«La bellezza è visibile anche da chi non vede»

Vincenzo Mollica è un gigante con l’innocenza di un bambino. Con lui e sua moglie Rosa Maria, anche lei persona speciale, ho trascorso una bellissima mattinata nella loro casa in Val Seriana. Una casa immersa nel verde e allietata dal cinguettio degli uccelli. Non conoscevo Vincenzo, storico inviato di spettacoli del Tg1, premiato con il David di Donatello alla carriera. Ma dopo qualche telefonata ha accettato di soddisfare questa curiosità: cieco a causa di un grave glaucoma e affetto dal morbo di Parkinson – «du fiji de ’na mignotta» -, rimane sereno perché è buono come il pane o perché lo aiuta qualcos’altro? Oltre l’impossibilità di vedere, la fede gli dona un altro tipo di sguardo? «Non ho mai raccontato pubblicamente queste cose, ma stavolta lo faccio perché Cesare G. Romana, illustre collega del Giornale, mi aveva parlato di te», confida. A mia volta io ricordo quando, mentre si lavorava a una trasmissione televisiva, Claudia Mori e Adriano Celentano si gasavano: «Adesso dobbiamo chiamare Vincenzo». Una manciata d’anni dopo, eccomi a dialogare con lui di giornalismo, grandi artisti e bellezza.
Quali sono i segreti della tua carriera?
«La fatica, la curiosità e la passione. Il quarto segreto è l’idea di servizio pubblico imparata da Emilio Rossi, direttore del Tg1, e dal suo vice, Nuccio Fava. Per questo non ho mai cambiato casacca e sono sempre rimasto nella redazione cultura e spettacoli che ho contribuito a fondare con Gianni Raviele sotto la direzione di Albino Longhi».
Qual è stata la tua maggiore soddisfazione professionale?
«Sono state tante. Ho avuto la possibilità di essere testimone degli Oscar alla carriera di Federico Fellini e di Michelangelo Antonioni e degli Oscar a Roberto Benigni per La vita è bella. Ho potuto frequentare tanti artisti».
Ci sono gli amici nel mondo dello spettacolo?
«Ci sono come in tutte le situazioni della vita. Ho la fortuna di averne tanti e di continuare ad averne anche se non faccio più il mio lavoro. Lo sono stati Fellini, Hugo Pratt, Andrea Pazienza, Alda Merini, Franco Battiato, Daniele Del Giudice, Vincenzo Cerami. Lo sono Rosario Fiorello, Renato Zero, Paolo Conte, Francesco De Gregori, Milo Manara, Adriano Celentano. Persone con cui ho condiviso 40 anni di vita. Mina è un’altra persona cara, ho curato la raccolta di dvd sui suoi anni alla Rai».
Chi è il cronista, come ti definisci orgogliosamente?
«È un cercatore di storie, gli artisti hanno tante qualità da far conoscere. Come cronisti abbiamo il compito di trovare persone che riescono ad allargare il nostro sguardo sulla vita. Per me le opere d’arte non sono accessorie, ma sostanza. Se non avessi letto certi libri, visto certi film, ascoltato certe canzoni non sarei quello che sono oggi. A 71 anni ho ancora voglia di cercare e Mister Parkinson e Signora Cecità mi aiutano a farlo».
In che modo?
«Mi danno la voglia di capire ciò che mi sta succedendo, mi spronano a cercare l’essenza della vita. Quando hai due compagni così senti tutto in modo diverso, dai profumi dei fiori al canto degli uccelli. Il sapore del creato. A volte ci si sente abbandonati, altre volte si è contenti di sperimentare ciò che ci regala l’avventura umana».
Perché ti piace fare le interviste?
«Vinicius de Moraes diceva: “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”. Così ho capito che durante le interviste la cosa più importante è ascoltare. Non ho mai usato le domande per esaltare il mio narcisismo e mostrarmi più colto di chi mi risponde. Solo così puoi trasmettere le informazioni e le emozioni di quell’incontro».
Ci vuole curiosità per le persone, per il mistero dell’uomo.
«Una volta Fellini mi disse che era la curiosità a farlo alzare la mattina. La curiosità alimenta la nostra vita. In particolare, le cose che ami, quelle che la condensano meglio. Come l’arte».
Ciò che conta è lo stupore?
«La vita ci sorprende continuamente. Viviamo momenti di dolore, di allegria, di solidarietà, di generosità. E tutto è concentrato in queste quattro lettere. Per spiegare la vita ci vorrebbe una biblioteca sconfinata. Ma anche se ci avviciniamo alla sua realtà non riusciamo ad afferrarla perché è irriducibile a una formula matematica».
Qual è l’incontro che ti ha dato di più?
«Quello con Federico Fellini. Quando uscivi con lui non sapevi mai a che ora saresti tornato a casa, ma sapevi che ci saresti tornato meglio di come eri uscito. Con la mia Uno rossa, di notte, ci perdevamo per Roma. Spesso voleva passare per piazza San Pietro, vedere il colonnato, assaporare la spiritualità che emanavano quei luoghi. Andavamo al ristorante a mangiare cibi semplici, ma lui riusciva a farti percepire la solita cosa in modo nuovo. “L’unico vero realista è il visionario”, diceva. Oppure, citando Leopardi: “Nulla si sa, tutto si immagina”. Me lo disse quand’ero vedente e ora questa frase continua a echeggiare nella mia testa».
Cos’hai pensato quando da bambino hai appreso che saresti diventato cieco?
«Sono felice di averlo saputo a 8 anni. Mia mamma si era accorta che dall’occhio sinistro non vedevo. Mi portarono da un oculista a Locri e dopo la visita mi pregarono di uscire dalla stanza. Ma la porta rimase socchiusa e gli sentii dire che sarei diventato cieco. Tornando a casa non ho cercato di capire cosa volesse dire, ma se coprivo l’occhio destro con la mano, non vedevo più nulla. Un oculista di Messina che mi visitava ogni sei mesi mi tranquillizzò: se avverrà, sarà da adulto, ma potrebbe anche non avvenire. Invece, è avvenuto».
Come ti sei preparato?
«Cercando di memorizzare quello che vedevo. Camminando, localizzavo la posizione delle pietre. Quando andavo al Festival di Cannes o alla Mostra di Venezia imparavo i percorsi a memoria. Avrei già potuto muovermi a occhi chiusi. Imparavo anche i libri e i fumetti che leggevo. Una volta chiesi ad Andrea Camilleri, anche lui colpito dal glaucoma, se esisteva l’arte di non vedere. Mi disse: “Vincenzino, non dimenticare mai la tavolozza dei colori che hai nella testa”. E mi raccontò che di notte faceva un esercizio particolare, proiettando mentalmente i quadri e le scene dei film che aveva amato, e che gli apparivano più vividi di come li aveva visti la prima volta: “Con il cervello, puoi trasformare il buio in un grande schermo”. Come in un fumetto».
Che cosa ti aiuta a non perdere la serenità?
«Ci sono persone che sono entrate in depressione. Io non ne ho mai sofferto, ho accettato questi due malanni che mi sono capitati. Ho la fortuna di avere un carattere paziente e ironico. Poi ci sono Rosa Maria, mia moglie, e Caterina, mia figlia, che mi accompagnano con pazienza e dolcezza».
Oltre a godere della loro vista, che cosa ti manca in particolare?
«Scrivere e disegnare a mano su fogli di carta. Non ho mai usato la tecnologia, pur essendo stato il primo giornalista Rai con un sito dedicato. Mi manca scarabocchiare sulla carta, le frasi che cancelli tornano buone per quello che scriverai dopo. Anche durante i collegamenti con il tg mi aiutavo con appunti su foglietti. E mi piaceva colorare…».
Sottolinei spesso che attingi al bicchiere mezzo pieno: che liquido contiene?
«Contiene il sostegno della mia famiglia e anche della fede. Sono credente. È un fatto intimo, personale. Considero la Bibbia un libro fondamentale e la figura di Gesù una fonte permanente di speranza».
Hai l’abitudine di pregare?
«Prego non per necessità o per chiedere qualcosa che vorrei mi accadesse. Ma per coltivare una dimensione spirituale che il tempo in cui viviamo ci induce a trascurare».
Ti aiuta a convivere con la tua condizione?
«Non c’è dubbio. Quassù, fino a qualche anno fa, c’era don Tarcisio, un sacerdote di grande delicatezza umana, con il quale facevo lunghe chiacchierate. Erano come momenti di preghiera. Sempre qui vicino c’è il santuario di Lantana, davanti a una vallata meravigliosa. Adesso, ogni tanto mi faccio accompagnare e con il trucco di imparare i paesaggi a memoria, rivedo tutto e mi viene voglia di pregare. E poi c’è un’altra cosa che mi piace. Giovannino Guareschi e il suo Peppone e don Camillo. Quel dialogo con Cristo in croce mi ha sempre affascinato. A volte leggevo qualche pagina del Breviario di don Camillo, pubblicato dalla Rizzoli».
La frase di Fellini sulla visionarietà del realista mi ha ricordato quello che dice la volpe nel Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry: «Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi».
«C’è qualcosa di molto vero, l’essenziale passa dal cuore e lo fa pulsare. Quando ero ragazzo e muovevo i primi passi, Celentano cantava Pregherò, la prima canzone che parla di una persona cieca: “Non devi odiare il sole perché tu non puoi vederlo, ma c’è”. Poi in Santa Lucia De Gregori canta “per tutti quelli che hanno occhi e un cuore che non basta agli occhi”».
Vuoi dire qualcosa, per finire?
«Sì. Mi diverte Mr. Magoo, un personaggio dei cartoni animati che non vede nulla eppure riesce a superare seraficamente situazioni complicatissime. Mi ha fatto capire che si può contemplare il bello anche da ciechi».

