevante in quanto non allineato e impegnato a smontare la propaganda del potere. Quindi, indipendentemente dalla sua attribuzione a una parte politica, rappresenta il contrario di quella propaganda che ha oramai colonizzato i media mainstream espellendo informazione, pluralismo, cultura».

La chiusura del suo programma è più causata dalla cappa del pensiero unico che dall’irritazione di qualche politico del governo?

«Oggi pensare, riflettere, denunciare è diventato sinonimo di complottismo. E, al di là di ogni schieramento ideologico, rivendicare libertà di espressione viene percepito a livello sociale come una forma di vera e propria insubordinazione all’ordine costituito».

D’accordo. Tuttavia, resta il fatto che ai vertici di questa Rai c’è una dirigenza di destra. Foa ha detto che, se poteva aspettarsi l’estromissione da una Rai di sinistra, certo non se l’aspettava da questa governance.
«Lo capisco. Ma oggi non esistono governi di destra o di sinistra. Esistono governi. E nell’attuale congiuntura politica i governi hanno il compito di attuare agende che non scrivono loro».

E chi le scrive?

«Gli organismi internazionali come l’Unione europea, il World economic forum, l’Organizzazione mondiale della sanità, la Nato, piuttosto che la sigla ultima arrivata, la sedicente coalizione dei volenterosi».
Ma i governi dei diversi Paesi hanno programmi elettorali diversi e rispondono a elettorati diversi.

«I rapporti di forza, soprattutto a livello internazionale, sono altri. Il riallineamento alle agende degli organismi sovranazionali avviene indipendentemente dal messaggio sostenuto in campagna elettorale. Anzi, necessariamente, in contrasto con esso. Che sia di destra o di sinistra questo messaggio va adattato alle necessità di eseguire ordini “dall’alto”. E questo non può che generare frustrazione in quell’elettorato che ha delegato il proprio incaricato a cambiare le cose, a recuperare indipendenza di giudizio, a ricreare un margine di democrazia almeno apparente».
Caro Freccero, a questo punto scatta l’accusa di complottismo.

«Ma quale complottismo… basta guardarsi intorno. Una volta giunti al governo questi delegati del popolo, trasformati in presidenti del consiglio, hanno un unico obiettivo: durare. Quindi non hanno alcun interesse a difendere un’ideologia, che sia di destra o di sinistra. Perché, qualora venisse rievocata, non farebbe che sottolineare lo scostamento dalla linea politica sostenuta in campagna elettorale».
E i media non devono disturbare, è questa la sua tesi?
«Nei confronti dei media i governi non cercano di imporre una linea editoriale, quanto una propaganda autoreferenziale. Non chiedono cultura, ma obbedienza. Non premiano il merito e le eccellenze, anche all’interno della loro area culturale, quanto la difesa dell’operato governativo indipendente da tutto».

Rai compresa? È da qui che deriva la soppressione del programma di Foa?
«Davanti all’ennesimo episodio di attacco al pluralismo Rai come la cancellazione di Giù la maschera non posso che ripetere come un mantra la convinzione che ripeto a partire dal 2015. La causa di tutto risiede nella riforma voluta da Matteo Renzi che ha affidato le nomine Rai direttamente al governo. Si badi bene: non alla politica, al governo».
In questo caso il governo ha soppresso il programma di un giornalista della sua area.

«Gliel’ho già spiegato. I governi oggi rispondono ad automatismi internazionali che hanno abbandonato la contrapposizione destra/sinistra. Se mai attuano la volontà di poteri forti contro il popolo».
Siamo sempre a élite contro popolo?

«Esatto. Le scelte non riguardano più il capitale culturale, ma l’efficienza aziendale e l’obbedienza a decisioni editoriali prese altrove».

Un quadro tragico, senza via d’uscita?

«Al momento non ne vedo».