 

Il Timone, Luglio-Agosto 2024

«Le donne vere vittime del neofemminismo»

Irrequieta e dinamica, Annina Vallarino ha cambiato spesso città: Genova, Bologna e Milano, poi Londra, dove ha conseguito il master al London college of communication, e ora il sud della Francia. In mezzo a tanti spostamenti, il suo centro di gravità è il lavoro di editor e la scrittura con una predilezione per le questioni femminili. Ha appena pubblicato Drama (Neo edizioni), il suo primo romanzo e, subito dopo, il saggio Il femminismo inutile. Vittimismo, narcisismo e mezze verità: i nuovi nemici delle donne (Rubbettino editore).
Come mai un titolo così controcorrente?
È un titolo che, molto umilmente, si rifà a Il sesso inutile, scritto da Oriana Fallaci nel 1961. Esprime il mio pensiero sul neofemminismo odierno: dannoso e quindi inutile.
Che cosa le ha fatto fare una simile follia?
Ho vissuto a lungo a Londra e visto da vicino l’evoluzione del neofemminismo. Ho letto saggi critici inglesi, americani, francesi, ma nessuno osava proporne uno per il pubblico italiano. Così, l’ho visto come una necessità. Poi ho incontrato i dirigenti della casa editrice Rubbettino…
Le neofemministe sono il suo movente?
Il conformismo paralizza il pensiero. Se una donna dice qualcosa che non rientra nel canone prestabilito è considerata una traditrice. Da post-femminista ritengo necessario guardare avanti, mentre su molti fronti stiamo assistendo a una regressione culturale.
È per questo che alcune neofemministe sostengono che «non è un bel momento per essere donne»?
No. Lo dicono perché serve a creare l’«esercito di spaventate». Il catastrofismo rimpolpa le platee di lettrici e di seguaci. Questo non significa che non ci siano problemi reali, ma da qui a dire che siamo una classe di oppresse c’è un oceano.
L’arma principale di questo movimento è il vittimismo?
Essere vittime rende intoccabili e innocenti. Oggi è impossibile attribuire una pur minima corresponsabilità anche alla vittima. Una volta si diceva «se l’è cercata», oggi per fortuna non più. Ma siamo precipitati nell’atteggiamento opposto: se si danno consigli di prudenza alle ragazze scatta subito l’accusa di victim blaming. Niente discernimento, parlare di prudenza equivale a colpevolizzare le ragazze.
La vittima ha ragione a priori, se poi è donna ha un potere illimitato: perciò sembra che le donne abbiano solo diritti?
Si dà sempre ragione ai bambini capricciosi e ai matti. Le neofemministe sentenziano che una donna non può criticare un’altra donna. Ma è un approccio regressivo che nega alle donne lo status di persone e individui completi, prima che di donne.
La vittimizzazione è un metodo di affermazione: «soffro quindi esisto». Cosa pensa delle interviste con la rivelazione incorporata del trauma infantile o adolescenziale patito?
In inglese si chiama oversharing, eccesso di condivisione. Oggi l’eroe è chi condivide il trauma con il pubblico non colui che svela come l’ha superato. Per questo racconto la storia di Samantha Geimer, la ragazzina tredicenne violentata da Roman Polanski che si è stancata del ruolo di vittima nel quale i media l’hanno imprigionata. Dice: ok, mi è successo, ho sofferto, ma sono ripartita. Le neofemministe la considerano una «povera inconsapevole».
Oltre a quella rappresentata dalle tante donne al potere, anche questa è femminocrazia?
La soluzione alla maschiocrazia non è certo la femminocrazia. Abbiamo bisogno di politici bravi e capaci che parlino a tutti. Le donne devono entrare nell’agorà come individui.
Che ruolo hanno le star di Hollywood e le donne dell’upper class americana?
Sono state fondamentali per il Metoo, che negli ultimi tempi è diventato una sorta di marketing della sofferenza che premia le donne che si mostrano vulnerabili.
Come mai pur avendo successo ed essendo esaltate dai media sono così frustrate?

Lo sono davvero? Non essendoci più il rapporto verticale con il pubblico, la star vuol farci credere di essere come noi.
E noi ci cadiamo in pieno?
Anche perché il racconto del trauma diventa subito intrattenimento. Ci piace farci gli affari delle celebrity. Inoltre, parlando di molestie, il sesso vende.
Tutto questo cosa c’entra con l’emancipazione femminile?
Niente. È un femminismo elitario, di lusso, degli affari marginali. Settimane a parlare di Giorgia Meloni che vuole farsi chiamare premier con l’articolo maschile… Utilità per la vita quotidiana delle donne? Zero.
Ma si combatte il sessismo della grammatica italiana.
Altro tema molto middle class, come direbbero gli inglesi, il cui unico scopo è far vendere libri e aumentare i follower. Questo controllo del linguaggio mi ricorda le suore di una volta che pretendevano il parlare pulito.
Che cosa accomuna il neofemminismo propugnato da Michela Murgia, Laura Boldrini e Rula Jebreal?
Il fatto di essere maternaliste. Si propongono come fari della massa. Parlerei di influencer più che di intellettuali, perché tendono a dire quello che molte donne vogliono sentirsi dire. Invece, gli intellettuali sanno essere scomodi a costo di deludere la loro platea.
Il maternalismo gemello del paternalismo?
Condannano il paternalismo, ma lo sostituiscono rivolgendosi a delle bambine, non a persone adulte.
Il neofemminismo intersezionale è molto ambizioso perché allarga la sua sfera d’azione?
È un’espansione illusoria. L’intersezionalità trascura pilastri fondamentali come la laicità, baluardo dei diritti femminili, e la dimensione di classe. Non è in grado di parlare a tutte le donne, ma solo alle sue adepte che comunicano fra loro con un lessico cifrato. Le intenzioni sono nobili, la messa in pratica no. Il 7 ottobre le intersezionali hanno optato per il mutismo davanti alle donne ebree violentate. Nella loro mappa di oppressione non erano le vittime perfette.
Che cos’è la noia di essere libere?
Nel mondo odierno, dove la sopravvivenza non è più la nostra principale preoccupazione e il tempo libero abbonda, è quasi naturale, in assenza di nemici reali, crearne di immaginari. A me molte di queste accese discussioni su inezie sembrano il sintomo di donne fortunate, che hanno tanto tempo libero e nessun problema serio da affrontare.
Un’altra regola delle neofemministe è non pretendere da loro la coerenza, così possono avere ascelle non depilate per ribellarsi ai canoni occidentali e al contempo indossare abiti firmati.
Viviamo felicemente in un momento di libertà. Ma se ci si pone come guide del pensiero femminista bisogna accettare di rispondere a delle domande. Invece, si rifiuta il dibattito. No debate è uno slogan di questo movimento.
Messo in pratica anche impedendo al ministro Eugenia Roccella di parlare?
L’intolleranza non è un fenomeno solo italiano, basta guardare cos’è accaduto in Gran Bretagna a J. K. Rowling. Le femministe storiche sono tacciate come Terf (Femministe radicali trans escludenti ndr) perché pensano che l’identità sessuale non debba essere soppiantata da quella di genere.
«Cultura dello stupro», «mascolinità tossica», «patriarcato sistemico»: c’è anche una nuova lingua?
Sono espressioni di moda nate nei college americani, versioni pop del linguaggio accademico. Servono a far sentire esperti chi le usa. Per esempio, una locuzione come «cultura dello stupro», non è solo usata dalla ragazzina con le amiche o dall’influencer nelle slide, ma anche dai giornalisti e dai media. E spesso viene accettata senza capire bene cosa c’è dentro.
E cosa c’è?
È un termine bulldozer che descrive un generico ambiente culturale e ormai racchiude tutto il ventaglio di ciò che opprime le donne, dallo sguardo insinuante fino al femminicidio. Ma nella sua malleabilità dimostra la sua vaghezza.
Nel libro parla dello statistichese neofemminista.
Sono le mezze verità. Per esempio, la disparità salariale raccontata come un furto. Nessun economista ne parla così, ma come di un fenomeno complesso, legato alle scelte dei campi lavorativi, al fatto che molte donne optano per il part-time o che devono assentarsi per la maternità o la cura della famiglia.
Infine c’è l’antagonismo nei confronti degli uomini, dipinti a volte come ontologicamente colpevoli.
Siamo ancora in piena ideologia nordamericana. Queste accuse sono un boomerang perché alimentano gli influencer maschili che rispondono all’odio misandrico con l’odio misogino. Il risultato è la polarizzazione del dibattito, fino all’incomunicabilità.
Perché l’attore Timothee Chalamet è così idolatrato?
Perché, se il nuovo obiettivo è decostruire il maschio, lui è l’immagine dell’uomo riformato che deve somigliare alla donna.
È l’icona globale della fluidità del Terzo millennio?
Credo lo sia per un gruppo ristretto di donne. Nei sondaggi, la gentilezza e la vulnerabilità non svettano tra i motivi che presiedono alla scelta di un uomo, mentre lo sono la protezione e la ricerca di sicurezza. Perché poi, non di rado, nella vita reale, le donne si innamorano degli uomini che le infastidiscono.

 

Panorama, 10 luglio 2024

«La nostra grande bellezza è il cristianesimo»

Un libro di rifondazione cristiana. Un saggio che mette al cospetto della bellezza. Una guida alla scoperta delle fondamenta dell’Europa. È tutto questo Dio abita in Toscana. Viaggio nel cuore cristiano dell’identità occidentale (Rizzoli), oltre 400 pagine che intrecciano storia, storia dell’arte, letteratura, filosofia, storia del cristianesimo, agiografia. L’ha scritto Antonio Socci, giornalista, saggista, conduttore televisivo, direttore del Centro studi per la formazione e l’aggiornamento in giornalismo radiotelevisivo della Rai e firma di prestigio del quotidiano Libero.
Dio abita in Toscana. Viaggio nel cuore cristiano dell’identità occidentale: la prima affermazione sembra un postulato. Suffragato da cosa?
«È una citazione del prologo del vangelo di Giovanni: “Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Non è che si è fatto carne e poi se n’è andato o è evaporato, ma “ha posto la sua tenda in mezzo a noi”».
Il sottotitolo invece abbina la storia della Toscana all’identità occidentale.
«Certo. Perché l’identità occidentale è nata in Europa che, in origine, si chiamava cristianità, e si è allargata oltre Atlantico creando ciò che chiamiamo Occidente. Ma l’Italia è stata la sua culla. E il cuore culturale dell’Italia è la Toscana».
Questo libro hai sempre voluto scriverlo o l’ha sbloccato qualche fatto più recente?
«Ci sono due ragioni. Innanzitutto, ha una genesi antica perché a 18 anni ho aderito in maniera più cosciente al cattolicesimo, incontrandolo al liceo in una forma così affascinante da farmi pensare che quella compagnia fosse il posto più intelligente del mondo. Subito, la prima cosa che colpì me e i miei amici fu che tutto, in Toscana, parlava di ciò che avevamo incontrato, di Cristo, e lo raccontava con una profondità e una bellezza straordinari».
E la seconda ragione?
«È una preghiera, un voto, che ho fatto alla Santissima Annunziata cui è intitolata una basilica di Firenze, alla quale sono legato per molti motivi. Infatti, il libro è dedicato a Lei, patrona del santuario. Ma l’Annunziata è rappresentata dappertutto in Toscana: il 25 marzo, giorno in cui si ricorda l’annuncio a Maria, la venuta di Gesù nel mondo, era l’inizio dell’anno nelle nostre città».
È un libro di apologetica?
«È una dichiarazione d’amore. Un viaggio in cui racconto una civiltà che esaltava tutte le potenzialità umane ed esprimeva una profonda unità del sapere e della vita. Piero della Francesca fu un grandissimo pittore – autore di opere memorabili come la Resurrezione, “la più bella pittura del mondo” secondo Aldous Huxley, la Madonna del parto e la Pala di Brera – in grado di rappresentare, per così dire, l’anima dell’uomo che contempla l’eterno. Ma Piero della Francesca scrisse anche trattati di matematica che risultarono utili ai mercanti dell’epoca e ispirarono frate Luca Pacioli, l’illustre matematico considerato fondatore della ragioneria. E come Piero della Francesca, moltissimi altri, da Michelangelo a Leonardo, sono contemporaneamente, pittori, scultori, ingegneri, poeti, inventori».

Ti sei divertito a mostrare la luce di quel Medioevo che la storiografia ideologizzata considera oscuro e a mostrare che è un tutt’uno con Umanesimo e Rinascimento?

«Mi piace paragonare il mio libro all’armadio delle Cronache di Narnia di Clive Staples Lewis. Vorrei accompagnare la gente in questo viaggio in un mondo sconosciuto, in una terra meravigliosa, che è anche un viaggio nella nostra anima, nella nostra origine e nell’identità vera della nostra civiltà. Insomma, un viaggio del corpo e dell’anima, nel quale anche il vino – la Toscana è terra di ottimi vini – ha a che fare con la bellezza e con la salvezza».
Dalla scoperta della corporalità nelle opere d’arte a Giorgio La Pira, storico sindaco di Firenze, che ripeteva che «i veri materialisti siamo noi cristiani» il passo è breve.
«Ma non è un’operazione intellettuale. Maksim Gor’kij, scrittore sovietico amico di Lenin, si confessava strabiliato dalle meraviglie dell’Italia della Toscana in particolare per tutti questi artisti che hanno cercato di rappresentare il volto di Dio. Le opere di Michelangelo, di Botticelli, di Masaccio e Donatello mostravano, come dice il Vangelo, un’umanità che seguiva Gesù perché aveva bisogno di vederlo, di toccarlo, di farsi guarire nel corpo e nell’anima, sapendo che anche il contatto con il lembo del suo mantello poteva essere salvifico. Questa possibilità di contatto fisico è continuata nei secoli, nei sacramenti, con la presenza dei santi, nella devozione alle reliquie, nei pellegrinaggi e anche con l’arte figurativa. Non a caso il cristianesimo annuncia che nell’eternità vivremo la resurrezione dei corpi».
Dimostra che Dio abita in Toscana anche il talento di tanti geni giovanissimi, da Filippo Brunelleschi a Michelangelo, da Donatello a Pico della Mirandola?
«La Toscana era il centro finanziario del mondo, la terra più ricca d’Europa. Nella Firenze del Trecento, una città che promuoveva la cultura, c’era una quantità elevatissima di bambini che frequentavano le scuole. Ma questo non spiega la schiera di geni che si è concentrata in città di pochi abitanti com’erano quelle dell’epoca, a me pare un dono di grazia».
La stessa che tra Firenze e la Val D’Orcia ha generato un’incredibile densità di santi?
«Una quantità di santi e di mistiche dal Duecento al Cinque e Seicento. Era una società con una passione diffusa per il vero, il bello e il bene. Cosa che, a ben guardare, è anche all’origine dell’immensa produzione di opere d’arte».

Santa Caterina da Siena, popolana e analfabeta, fu proclamata dottore della Chiesa da Paolo VI.

«Una giovane donna, coraggiosa e appassionata, che ha cambiato la storia e che la grazia riempì di sapienza».
Altro segno dell’azione soprannaturale è la Divina commedia, un’opera ciclopica che condensa teologia, filosofia, poesia, Aristotele, Platone, Agostino, Tommaso e incredibilmente è prodotto dell’ingegno di un sol uomo.

«Un uomo esule che andava ramingo, non se ne stava comodo in una villa con una ricca biblioteca. Ha scritto il Poema sacro in condizioni materiali disastrose. Un’opera di cui ancora continuiamo a stupirci 700 anni dopo, un poema “al quale ha posto mano cielo e terra”, come scrive lui stesso».

Tuttavia, oggi Dante lo si tira spesso per la tunica, chi lo vede padre della destra e chi come un migrante ante litteram.

«Da sempre si leggono le interpretazioni più diverse. Dante è così grande che non si può ignorare e affascina, ma sembra che non si voglia accettare il suo invito a seguirlo. Il Poema sacro canta il cammino della salvezza dell’uomo che è Cristo e quello con cui non si vuole fare i conti veramente è proprio questo: il cristianesimo».
Che cosa ti fa dire che a Firenze convergono la filosofia di Atene, la religiosità di Gerusalemme, la fede di Roma?
«Lo spiego nel libro in molte pagine e non posso riassumerlo in tre parole. È una sintesi di civiltà grandiosa e mai più superata».

È l’origine dell’Occidente, che nella narrazione prevalente è attribuita ai diritti umani, alle libertà e al benessere portati dal capitalismo e dalle democrazie.

«Sono tutte cose nate in quei secoli, fra Duecento e Cinquecento. Lo scrive addirittura Friedrich Engels nella prefazione all’edizione italiana del Manifesto del partito comunista. Perfino il Welfare è nato in quel tempo, si vada a vedere cos’era per una città come Siena il Santa Maria della Scala».