 

La Verità, 1 settembre 2025

 

«Foa chiuso dalla Rai perché privo di affiliazioni»

Luca Ricolfi è presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, insegna Analisi dei dati all’università di Torino ed è stato collaboratore di Giù la maschera su Radio 1 ideato e condotto dall’ex presidente della Rai Marcello Foa.
Professore, che cosa pensa della chiusura del programma?
«Sono sconcertato, non ne capisco le ragioni. Ma l’aspetto più inquietante è il silenzio che è immediatamente calato sulla vicenda. Nessuna spiegazione da parte dei vertici aziendali, nessuna presa di posizione pubblica da parte del mondo politico. Come già accadde nel caso del professor Marco Bassani, punito dall’Università per un tweet politicamente scorretto, la solidarietà verso il censurato arriva solo per vie private, da colleghi o amici che, però, di prendere una posizione pubblica non se la sentono proprio. Possiamo leggere tutto questo come indice di vigliaccheria, conformismo, opportunismo. Ma come sociologo mi sembra di poter dire che la radice non è individuale – ognuno fa i conti con la dotazione di coraggio e indipendenza di cui dispone – ma sociale: negli ultimi 5-6 anni, complice il Covid e due guerre drammatiche, nelle nostre civilissime società democratiche si è instaurato un clima di intimidazione e di paura che ci rende tutti più prudenti, timorosi di assumere posizioni che qualcuno potrebbe giudicare inaccettabili, con conseguente emarginazione di chi le professa. Anche in una cena privata, siamo tutti più guardinghi di un tempo. E se ci invitano a firmare un appello, troviamo difficile sottrarci, perché il clima è intimidatorio e manicheo».

Lei è stato tra gli opinionisti fissi del programma: ha interrotto la collaborazione perché si era trovato male?

«Assolutamente no, mi ero trovato benissimo, il mio ritiro è stato dovuto soltanto a ragioni personali, di scarsa compatibilità con altri impegni.

Che cosa apprezzava di più e cosa di meno del programma?

«Due cose apprezzavo più di altre. La prima è che, pur avendo a disposizione un’ora di tempo, Foa non è mai caduto nella tentazione del <minestrone> di argomenti, come fanno tanti programmi. E sa come mai poteva reggere un’intera ora su un unico argomento? Perché dietro quell’ora c’era tantissimo lavoro dello staff – Nancy Squitieri, Mauro Convertito e altri – che permetteva al conduttore di approfondire il tema, anziché toccarlo superficialmente per poi passare ad altro. Senza contare il valore aggiunto della sondaggista Alessandra Ghisleri, una miniera di informazioni sugli atteggiamenti della popolazione. La seconda cosa che apprezzavo è la scelta dei temi, compresi i tre tabù di questi anni: Covid, Ucraina, Gaza (per non parlare dei tabù minori come Vannacci e l’annullamento delle elezioni in Romania. Ora che ci penso, forse è questo che è stato fatale al programma. Perché Giù la maschera non solo non evitava gli argomenti tabù, ma li affrontava senza la pretesa di indicare il punto di vista corretto».

Mentre collaborava, e anche dopo se ha continuato a seguirlo, immaginava che avrebbe potuto incontrare degli ostacoli?

«Non mi è mai venuto in mente, il programma era ok e Foa un ex presidente Rai».

Cosa pensa del fatto che i dirigenti della Rai non abbiano spiegato all’interessato il motivo della decisione?

«Non mi stupisce, a me sono capitate cose consimili: quando il tuo interlocutore non vuole darti retta, preferisce sparire piuttosto che dire dei no espliciti. È il classico mix italiano di maleducazione, sciatteria, superficialità. Però il caso di Foa va oltre, perché è stato presidente della Rai. Liquidarlo senza una parola è un gesto di arroganza che la dice lunga sui tempi che vive la tv pubblica. E pure sui tempi che viviamo in generale: succede anche all’università, quando un professore sta per andare in pensione – e quindi non conterà più nulla nei concorsi – spesso la deferenza si tramuta repentinamente in indifferenza».

Foa dice che il programma è stato chiuso perché troppo indipendente, concorda?

«Temo che la ragione sia più sottile: non è il suo programma ad essere troppo indipendente, è lui che è troppo libero. Può sembrare la stessa cosa, ma non lo è. Il problema di Foa è che non è organico né alla destra né alla sinistra, e quindi non ha la protezione che deriva dall’appartenenza. Penso che se avesse avuto una affiliazione, non importa se a destra o a sinistra, il suo programma sarebbe stato difeso con le unghie e con i denti».

Disturbava poteri e ambienti che non potevano tollerarlo?