Poi c’è Siena con il duomo che ha ispirato Richard Wagner per il Parsifal che turbò persino Friedrich Nietzsche.
«Il Parsifal fu uno snodo fondamentale per Wagner: a Siena lui portò a compimento quell’opera e rimase folgorato dal Duomo che ritenne la perfetta Sala del Graal. Da lì iniziò la rottura con Nietzsche che considerava troppo cristiano quel capolavoro, di cui peraltro sentiva il fascino».
Che accoglienza ha avuto finora questo libro?
«Sto viaggiando per presentarlo, non solo in Toscana, e vedo che la gente ne rimane affascinata. Nel mondo intellettuale invece non ha avuto quasi riscontro, forse perché i libri non li legge più nessuno. Mi spiace, perché voleva essere un contributo anche rivolto al mondo cattolico, un invito a ritrovare il respiro della bellezza della civiltà cristiana. Ma mi pare che il mondo cattolico oscilli tra la sociologia di quart’ordine ispirata dai media mainstream e un certo intimismo sentimentale. Quando hai dei vescovi che dopo una schieratissima campagna elettorale organizzano Settimane sociali in cui si mettono ancora a parlare di premierato e di autonomia differenziata non si va molto lontano».
Andrai a presentarlo alla Fiera del libro di Francoforte?
«No. Nessuno me lo ha proposto. Evidentemente il mio libro – pubblicato da Rizzoli – non rientra fra le letture di chi si occupa di quell’evento. Ma non è un problema».
Mi risulta che ci sarà uno spazio in cui si parlerà delle radici dell’Europa.
«Bene. Non lo sapevo. Sarei curioso di conoscere com’è composto il panel che affronterà il tema».
Cosa pensi del fatto che i vertici della Chiesa si occupino di riforme dello Stato invece di proclamare l’originalità della pretesa cristiana?
«Ho la sensazione che gli ecclesiastici non siano stupiti e commossi dalla bellezza che risplende nelle cattedrali e nelle nostre chiese. Io vedo un mare di turisti che sono incantati davanti a ciò che scoprono qui da noi, ma nessuno spiega loro che quella bellezza è lo splendore della verità di Cristo. La Chiesa si occupa, appunto, di premierato invece di annunciare la salvezza. Eppure, il turismo di oggi è un pellegrinaggio inconsapevole. Esprime un desiderio di bellezza e di felicità che significa desiderio del volto di Dio. Tomaso Montanari ha scritto che “la ragione profonda per cui ci interessiamo al patrimonio culturale e alla storia dell’arte” risiede “nella sua capacità di separarci dal flusso ininterrotto delle cose che passano, per metterci in contatto con ciò che sta in fondo al nostro cuore”».

Il turismo può essere anche un’occasione di crescita spirituale e umana? 

«Certo. E mi stupisce vedere, in questi giorni, le polemiche contro il cosiddetto overtourism, specialmente quando sono scatenate da chi vuole spalancare le porte all’immigrazione di massa. I turisti vengono da noi, ci portano ricchezza e poi tornano a casa loro. L’immigrazione incontrollata invece…».

 

La Verità, 13 luglio 2024

«Sinistra progressista? No, difende lo status quo»

Dopo aver scelto di starsene defilato e di calmare l’astinenza dalla politica con qualche video omeopatico inviato ai destinatari della sua newsletter, ora Claudio Velardi è tornato in prima linea per dirigere Il Riformista. Un marchio che è anche il biglietto da visita dell’ex Lothar dalemiano che, da tempo, ha scelto posizioni più moderate.
Che cosa ti ha fatto abbandonare la tranquillità del buen retiro?
«La crisi evidente nella quale si è trovato Il Riformista dopo l’abbandono di Matteo Renzi e quello successivo del direttore Alessandro Barbano. Quando l’editore Alfredo Romeo, che insieme a me lo fondò nel 2002, mi ha chiamato al suo capezzale non potevo che accettare. Come sappiamo, fare un giornale è la cosa più bella del mondo. Ti svegli la mattina e pensi: oggi come e a chi posso rompere le scatole?».
Ottima definizione del giornalismo. Perché ti senti sollevato a non essere francese e non dover votare domani?
«Perché mi sembra un voto pesantemente condizionato da visioni estreme della politica che oggi non condivido. Nell’età matura tendo a vedere le sfumature, non appartengo ad alcuna tifoseria e cerco soluzioni di buon senso».
Per venire al dilemma francese?
«Soluzioni di buon senso in Francia non ne vedo perché Emmanuel Macron ha scelto di radicalizzare lo scontro. Forse non poteva fare diversamente, ma la forzatura di queste elezioni anticipate non giova a far maturare l’opinione pubblica nella maniera giusta. Perciò, mi sentirei in grande difficoltà: trovo che la polarizzazione che si sta producendo in Francia e altrove sia una caricatura infantile del bipolarismo».
In che senso?
«Sono i bambini che non sanno andare al di là del sì o del no perché non conoscono le sfumature e la complessità. Da adulti non possiamo ridurre lo scontro delle idee a “o di qua o di là”».
Domenica scorsa avresti votato per Renaissance di Macron?
«Sì, sebbene veda i limiti di questo centrismo elitario. Il problema di Macron, e di tanti moderati non solo in Francia, è di pensare di essere il sale della terra».
La parola più gettonata da quando c’è lui è «pedagogia».
«Un’altra espressione che si è un po’ persa era “le spinte gentili”. Capisco che, davanti a scelte difficili, bisogna un po’ accompagnare per mano le persone, ma senza fare i maestrini. Perché in quel caso la gente si ribella».
Macron chiede di votare France insoumise di Jean Luc Mélenchon per impedire che vinca il Rassemblement national di Marine Le Pen e Jordan Bardella. Condivide?
«Non sono Macron, ma capisco che voglia garantirsi una gestione meno conflittuale possibile e quindi lavori perché non ci sia una maggioranza Le Pen, ma una situazione d’incertezza politica».
Questo gioverebbe al Paese?
«Nel sistema francese forse questo è il modo per cercare governabilità. Quanto giovi non lo so. Da un punto di vista più globale, quando scoppiano delle bolle e si manifestano eruttazioni sociali è bene che si misurino con il governo. Era il mio pensiero persino quando sono esplosi i 5 stelle, quanto di più lontano da me. È inutile creare barriere e trincee».
Anche se fermando i «barbari» si salva la democrazia?
«Sono motivazioni sbagliate. Se i “barbari” sono cresciuti, evidentemente la democrazia non ha dato risposte adeguate».
Democrazia è anche scegliere Rn?
«Certo che sì. La democrazia dev’essere in grado di assorbire le spinte antisistema. Altrimenti lo è solo quando i cittadini votano i buoni? Se la democrazia è in grado di assorbire la spinta antisistema deve contemplare la possibilità che governi. Anche perché quando queste forze si cimentano con le compatibilità di governo entrano di più nel gioco del sistema».
Anche la sinistra italiana, come quella radicale francese, coccola l’antisemitismo delle proteste giovanili e dei pride che respingono gli omosessuali ebrei.