«Non più di altri scrittori, studiosi o conduttori tv. Il nodo non sono le sue idee, ma la non affiliazione, la non organicità. Possiamo mettere la cosa anche in altro modo. Prendiamo il caso dell’Ucraina. Posizioni anti-occidentali, o ben lontane dalla fedeltà atlantica, sono state più volte espresse anche da persone di sinistra: Massimo Cacciari e Luciana Castellina, ad esempio. Ma nessuno li ha mai lapidati con l’accusa di putinismo, che invece implacabilmente colpisce tanti altri».

Perché?

«Ma è semplice: perché sono dei nostri, appartengono alla cerchia dei progressisti, la loro fede democratica è fuori discussione. Quindi possono dire quel che vogliono, nessuno li accuserà di alcunché. Se invece le stesse cose o cose consimili le dice, o permette che vengano dette, una persona di destra, o accusata di sovranismo, o semplicemente non schierata, scatta la demonizzazione. Che rimane relativamente sopportabile se quella persona ha una contro-appartenenza (ad esempio è iscritta alla Lega, o a Fratelli d’Italia), ma diventa un macigno se quella persona non ha una cerchia che la protegge. Detto brutalmente: nel clima attuale, essere liberi è molto più pericoloso che essere di destra».

Condivide la riflessione di Foa quando dice che poteva aspettarsi un trattamento di questo tipo da una Rai con una dirigenza di sinistra ma non da una Rai con una governance di destra?

«No, su questo la penso diversamente. Non credo che, sul piano culturale, la destra sia più liberale della sinistra. Semmai è meno organizzata, e ha meno truppe».

TeleMeloni, ammesso che ci sia visto che rinnova poco rispetto alle gestioni precedenti, fa notizia perché cancella un irregolare di destra?

«La notizia sarà già sparita dai radar quando questa intervista verrà stampata».

Hanno ragione quegli osservatori che si aspettavano un cambio di passo più netto nella gestione della tv pubblica?

«Direi di no. Quegli osservatori hanno confuso le loro speranze con la realtà».

A suo avviso, questa vicenda è sintomo di qualcosa di più generale?

«Sì, ma è qualcosa di generico e composito: l’arroganza del potere, il disprezzo per la cultura, forse anche il ricambio generazionale negli enti pubblici. Tutte cose di cui la trasmissione Giù la maschera non è l’unica vittima».

Nella gestione dei fondi ministeriali del cinema e nella direzione di alcuni enti culturali qualche segnale di novità si inizia a vedere. È ancora troppo poco?

«È ancora troppo poco, ma è comunque un inizio. Del resto fare peggio del centrosinistra era quasi impossibile».

Alcuni commentatori hanno apprezzato il discorso tenuto da Giorgia Meloni al Meeting di Rimini, qualcun altro ha osservato che il premier è più efficace quando parla di quando opera in concreto. Lei che cosa ne pensa?

«Penso che Giorgia Meloni sia altrettanto efficace quando parla davanti a un grande pubblico e quando agisce. Semmai il problema è che i media si occupano molto di quel che dice, pochissimo di quel che fa. Specie se quel che fa è poco spettacolarizzabile, come i primi passi del piano Mattei, o le innumerevoli micro-misure in campo economico-sociale».
Nel contesto di apparati e burocrazie anche internazionali controllati dalla sinistra, bisogna concedere a questo governo un margine di tempo maggiore perché possa essere incisivo?

«Sì, 5 anni non bastano. Ma il problema non sono solo gli apparati e le burocrazie internazionali controllate dalla sinistra, c’è anche il problema delle piccole guerre fra alleati di governo, lo stillicidio di polemiche minori senza che emerga in modo chiaro qual è il disegno del centrodestra, quali sono gli ostacoli da superare, quali sono gli obiettivi realistici».

Se dovesse dare un consiglio non richiesto a questo governo che cosa suggerirebbe?

«Di non nascondere o negare quel che ancora non è stato fatto, e di usare precisamente il non-fatto per chiedere un secondo mandato. Come fece a suo tempo – con successo – il premier riformista Tony Blair».

 

La Verità, 31 agosto 2025

«Foa cancellato perché libero. È una vergogna»

Alberto Contri, sul Sussidiario.net lei ha scritto una lettera aperta all’amministratore delegato della Rai Giampaolo Rossi sulla inaspettata chiusura di Giù la maschera, la striscia quotidiana di Radio 1 ideata e condotta dall’ex presidente Marcello Foa. Risposte?
«Nessuna».
Come se lo spiega?
«Penso che non mi considerino degno di attenzione. Ma non tanto me come persona, quanto l’argomento che ho sollevato. Non dev’essere trattato perché crea solo imbarazzo».
Eppure, con Rossi ha lavorato a stretto contatto a Rainet. Anche per una vecchia colleganza una risposta era opportuna.
«Siamo stati in uffici attigui per quattro anni. Io gestivo e lui apprezzava e dichiarava su Rainet. Ma eravamo anche ottimi amici e lo stimavo molto. Da quando è diventato prima direttore generale poi amministratore delegato non sono più riuscito a parlargli».
Il silenzio dei vertici aziendali è un tratto distintivo di questa vicenda. Anche il direttore di Radio 1, Nicola Rao, dopo un colloquio con Foa in cui aveva promesso risposte, si è dileguato. Come se lo spiega?
«Temo che sia lo stile di questa gestione che ci sta portando silenziosamente nel Grande fratello di George Orwell».
In che senso?
«
Se guarda i telegiornali sono a base di notizie non date, omertà, incensamenti e tagli di nastri. E il resto è tutto intrattenimento che addormenta e non deve disturbare».
Un quadro tragico.
«Non me l’aspettavo. Essendo politicamente un moderato mi aspettavo maggiore attenzione alla diffusione del senso critico, che invece vedo anestetizzato. Prendiamo, per esempio, le notizie sul caso del ministro della Salute Orazio Schillaci o le nuove evidenze emerse dai video delle riunioni del Cts (Comitato tecnico scientifico) sui vaccini: di tutta questa discussione sui tg Rai non c’è traccia alcuna. È ciò che, paradossalmente avviene anche sulla stampa sugli obiettivi del deep state e del potere di oggi in Italia».
Può spiegarsi?
«Al Meeting di Rimini i nipotini di don Giussani hanno applaudito ugualmente Mario Draghi e Giorgia Meloni che, in realtà, dovrebbero essere su fronti opposti. L’establishment e il deep state comandano».
Accuse pesanti. Torniamo al caso del giorno: un ex presidente della Rai non ha ricevuto comunicazione ufficiale della cancellazione del suo programma.
«È una vergogna con la v maiuscola. Perché non è solo un fatto di galateo: come diceva Giovanni Testori, la forma è essa stessa sostanza. Non aver sentito il bisogno di incontrarlo è la cartina di tornasole dell’atteggiamento stile Marchese del Grillo, <Io sono io…>, il seguito lo conosce. O, per meglio dire, la convinzione di padroneggiare la comunicazione fa calpestare qualsiasi regola di rispetto professionale».
A volte lei è stato ospite, che tipo di programma era Giù la maschera?
«Per me rappresenta la quintessenza del servizio pubblico».
Che cosa le piaceva in particolare?
«In un’ora si affrontava un argomento di attualità, anche delicato, con tre ospiti di opinioni e tendenze diverse trattati con garbo e uguale spazio. Non si prendeva mai parte per uno o l’altro, a differenza dei talk show dove si cerca la rissa per fare audience e non si insegue minimamente uno straccio di verità».
Ricorda qualche puntata che ha sollevato proteste?
«Quella dove fu invitato il dottor Massimo Citro Della Riva che aveva avuto espressioni molto severe nei confronti dei vaccini. Ma nonostante l’equilibrio dato dalla presenza di personalità che interpretavano il pensiero ufficiale delle istituzioni (erano presenti l’ex funzionario dell’Oms Francesco Zambon e l’infettivologo Massimo Galli ndr), Foa fu obbligato a una trasmissione riparatrice. Che però, essendo fatta sempre con il sistema tre opinioni diverse, non accontentò del tutto chi l’aveva pretesa».
Era un programma sotto costante osservazione?
«Sicuramente, perché trattava temi spesso delicati con indipendenza e anche con la partecipazione di Alessandra Ghisleri che forniva dati e ricerche documentate».
Perché il servizio pubblico che dovrebbe vantare questo programma come la sua quintessenza invece lo ha chiuso?
«Per questo ho scritto la lettera aperta indirizzandola a Giampaolo Rossi ma, in realtà, rivolgendomi a quello che chiamo il giro del fumo che avvolge la Rai e la politica».
Oltre all’establishment o al deep state era disturbato anche l’Usigrai, che avrà brindato.
«Certo. C’è stata una quantità di argomenti come il declino demografico e l’immigrazione che intersecavano e sollecitavano l’attività del governo. La mia supposizione è che, forse, questi argomenti e gli ospiti che li trattavano magari esprimendo pareri negativi sull’attività del governo, possano essere stati troppi».
Foa ha detto che poteva aspettarsi la chiusura da una Rai di sinistra non da una Rai con questa governance.
«Assolutamente. È il motivo del mio grande stupore».
Una buona parte dell’opinione pubblica aspetta ancora qualche segnale chiaro di innovazione della Rai che la vulgata chiama teleMeloni.
«Se il buongiorno si vede dal mattino non siamo messi benissimo. Mi sembra che il motto di questa gestione sia quieta non movere et mota quietare (non agitare ciò che è calmo e calma ciò che è agitato). Soprattutto: non disturbare il manovratore».
La prima vittima di radioMeloni, sempre che ci sia, è un programma condotto da un ex presidente di area moderata e di formazione montanelliana?
«Questo è il fatto politico preoccupante. Comunque, chi ha deciso la defenestrazione, ovvero il direttore di Radio 1 Nicola Rao, risulta essere una persona di provata fede meloniana».
Radio e teleMeloni, sempre che ci siano, cancellano gli irregolari di destra?
«Siamo davanti a una sorta di eterogenesi dei fini. So per certo che non si vuol dare l’impressione di occupare la tv pubblica, ma in questo caso si è andati ben oltre, liberando la Rai di una persona di centrodestra per poter dimostrare di essere equidistanti».
Nessuno dagli ambienti politici, né la Lega né Fratelli d’Italia, ha difeso il programma.
«È vero, nessuno l’ha difeso nella maggioranza. E i queruli esponenti di Articolo 21, sempre prontissimi a difendere il servizio pubblico e la libertà d’informazione, dove sono finiti?».
O sei omologato o anche la destra ti cancella?
«Sì».