«Nella sinistra italiana il fenomeno ha radici meno solide, è legato a mode politiche. Le organizzazioni che coinvolgono militanti Pro-Pal non sono del tutto consapevoli che portano dritti diritti all’antisemitismo».
Come spieghi che, invece, in Gran Bretagna dopo 14 anni di governo dei Tory hanno vinto i laburisti?
«Quando la sinistra riformista parla al centro dell’elettorato moderato, affronta i problemi dello sviluppo, non fa demagogia e non si rifugia nelle ideologie, vince».
Da noi si pensa di riprodurre il Fronte popolare. Cos’hai pensato vedendo la foto di Elly Schlein, Riccardo Magi, Nicola Fratoianni e Giuseppe Conte sul palco di Bologna?
«Ho pietosamente sorriso. Che cosa vuoi fare, vedendo che tra il radicale Magi e il democristiano Conte, c’era il comunista Maurizio Acerbo che saluta la folla a pugno chiuso, se non sorridere pietosamente?».
Anche pensando ai precedenti?
«Che sono illuminanti. Con le grandi ammucchiate si può vincere alle urne, ma il giorno dopo si straperde al governo. È già successo e succederebbe ancora».
Perché anche in Italia, come in Francia, le classi deboli si spostano a destra?
«Malgrado il racconto che fa di sé stessa, la sinistra è la forza che nell’ultimo secolo ha vinto. Nel senso che ha contribuito a realizzare nei paesi occidentali una serie di conquiste sociali sul fronte del lavoro, dell’assistenza sanitaria, delle pensioni e dei diritti civili…».
Ahimè.
«Ma l’esito di questa vittoria è che oggi difende la società esistente. Tutti coloro che ne sono esclusi, le sacche di emarginazione sociale, i nuovi poveri, gli immigrati delle periferie, i lavoratori non protetti e i rider, vanno a destra. Mentre i garantiti, dai professionisti ai docenti universitari fino ai pensionati, stanno a sinistra proprio perché difende gli equilibri attuali. C’è stata un’eterogenesi dei fini, un rovesciamento lessicale: oggi la sinistra difende lo status quo».
È un rovesciamento che subisce o capisce?
«Secondo me, fa finta di non capirlo. Concretamente, non potendo tutelare sia il pensionato che il rider, la sinistra sta con il pensionato perché gli interessi di quest’ultimo convergono su grande scala con i suoi».
Per questo alza lo sbarramento alle politiche di governo, tipo il premierato e l’autonomia differenziata?
«Si oppone a qualsiasi cosa mini lo status quo, compresa la riforma delle istituzioni che, in alcuni momenti di apertura e di espansione dopo vittorie elettorali, ha pensato di promuovere».
Vedi il programma di Achille Occhetto del 1994 e la proposta di Matteo Renzi.
«Oppure la bicamerale di Massimo D’Alema. Cioè, i rari momenti in cui la sinistra non si arrocca su posizioni conservatrici dell’esistente».
Adesso ci si prepara al referendum sull’autonomia differenziata. Sembra che i limiti riscontrati finora debbano bloccare qualsiasi iniziativa propulsiva.
«Penso che il referendum sia sbagliato perché non farebbe altro che accrescere la divisione culturale tra Nord e Sud, che è il fatto che più mi preoccupa. Inevitabilmente, la campagna sarebbe tra Nord produttivo e Sud assistito. Non farebbe bene a nessuno, soprattutto al Sud che, invece, secondo me deve far sentire il suo orgoglio, accettando la sfida dell’autonomia, rifiutando di essere etichettato come la parte del Paese che dipende dai fondi pubblici e non sa nemmeno utilizzarli bene. Questa sfida si raccoglie solo se si fa crescere una nuova classe dirigente che prende in mano la bandiera del Mezzogiorno per farlo crescere in autonomia».
Fuori dalle aule parlamentari, la strategia principale della sinistra è la delegittimazione dell’avversario, vedi l’inchiesta di Fanpage su Gioventù nazionale?
«La delegittimazione è l’involucro valoriale di questa strategia conservatrice. Quando chiami il tuo elettorato su posizioni conservatrici devi vestirle con un apparato simbolico molto forte. E cosa c’è di più forte del richiamo alla resistenza e all’antifascismo, i cosiddetti valori fondanti della Repubblica? Questa è l’operazione. Il conservatorismo strutturale e sociale di sinistra ha questa veste valoriale per far risultare nobile e imprescindibile la campagna intrapresa».
Per questo si susseguono gli
allarmi al fascismo e le abiure di Giorgia Meloni non bastano mai?
«Certo. Nel momento in cui si dicesse che la Meloni ha finalmente chiarito, crollerebbe il castello di carte e la sinistra si ritroverebbe a volto scoperto con il suo conservatorismo sociale e istituzionale».
Una sinistra che si propone come anti destra e boccia premierato, autonomia, persino il ponte sullo stretto, può definirsi progressista?
«È il contrario del progressismo che, per definizione, riguarda il cambiamento. Quando non vuoi nessun cambiamento non hai niente a che fare con il progressismo».
In conclusione, la sinistra sa perdere o, come la nostra Nazionale, anziché ammettere la sconfitta e ripartire da un bagno di umiltà, ripete che non si può lasciare campo libero alle destre come se il governo le spettasse per diritto divino?
«È la presunzione di considerarsi superiori agli altri sul piano dei principi e dei valori. O dici che perdi perché non sai giocare a calcio, oppure devi cercare altre ragioni. Se c’è sempre qualche nemico esterno che attenta alle ragioni del Bene puoi evitare la necessità di un ricalcolo e di fare i conti con i tuoi errori. E, anche se perdi, puoi raccontare al tuo popolo che la ragione è dalla tua parte».
Torniamo a Bertolt Brecht: «Il comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo bisogna nominare un nuovo popolo»?
«Certo, le sindromi sono sempre le stesse».
Per finire, considerando lo stato di salute di Macron in Francia e di Renzi e Calenda in Italia, qual è la diagnosi sul riformismo europeo?
«Non vive tempi buoni perché nello statuto del riformismo c’è il cambiamento. Mentre ora viviamo un momento di “dissonanza evolutiva”, come viene chiamata».
Ovvero?
«La grande trasformazione tecnologica in atto ci sopravanza. Gli esseri umani non stanno al passo del cambiamento che loro stessi hanno prodotto. Questo genera resistenze conservatrici sia a destra che a sinistra. Perciò, il riformismo, che invece è cambiamento, è obiettivamente minoritario. Se, poi, agisce per via tecnocratica o pedagogica, diventa ancor più minoritario. La vera scommessa è far diventare il riformismo popolare ed empatico».
In Italia l’impresa è nelle mani di Luigi Marattin ed Enrico Costa che hanno promosso un’iniziativa per scalzare i vecchi leader del Terzo polo.
«Il problema è enorme e si esprime a livello internazionale. C’è bisogno di personalità che sappiano tracciare un sentiero. Stiamo a vedere se saranno loro due le figure giuste per iniziare a farlo».