 

La Verità, 30 agosto 2025

«Macché TeleMeloni, la Rai è piena di woke»

Alberto Contri, le piace TeleMeloni?
«Francamente non riesco a capire cosa sia realmente. È una formula giornalistica, un’etichetta sciocca perché la Rai è da sempre, per definizione, incline al governo del momento. Posso testimoniarlo in prima persona: in Rai la sensibilità governativa si è sempre affermata nella scelta delle persone e nelle carriere da promuovere».
Presidente per vent’anni della Fondazione Pubblicità e progresso, autore e saggista (ultimo libro La sindrome del criceto, Nexus, 2023), Contri ride quando gli ricordo che è stato consigliere Rai dal 1998 al 2002 in quota Forza Italia.
«Così dicevano, ma era anche quella una scorciatoia giornalistica. Quando venni nominato, Fedele Confalonieri mi mandò un messaggio: apprendo dai giornali che sei di Forza Italia, non lo sapevo; e forse non lo sapevi neanche tu. Tant’è vero che poi, insieme a Vittorio Emiliani che avrebbe dovuto essere in quota alla sinistra, promuovemmo eventi come La Traviata a Parigi o chiedemmo ad Antonio Lubrano di spiegare le opere con i sottotitoli, scandalizzando i puristi della lirica».
Poi è stato amministratore delegato di RaiNet che in qualche modo è stata l’antenata di RaiPlay.
«Non in qualche modo, RaiPlay è la figlia diretta di RaiNet, tant’è vero che l’attuale direttrice, Elena Capparelli, era la mia principale collaboratrice. Il presidente invece era Giampaolo Rossi».
Torniamo a TeleMeloni. Questa Rai è totalmente al servizio del governo e del premier?
«Totalmente al servizio… Forse nella gerarchia delle notizie dei tg o nel silenzio su alcune altre».
Per esempio?
«Qualche giorno fa la numero uno dell’Intelligence americana Tulsi Gabbard ha accusato Barack Obama di alto tradimento. Ha detto di essere in possesso di prove che dimostravano la sua influenza sulle indagini sul Russiagate nel 2017 per indebolire Donald Trump. Mentre in America non s’è parlato d’altro per giorni, i nostri telegiornali hanno silenziato la notizia».
Forse si è ritenuto che la Gabbard volesse recuperare considerazione presso Trump dopo che l’aveva criticato per l’attacco all’Iran?
«Ne dubito. Si trattava di una conferenza stampa ufficiale. Con lei c’erano diverse altre personalità che hanno messo a disposizione dei documenti. Invece di dare questa notizia sono stati proposti numerosi servizi sulla vicinanza fra Trump e Jeffrey Epstein, un gossip di tutt’altra importanza».
Se così fosse, sarebbe una conferma dell’inesistenza di TeleMeloni.
«Infatti, perché sono ancora attivi i giornalisti di sempre. Forse una certa inclinazione filogovernativa la si vede nell’eccesso di cronaca nera, utile a non disturbare il manovratore».
Quindi, secondo lei nella gestione dell’informazione TeleMeloni esiste?
«Forse c’è una tendenza fisiologica ad allinearsi. Nulla di diverso da ciò che c’è sempre stato con qualsiasi governo. È il solito doppio standard: se lo fa la sinistra è lealtà culturale, se lo fa la destra apriti cielo. Coloro che oggi accusano li ho visti all’opera per anni».
E cos’ha visto?
«Intervenivano senza troppe remore. Il presidente dell’epoca Roberto Zaccaria aveva codificato il metodo sostenendo che l’informazione andava suddivisa in tre parti, una alla maggioranza, una all’opposizione e una al governo. Così i due terzi degli spazi erano filogovernativi. La stessa spartizione si applicava nei programmi di approfondimento».
Qualche giorno fa l’amministratore delegato Giampaolo Rossi ha replicato alle critiche alla Rai rivendicando il fatto che è «la prima fonte informativa degli italiani» e che sullo sport investe molto e vantando «il ritorno di Benigni». Dobbiamo essere soddisfatti?
«Assolutamente no. Se scorro i palinsesti non vedo novità rilevanti. Non c’è nessuna discontinuità.
Da quanti anni Mara Venier conduce Domenica In, da quanti anni c’è Ballando con le stelle, da quanto tempo c’è Antonella Clerici, che mi sta pure simpatica?».
Squadra che vince non si cambia.
«No, certo. Ma qualche iniezione di novità si potrebbe fare. E poi Rossi dice una cosa più ambiziosa: la Rai racconta il Paese. L’ha detto anche quando ha presentato il Concertone del primo maggio: il nostro è un racconto che rispetta il pluralismo. Quale sarebbe il pluralismo rappresentato da Big Mama? Anche la fiction di oggi è farcita di cultura woke e di figure rappresentative delle comunità arcobaleno».
La Rai vanta anche il successo dell’ultimo Festival di Sanremo e di Affari tuoi.
«È come giudicare il guardaroba di una persona dall’abito per la cena di gala. Poi la quotidianità è tutta virata al relativismo etico».
Le piace di meno l’intrattenimento o l’informazione?
«Mi sembra tutto modesto. Come è modesto l’intero contesto nazionale, e cito la disillusione di Marcello Veneziani per lo stato del Paese. Che inevitabilmente si riflette sulla tv pubblica».
Che dovrebbe avere una funzione diversa?
«Di elevazione del senso critico della popolazione. Se prendiamo la musica c’è da essere scoraggiati, altro che elevazione. Si mira verso il basso perché puntando verso il basso è più facile catturare l’audience. E qui emerge il peccato originale dei due colossi che si contendono la pancia del pubblico».
Diceva della cultura woke nella fiction.
«E anche nei varietà e nei programmi d’infotainment. Mentre in America si registra un decadimento in seguito alla ribellione dei cittadini, in tante trasmissioni della Rai, radio compresa, che seguo per motivi professionali, prevale il woke de noantri».
C’è qualche dirigente in particolare che lo promuove?
«Ricordo che una volta, quando era direttore di Rai 1, Stefano Coletta sbottò contro chi chiamava Rai 1 Gay 1: “A me non interessa con chi vanno a letto i miei collaboratori”. Io dico che quando si manda in onda un numero rilevante di persone di orientamento omosessuale la loro visione si diffonde urbi et orbi. L’ha detto più volte anche Mauro Coruzzi in arte Platinette: mai come ora i gay sono sovrarappresentati in tv. Invece, con grande rispetto per le scelte di ciascuno, sono poco più del 3,5% della popolazione. Nella giuria di Ballando con le stelle, che è il varietà di punta del sabato sera di Rai 1, sono la metà. Se si dice che la Rai racconta il Paese, penso che la giuria di un programma popolare dovrebbe rappresentare la segmentazione del pubblico».
Va meglio la parte degli approfondimenti e dei tg?
«Purtroppo no. Ci è voluto molto tempo prima di far apparire la realtà di Gaza. E anche sull’Ucraina c’è stata una narrazione a senso unico. Ricordiamo l’oscuramento del corrispondente da Mosca Marc Innaro che, piuttosto di non far nulla, chiese di andare al Cairo. Non si poteva dire tutta la verità sull’Ucraina, o come ha fatto papa Francesco, che la Nato si era avvicinata ai confini con la Russia. All’opposto, quando Giorgia Meloni dialogava con Joe Biden, da Washington Claudio Pagliara era facilitato a pronosticare la vittoria di Kamala Harris. Credo che questo non avvenga a causa di imposizioni, ma per forme di allineamento fisiologiche. La Rai è un corpaccione stratificato negli anni, hai voglia a spostare le persone… Uno come Giancarlo Loquenzi, ex direttore di Radio radicale, conduce Zapping da decenni e va spesso ospite del Tg3 insieme a Giovanna Botteri».