 

La Verità, 6 luglio 2024

«La femminocrazia è qualcosa d’insopportabile»

Questa è un’intervista maschilista, meglio scoprire subito le carte. Quando l’ho proposta ad Annamaria Bernardini de Pace, titolare dello studio legale specializzato in diritto della persona e della famiglia più importante d’Italia, ha accettato con entusiasmo. E, siccome Abdp è una persona di rara schiettezza, si sconsiglia la lettura agli amanti dei se e dei ma.
Signora Annamaria Bernardini de Pace, devo chiamarla avvocata o avvocato?
Odio avvocata. Voglio essere scelta per il ruolo non per il sesso.
Da dove viene questo lungo nome e cognome che lei abbrevia in Abdp?
L’abbreviazione sta per Amore baci denaro passione.
C’è tutto.
Ci sono le mie predilezioni e tutto quello che gli uomini faticano a dare alle donne.
Pessimista?
Sì. Ma chi lo sa più di me che in 40 anni ho incontrato e assistito più di 10.000 coppie.
E nella vita privata com’è andata?
Ho avuto uomini tirchissimi di passioni, ma generosi d’amore.
Allora non malissimo?
No, ma nella passione ci si scatena di più. Mi piace essere desiderata. Avrei voluto uomini gelosi, appassionati di cucina, di arte.
Di sesso no?
Anche. Ho avuto tanto amore contemplativo. Avrei voluto uomini amanti dei viaggi; ho chiesto che mi portassero a Marrakech, ma nessuno l’ha fatto.
Un bilancio in chiaroscuro?
La verità è che poi sono stata tradita perché ci sono donne capaci di fare la raccolta differenziata dei rifiuti altrui. Alcune in particolare dei miei.
Se si trattava di rifiuti non dovrebbe dispiacersene troppo.
Li ho dovuti rifiutare quando ho capito che queste donne si accontentavano più di me e così gli uomini si sentivano più forti. Con me c’era troppa parità.
Che cosa pensa della femminocrazia italiana?
Che è insopportabile. Non solo per le donne che sono nei luoghi di potere istituzionale – era ora! – ma per la mentalità femminile di oggi, in forza della quale pretendono di avere diritti che non hanno.
Per esempio?
Il diritto all’aborto che non è un diritto per niente. Basta conoscere la legge che offre un’opportunità di scelta da quando l’aborto è stato depenalizzato come reato… Anche in casa le donne sono convinte di avere un diritto di vita e di morte sui figli, mentre la legge parla di diritto dovere alla bigenitorialità.
Vuole scatenare un putiferio?
Lo scateno tutti i giorni, ma la femminocrazia continua a imperare. Le donne ritengono che quando denunciano qualsiasi cosa devono essere credute in quanto donne.
Nelle cause di matrimonio?
E di violenza sessuale. Credono di aver ragione a priori. Sono loro ad avere una mentalità patriarcale.
In che senso?
Dicono che l’uomo mente, che l’uomo è forte e perciò «noi donne dobbiamo essere credute». Partono da una posizione patriarcale. Invece, le donne sono più intelligenti, più scaltre, più manipolatrici, più attente psicologicamente agli altri e quindi più forti.
Concordo dalla seconda in poi.
Sono anche più intelligenti. Solo che hanno un’intelligenza emotiva e non razionale. Comunque sia, non c’è il patriarcato, ma il matriarcato.
Cosa glielo fa dire?
Il fatto che hanno posizioni di potere nella famiglia. Poi, certo, ci sono situazioni di violenza maschile nella famiglia e nella società.
Giorgia Meloni ed Elly Schlein le conosce?
Mai incontrate. Io sono un’antica liberale, radicale, attualmente anarchica, ma stimo molto Giorgia Meloni e penso che sarebbe una vera svolta se desse una sterzata alla sanità e alla giustizia.
Ci sta lavorando.
Ha iniziato la curva, ma serve una sterzata decisa.
A cena con chi fra le due?
Con la Meloni tutta la vita. La Schlein mi sembra che interpreti una parte.
In che senso?
Non mi sembra che creda in ciò che dice, mentre la Meloni è fin troppo autentica.
Si riferisce a quando si è presentata come «stronza» al governatore Vincenzo De Luca?
Avrei fatto la stessa cosa.
C’è chi sostiene che non lavori per il bene delle donne.
Questa è la femminocrazia insopportabile. Siccome c’è la prima premier si pretende che lavori per le donne. Mentre lei lavora per tutti.
Anche in Europa c’è la femminocrazia: Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, Roberta Metsola.
Gliel’ho detto, le donne sono più intelligenti e scaltre. Adesso che hanno lo spazio se lo prendono.
In Francia Marine Le Pen insidia Emmanuel Macron.
Io non approvo le idee di Marine Le Pen, anzi. Però sarebbe ora che quel bambino viziato fosse scalzato da qualcuno.
Paola Cortellesi è la donna italiana dell’anno?
Ha fatto un film furbissimo ed è una bravissima attrice.
Dopo quell’epoca con la protagonista del film che invece di scappare…
Ecco: quello mi ha deluso; sognavo vincesse l’amore, non la politica.
Le vede le bocche storte?
E chissenefrega?
Dicevo: dopo l’epoca raccontata nel film c’è stata la stagione delle lotte femministe. Lei era in prima linea?
Altroché. Con Marco Pannella, per il divorzio, la pari dignità, l’aborto. Eravamo femministe serie che si battevano per problemi reali. Quelle di oggi sanno solo combattere contro gli uomini.
Il femminismo attuale è amico o nemico delle donne?
Nemico assoluto.
Perché?
Abbiamo conquistato quasi tutto: che senso ha combattere l’uomo dopo che abbiamo voluto essere alla pari?
Alcune femministe contrastano l’utero in affitto.
Lo faccio anch’io. Però non è una prerogativa del femminismo, ma di uomini e donne che hanno sensibilità e rispetto dei bambini. Mi fa impressione che una donna faccia un bambino, lo espella e lo venda.
Poi c’è il femminismo che impedisce al ministro Eugenia Roccella di parlare in pubblico.
Ero con lei al Salone di Torino per presentare quel libro bellissimo, ma non ha potuto dire una parola. Glielo ha impedito la violenza delle femministe ignoranti che credono che sia contro l’aborto quando anche lei ha combattuto le battaglie con Pannella.
Perché il suo studio legale difende più uomini che donne?
Perché le donne sono così feroci che sanno difendersi da sole. E le vere vittime, a parte quelli schifosamente violenti, sono gli uomini.
Una causa che avrebbe voluto seguire e le è sfuggita?
Quella di Berlusconi che mi voleva, ma gliel’hanno impedito. Sono stata tre giorni a parlare con lui dei suoi problemi e ho apprezzato un uomo intelligentissimo e affascinante, diverso da quello che ci raccontavano.
Chi gliel’ha impedito?
Non lo so, mi ha detto che c’erano delle resistenze.
Nemmeno lui così potente era totalmente indipendente?
Sono stata felice di non avergli mandato la parcella per quella consulenza perché ho avuto il piacere di parlare con una persona che capiva qualsiasi cosa e la rendeva più interessante, rispiegandola.
Perché ha rinunciato alla difesa di Francesco Totti?
Perché mi piacciono le cause che portano all’affermazione del miglior interesse per i figli. Invece quella rischiava, come poi è successo, di essere una causa mediatica con l’affermazione dell’interesse di tutti tranne che dei figli.
I femminicidi sono espressione di potere o di impotenza maschile?
Secondo me, di impotenza. Gli uomini sentono il bisogno di vendetta. Sono mossi dal narcisismo come affermazione di sé, dall’invidia della donna, dall’incapacità di gestire l’umiliazione. Quindi da una debolezza, non da una forza.
Molti femminicidi avvengono quando la donna li lascia.
Se non sai reggere all’umiliazione, uccidi. È l’inammissibilità di sentirsi inferiori, rifiutati.
Perché sono abituati ad avere tutto?
Non sono abituati a una relazione paritaria.
Questo sarebbe patriarcato.
No, se uno è impotente non è patriarcato, ma coglionaggine, cattiveria che porta a uccidere.
Oltre alla mascolinità tossica esiste anche la femminilità tossica?
Ha voglia!
Come si manifesta?
In quelle donne che, educate male, viziate e prepotenti, sono incapaci di fare qualsiasi cosa di concreto. Pensi come rendono la vita di un uomo, pensi se ce l’avesse lei una donna così. Poi ci sono anche donne violente, che uccidono i figli. Violente non solo psicologicamente, ma anche fisicamente con i mariti che però si vergognano a denunciarle come una volta si vergognavano le donne.
Si può dire qualcosa se certe ragazze si vestono come cubiste o è sessismo?
Trovo vergognoso che non abbiano dei genitori in grado di educarle soprattutto quando in giro ci sono uomini violenti di natura, non educati, uomini di tutte le razze e le religioni. Non sopporto le femministe che dicono: mi posso vestire come voglio senza che venga interpretato come una provocazione. Invece, lo è.
Che idea si è fatta del caso Ferragni?
Non posso parlarne.
La sua avversaria è stata un’altra donna.
Un’altra famiglia distrutta dalla più fervida giustiziera che abbiamo in Italia.
Selvaggia Lucarelli.
L’ha detto lei.
E la sorellanza?

Mi piacerebbe tanto che ci fosse; da 40 anni il mio studio è basato sulla sorellanza. Ho quasi solo collaboratrici, resistono due uomini, una quota azzurra minima. Insegno a solidarizzare e chi non fa come dico io sparisce dagli studi.
Alla faccia del patriarcato. Marina Berlusconi cavaliere del lavoro?
Giustissimo. Ma non capisco come non sono mai stata nominata io. Certo, lei fattura mooolto più di me.
Lei è anche membro del Giurì di autodisciplina della pubblicità.
Lo sono stata 30 anni, di più non si può. Un’esperienza appassionante.
Che cosa pensa dei mammi e dei massai degli spot?
Certi tiranni del pensiero vogliono promuovere il politicamente corretto.
Le piace Luciana Littizzetto?
Mi diverte.
Maria De Filippi?
Mi impaurisce.
Serena Bortone?
Simpatica. Ci frequentiamo.
Lilli Gruber?
Non la guardo perché mi innervosisce la sua parzialità.
Per chi ha votato alle Europee?
Si figuri se glielo dico. Sono anarchica.
Le hanno mai chiesto di candidarsi?
Tutti gli schieramenti.
E?
Non mi basterebbero gli stipendi proposti.
Mi svela un suo segreto, un libro, una serie tv, una persona che adora?
Vorrei rinascesse Giorgio Gaber.

 

Panorama, 26 giugno 2024

«La sinistra non ha più l’egemonia culturale»

Con un nonno partigiano e l’altro che ha fatto la marcia su Roma, Alessandro Giuli ricerca la conciliazione degli opposti. E, ora che siede alla presidenza della Fondazione MAXXI, opera affinché il dialogo tra destra e sinistra si realizzi. La summa di questo tentativo si trova in Gramsci è vivo, dotto pamphlet appena pubblicato da Rizzoli.
Che cosa tiene ancora in vita Antonio Gramsci?
«La lezione che ci ha offerto come testimone di una libertà conculcata da un regime e l’aver rotto lo schema pseudoscientifico del marxismo-leninismo, mettendo la cultura al centro del discorso rivoluzionario».
Più precisamente?
«Con Gramsci la rivoluzione, il progetto sbagliato della dittatura del proletariato, non avviene solo in base al mutamento dei rapporti socio-economici, ma attraverso la cultura. Non si lasciano tracce durevoli se non si passa per la cultura».
In che modo è ancora attuale il teorico dell’egemonia culturale e della conquista delle casematte del potere?
«Quello è uno schema invecchiato male perché tipico del partito-Stato dei Soviet. Oggi l’egemonia non si crea dall’alto, ma dalla società civile, con i romanzi, le sceneggiature, le pièce teatrali, l’accademia. Se sei bravo e fortunato ti ritrovi in una comunità di persone che rappresentano la sensibilità conservatrice, maggioritaria in Italia, come si vede quando si vota. Tuttavia, questo processo non si realizza per volontà di un partito, dev’essere uno schema condiviso, altrimenti è una distopia».
Come quella in cui abbiamo vissuto negli ultimi decenni, nei quali l’egemonia culturale aveva un colore diverso dal sentire della maggioranza?
«In questo mezzo secolo si è consolidata una divaricazione tra consenso e potere che neanche il lungo intermezzo berlusconiano è riuscito a scalfire se non nelle nomenclature. Abbiamo dovuto aspettare un ministro come Gennaro Sangiuliano per avere un titolare della cultura non frenato nel modificare l’esistente».
Perché un libro che racconta quasi due anni di presidenza della Fondazione MAXXI teorizza il dialogo come caratteristica della cultura di destra?
«Perché i monologhi sono noiosi. Ne abbiamo ascoltati per decenni e ora preferiamo mettere la nostra identità a disposizione della contesa delle idee. Tanto meglio se producendo anche buoni risultati».
Scrivi che «alla retorica irrazionale del barbaro alle porte, che nasce da un malriposto suprematismo e sfocia nel disprezzo antropologico, si può e si deve contrapporre la forza della persuasione e del confronto».
«Esatto. Spesso ci si aspettano dei quadrumani con il lanciafiamme nei luoghi delle istituzioni più alte come il MAXXI e poi ci si stupisce di trovarvi dei bipedi ragionanti».
Il dialogo rispettoso e costruttivo è un obiettivo ottimista?
«No, magari ha una venatura di strategia. Parto dal presupposto che una buona visione del mondo di chi viene da destra può e deve contenere anche schemi e formule di una sinistra che ha abdicato alla propria funzione. La destra vince nelle urne perché soddisfa un bisogno di sicurezza e di identificazione. Non mi interessa piacere a quelli che chiamiamo salotti della sinistra, le idee sono plurali per definizione».
Quindi, non c’è un bisogno di legittimazione?
«Dal Foglio in poi ho sempre lavorato senza cercare approvazioni. Oggi sono gli stessi intellettuali di sinistra a voler dialogare con il mondo che idealmente personifico».
Nel tuo saggio fai l’esempio di Roma che diventa comunità universale spostando i confini e includendo le province. Più che includere non sarebbe corretto dire che ingloba o annette?
«Una corrente di pensiero di sinistra ritiene addirittura che “includere” sia espressione aggressiva perché significa chiudere dentro. In realtà, significa racchiudere. La lezione di Roma è trasformare genti diverse in un’unica comunità».
Questa inclusione così di moda significa che si assorbe una diversità?
«Non c’è dubbio. Cicerone, che odiava Cesare, scriveva al suo amico Attico che Cesare aveva appena conquistato le Gallie e già aveva fatto senatori alcuni di loro. Nel momento in cui hai un’idea di diritto e di sacralità della vita puoi includere chiunque sottoscriva i tuoi canoni, a patto che lo faccia davvero. Noi i canoni li abbiamo».
Ma pochi li sottoscrivono?
«Quelli che non lo fanno vivono male nella nostra comunità. Accade anche a molti con il passaporto italiano, bianchi, biondi e con gli occhi azzurri che pure non meriterebbero la cittadinanza. Se sei fuori dai canoni della Costituzione, non rispetti la sacralità della vita e l’altro da te, compresa la sovranità che appartiene al popolo, sei fuori da questa comunità».
Chi non rispetta la Costituzione dovrebbe andare in galera, quanto al rispetto della sacralità della vita potremmo scrivere un’enciclopedia.
«Se fai l’infibulazione a una donna è evidente che non rispetti né la donna né la vita, ma se ti comporti da razzista e vuoi decidere chi è italiano e chi no, come il generale Vannacci, non rispetti la sacralità della vita e la Costituzione. Il che vale pure per l’ambiente, anche se vediamo molti estremismi e fanatismi, di cui parla l’articolo 9 della Costituzione insieme al rispetto del paesaggio e alla promozione della ricerca scientifica».
Vannacci ha fatto una considerazione inerente ai tratti somatici di Paola Egonu non rappresentativi dell’italianità, non ha detto chi può o non può essere italiano.
«Accetto questa definizione a patto di immaginare che fra 100 anni ci sia un pronipote nero di Vannacci che dica che il mio pronipote bianco non rappresenta l’ideal-tipo dell’italiano».
Fra 100 anni ne riparleremo. Cosa significa che la cultura può fare per la politica quello che la politica non riesce a fare per la cultura?
«Che la politica vive di confronti, che a volte sono conflitti, con pensieri spesso biodegradabili, mentre la cultura ragiona con una gittata più lunga e sorregge le leadership politiche che si succedono. Se creo MAXXI Med a Messina ci sarà un premier che un giorno se lo ritroverà e ne beneficerà come buon esempio di diplomazia culturale rivolta al Mediterraneo, mentre noi come persone fisiche saremo altrove. Questo a prescindere dal colore di chi sarà al governo».
Citi Emilio Isgrò che sostiene che nell’arte non c’è destra e sinistra perché l’arte è come il ciclismo e tutti pedaliamo allo stesso modo. Cosa vuol dire esattamente?
«Vuol dire che l’arte proviene da artisti che possono avere o no idee politiche personali, ma non è quella l’unità di misura dell’opera d’arte. Per questo la sinistra divora Céline e pensa che sia il più grande scrittore del Novecento».
È un obiettivo ingenuo, pur appellandosi a Norberto Bobbio, rigettare la polarizzazione degli intellettuali in rossi e neri?

«Ho goduto molto quando il ministro Sangiuliano in un’intervista alla Stampa di Torino, tempio del pensiero azionista, ha citato proprio Bobbio ritorcendo le sue categorie contro chi a sinistra ragiona ancora con il bianco e nero anziché con i colori».
Che cosa pensi di ciò che è accaduto in occasione delle scelte per la rappresentanza italiana alla Fiera del libro di Francoforte anche dopo l’invito di Mauro Mazza a Roberto Saviano?

«Premesso che è un perseguitato dalla camorra e che a mio parere dopo Gomorra Saviano non ha scritto nulla di altrettanto interessante, mi piacerebbe che fossero valorizzati altri scrittori come, per esempio, Sergio Claudio Perroni. Il quale, purtroppo, è morto, ma il suo peggior libro vale quanto il miglior libro di Saviano».
Altra obiezione al dialogo è l’espansione della cancel culture e della cultura woke, che partono dalla superiorità del presente sul passato e delle élite sul popolo?
«Il suprematismo antropologico e la violenza distruttiva della cancel culture sono un’abiezione. Ma se la si guarda da vicino, come per esempio ha fatto Piergiorgio Odifreddi nel suo libro in cui ha ridicolizzato la scwha, si capisce che la cancel culture morirà di autofagia, perché tutti i suoi protagonisti non fanno che trovare elementi inibitori da cancellare. Finché non cancelleranno anche loro stessi».
Ci vorranno decenni?
«La fase di rigetto della cancel culture inizia a coinvolgere anche la sinistra».
Perché sostieni che creare occasioni di dialogo sia un discorso di destra?
«Perché la sinistra vive con le cuffiette e ascolta solo la propria musica. Ma ora una destra matura e avanzata cambia spartito e fa scoprire anche alla sinistra una musica migliore».
Gli intellettuali di Capalbio o con l’attico a New York sono davvero meno ascoltati?
«All’intellettuale di Capalbio, dove ha appena vinto la destra, che sopravvive come categoria dello spirito, non vorrei contrapporre l’intellettuale di Coccia di morto. Anziché attaccare i radical-chic che si stanno estinguendo, dovremmo essere un po’ più chic noi, imparando le buone maniere».
A me pare che siano ancora riveriti, accolti come oracoli nelle televisioni e premiati all’estero, dove esibiscono sussiego e disprezzo per chi non si allinea. Questo zoccolo è ancora duro?
«È duro e spesso anche abbastanza qualificato e ben sostenuto dal sistema culturale. Ma questo lo sosteneva già Giuseppe Berto. Appena diventeremo tutti come Giuseppe Berto li annienteremo perché valgono la metà dei suoi coetanei. Ma la vera domanda è: diventeremo come Giuseppe Berto?».
Secondo te?
«È un compito più che una certezza. Penso che siamo pieni di Giuseppe Berto potenziali che stanno suggendo il latte della mamma e noi dovremo farli crescere».
Il primo anno di gestione della tv pubblica fa ben sperare?
«È stato un anno di transizione. Confido che la nuova dirigenza saprà dare il meglio di sé una volta che l’assetto sarà consolidato e talune incertezze, come quelle che abbiamo tutti, serviranno da lezione».
Nel mondo ideale ipotizzato da Daniel Salvatore Schiffer «l’intellettuale del ventunesimo secolo sarà prismatico o non sarà. Sarà artistico prima che politico, amante del dubbio e nemico del dogma, impegnato ma non militante, e qualsiasi sua adesione a una rivoluzione sarà sempre metafisica e mai ideologica, libera e non partigiana, critica e non fanatica». Chi può realizzare questa utopia?
«Un’idea del genere è talmente liberale che la può esprimere solo una destra illuminata».
Una visione realistica evidenzia il prevalere dell’intolleranza, soprattutto a sinistra.
«Parlando di coloro che vivono nella realtà senza consapevolezza Eraclito li definiva presenti assenti. Al contrario, gli intellettuali di destra sono stati assenti presenti. Ora è arrivato il momento di essere presenti presenti».