La vecchia Telekabul però è stata ridimensionata.
«Ma dove? Pensiamo a Monica Giandotti, brillante suffragetta progressista, che da Lineanotte di Rai 3 è approdata alla conduzione di Tg2Post».
E da studioso dell’innovazione nella comunicazione cosa pensa dei programmi di divulgazione sull’intelligenza artificiale e la rivoluzione digitale?
«Ho sempre apprezzato Codice. La vita è digitale di Barbara Carfagna. Purtroppo, in questa ultima stagione sta mostrando una tendenza riduzionista, materialista e transumanista».
Semplificando?
«Un conto è raccontare le avanguardie digitali, un altro è magnificare l’idea di Alexandr Wang, “l’astro nascente della Silicon Valley”, di fare un figlio solo quando potrà impiantargli un neuralink nel cervello allo scopo di avere un figlio enhanced, potenziato. Oppure, altro eccesso, tessere le lodi del cosiddetto gemello digitale, costituito da ciò che rimane di noi in rete che, quando smettiamo, potrebbe continuare a lavorare al posto nostro».
Invece?
«Quando è disconnesso da quello primigenio, il gemello digitale è solo una massa di dati inerti che, non essendo gestita dal libero arbitrio di una coscienza, non potrà mai fare nulla».
Codice. La vita è digitale da quale direzione dipende?
«Va in onda su Rai 1 e Mara Carfagna è una giornalista del Tg1 che gode di ampia autonomia. Ma, anche se ogni tanto intervista qualche voce critica degli algoritmi, il servizio pubblico dovrebbe fare attenzione a promuovere certe derive transumaniste».
È stata una scelta vincente eliminare i direttori di rete e creare strutture editoriali per generi – intrattenimento, informazione, fiction, sport – trasversali alle reti?
«Si procede per tentativi. Con Carlo Verdelli direttore editoriale si era provato a organizzare l’informazione, senza riuscirci. Ora si è accentrato il potere in poche mani per semplificare i processi. Ma sono le reti a sapere di quali prodotti hanno bisogno».
Invece così le reti non hanno più identità?
«Esatto. Adesso le gerarchie sono meno chiare e, oltre alla concorrenza di Mediaset, gestire quella interna alla Rai è più complicato. In questa governance che prevede un direttore generale e un amministratore delegato è tutto un po’ confuso e non si capisce bene chi comanda».
Da un anno e mezzo si attende la nomina del presidente di garanzia, rimpiazzato dalla reggenza di Antonio Marano, consigliere anziano. È questa situazione a indebolire la linea di comando o manca una squadra di dirigenti che possa aiutare l’ad?
«La seconda che ha detto. Comunque, il presidente di garanzia è un ossimoro. Ne ho conosciuti tanti, anzi, tante visto che molte erano donne, da Anna Maria Tarantola a Lucia Annunziata fino a Monica Maggioni. Non ho mai capito bene quale fosse la loro funzione. Ancora più incomprensibile mi risulta quella della Commissione parlamentare di Vigilanza, un reperto di archeologia partitocratica. In questa situazione non si può prendersela più di tanto con Giampaolo Rossi. La Rai avanza per inerzia. La conferma è che da decenni i programmi sono sempre gli stessi: Sanremo, Benigni…».

 

La Verità, 30 luglio 2025