 

La Verità, 22 giugno 2024

 

«L’euroburocrazia ci trasforma in sonnambuli»

Novantuno anni e otto figli, Giuseppe De Rita è una delle menti più lucide del Paese. Fondatore e animatore del Censis, il Centro studi investimenti sociali che nell’ultimo rapporto ha tracciato il profilo di una società italiana «affetta da sonnambulismo, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali», De Rita è l’uomo cui si ricorre quando ci si trova davanti a svolte difficili da decodificare come quella verificatasi all’ultima consultazione europea.
Professore, chi ha vinto davvero le elezioni?
«Nessuno. L’astensione è tale da far pensare che qualsiasi decisione venga presa sarà sempre tecnicamente di una minoranza. Avere il 28% di metà del Paese significa disporre concretamente del 14% dei consensi e quindi espressione di una forza largamente minoritaria. Questo stabilisce le condizioni in cui si lavora. Perciò è difficile dire che qualcuno abbia vinto. Anche se, numericamente, si può dirlo di Elly Schlein e Giorgia Meloni, mentre Giuseppe Conte ha perso».
L’astensionismo è stato forte anche in Europa, il fenomeno dei sonnambuli e degli sfiduciati è continentale?
«La crisi della partecipazione politica si registra in tutta Europa. Ma lei vuol dirmi quale sia l’appeal di Olaf Scholz o di Emmanuel Macron? Possiamo riconoscere che noi sonnambuli non esercitiamo una buona domanda, ma dobbiamo tralasciare la qualità dell’offerta. L’astensione sarà anche un peccato di omissione, vedendolo dal punto di vista del catechismo cattolico, ma è un peccato giustificato dal fatto che la qualità dell’offerta politica è bassissima. Se al mercato mi offrono un prodotto che non mi piace, tiro dritto».
Quindi la causa principale è il deficit di qualità del personale politico?
«Questa è sicuramente una delle cause. La seconda è che, tendenzialmente, il cittadino della società occidentale comincia a vivere trascurando le cose importanti. Non paga le tasse, non partecipa alla vita della scuola, non va a messa. La tendenza è a occuparci delle nostre cose e non di quelle collettive».
Prevale il disincanto nei confronti della globalizzazione o la distanza dalle istituzioni continentali?
«Credo che il problema vero sia una certa estraneità degli organismi di governo europei. Io stesso non vedo vicini i grandi palazzi di Bruxelles, forse perché sono abituato a palazzi più semplici e famigliari. L’Ue emana un’immagine fredda, tecnocratica e ricca. La lontananza degli uffici e la ricchezza degli stipendi. Delusi dalla globalizzazione? Non direi. Vorremmo una politica europea più forte e unitaria nella difesa e nella diplomazia. La globalizzazione è accettata, tutti parlano di piattaforme e di Amazon. Ormai si usa Amazon anche per mandare i biglietti di auguri. È questa la globalizzazione. È l’Europa che non entra nel nostro concetto di globalizzazione».
Questa disaffezione è anche causata dal fatto che i tratti che caratterizzano l’Europa, dai simboli religiosi nelle città al riconoscimento del ruolo delle donne fino alla nascita degli Stati nazionali, siano stati progressivamente messi tra parentesi?
«Invece dovremmo riconoscere che l’Europa ha fatto grande la storia dell’ultimo millennio. Purtroppo oggi è di moda di rinnegare la storia».
È la cultura della cancellazione.
«Si cancellano i grandi imperatori, i grandi navigatori… Nei social e nei media l’opinione prevalente è la distruzione della storia per concentrarsi sul futuro. Come se la cultura contemporanea avesse bisogno di mangiarsi il passato, di vivere fuori dalle piazze di una volta. C’è l’ambizione di costruire le autostrade per il futuro. Ma la mia impressione è che se non si sanno gestire bene le città di una volta non si possono manco abbozzare le autostrade del futuro».
Mentre scolora l’appartenenza a una comunità e a una storia cresce la percezione di un’Europa sempre più dirigista, fatta di regole e divieti?
«La situazione va vista da due angolazioni. La società contemporanea è così complessa e articolata che ha bisogno di essere governata. Questo può avvenire o concentrando il potere con la forza come fanno certe dittature, oppure dettando regole e gestendone gli effetti. Negli anni Cinquanta i padri fondatori decisero per questa seconda ipotesi, non per un’Europa che concentrasse il potere e imponesse decisioni dall’alto. Anche i titoli degli organismi avevano questo carattere, si parlava di “mercato comune”, di “patto di stabilità”, tutte formule e meccanismi regolatori. Oggi queste istituzioni sono afflitte dalla burocrazia e sono esposte a lobby sempre più invadenti».
Gli elettori sanno chi sono e che ruolo ricoprono Ursula von der Leyen, Roberta Metsola o Christine Lagarde?
«È normale che non lo sappiano. Immagino che mio padre e mia madre non sapessero chi erano Konrad Adenauer e Robert Schuman, sebbene fossero grandi statisti».
Per questo hanno fatto bene Giorgia Meloni ed Elly Schlein a personalizzare la campagna? Gli elettori cercano qualcuno in cui riconoscersi?
«È uno dei meccanismi di identificazione. Io sono contrario alla personalizzazione della politica, però capisco che in un momento di difficoltà, in cui agisce una marea di soggettività, qualcuno scelga di metterci la faccia. Poi ci sono le personalizzazioni che funzionano, come quelle di Schlein e Meloni, e quelle che non attecchiscono, come nel caso di Matteo Renzi e Carlo Calenda».
Come valuta il fatto che il governo Meloni sia l’unico in Europa che registra un consistente incremento di consensi?
«Essendo l’ultima arrivata la Meloni ha fatto scelte drastiche. Ha optato per una linea europeista e atlantica e d’intesa con gli Stati Uniti. Una scelta che ha pagato più di altre posizioni articolate. Poi ha fatto la sua scelta netta anche contro la politica dei bonus. E la gente ha capito».
Hanno fatto bene i vescovi italiani a suggerire un voto in favore dei partiti dichiaratamente europeisti?
«Non potevano fare altro. La scelta europeista è stata fatta anche dagli statisti cattolici del dopoguerra».
Perché a suo avviso sono stati poco ascoltati?
«Tutto sommato lo sono stati. Cosa potevano dire se non “votate per i partiti europeisti”? Forse pensavano di favorire i centristi. Alla fine, però, non ho visto prevalere il voto antieuropeo».
La dialettica pace-guerra è stata centrale in queste elezioni ed è giusto che lo sia?
«Assolutamente no, ed è giusto che non lo sia».
Perché?
«Perché si tratta di un meccanismo così delicato e criptico che montarci sopra una dimensione politica è sbagliato. Si entra in questioni complicatissime di cultura militare, di geopolitica e di economia internazionale che vanno trattate in modo serio e approfondito. Non basta dire di essere per la pace».
Da questo punto di vista, come giudica la candidatura di Marco Tarquinio nel Pd?
«Tarquinio ha fatto benissimo il direttore di Avvenire e poi ha scelto di impegnarsi, da pacifista oltranzista, in queste consultazioni, senza disturbare troppo il partito. Terra terra, è andato avanti».
Da ospite in un partito che va da un’altra parte?
«Se ha fatto questa scelta ne ha pagato in bene e in male i pro e contro. Non tocca e me valutarli».
Perché, sebbene nei sondaggi la maggioranza degli italiani si dichiari contraria all’invio di armi, i partiti pacifisti e antimilitaristi non hanno avuto i riconoscimenti attesi?
«Son cose troppo serie per farne comizi e orientamenti elettorali. Pensi quanto difficile è la valutazione su quali armi mandare in Ucraina. Non basta proclamarsi per la pace e sventolare la bandiera bianca. Anzi, è inutile e dannoso ridurre a un fatto di opinione una crisi internazionale così complessa».
Altra contraddizione: le proteste ambientali e gli annunci di apocalissi imminenti si sprecano mentre i Verdi perdono consensi.
«Anche in questo caso il problema ambientale è ridotto a fatto di opinione. Quando viene sottratto ai tecnici, agli esperti, ai programmi di intervento e gestione dell’ambiente sfuma in qualcos’altro e perde di interesse».
La bocciatura dell’asse franco-tedesco va attribuita al disagio sociale di Francia e Germania o al contrasto alla politica bellicista?
«La causa della sconfitta non è il contrasto alla linea bellicista di Parigi e Berlino. Chi conosce la realtà di questi Paesi capisce che la loro crisi non viene dallo schieramento anti russo. Nel caso della Francia, si origina nella dimensione identitaria, nel conflitto spaventoso fra ebrei e antisemitismo che investe le periferie e nel crollo della religione cattolica come elemento unitario di quella popolazione. L’asse con i tedeschi c’entra poco. In Germania, la crisi è generata dall’aumento delle diseguaglianze. La fine dell’era dei grandi traguardi economici crea tensioni e frustrazioni che si manifestano al voto e nelle città in modi meno cruenti di quelli francesi».
Se Paesi leader come Francia e Germania, ma pure Austria e Belgio registrano uno spostamento verso destra, è giusto che a Bruxelles si riproponga la maggioranza di prima?
«Non so dove si collocheranno i repubblicani francesi né se Meloni appoggerà la maggioranza Ursula. Mi astengo».
Che strada intravede per riformulare un’idea e una prassi europea più vicina alle esigenze dei cittadini?
«L’Europa sta gestendo la complessità di questi decenni con la cultura delle regole e delle normative. Questa politica era efficace negli anni Cinquanta. Ora risulta troppo fredda, in questi anni non basta gestire l’esistente. Serve una politica con più intenzionalità».
Intenzionalità significa progettualità, visione?
«Ogni momento di svolta della storia è stato determinato da una intenzionalità. L’uscita dal feudalesimo è stata favorita dal ruolo del clero e dal solidarismo dei Monti di pietà. La stessa ricostruzione italiana del dopoguerra aveva una intenzionalità. Oggi l’Europa gestisce l’esistente senza una progettualità».

 

La Verità, 15 giugno 2024

 

«Invidio la capacità di fare squadra degli uomini»

Zero vacanze anche quest’anno, Nunzia De Girolamo?
«Sì, zero. Ma a me basta il fine settimana per recuperare. Il vero cruccio è stare senza mia figlia come l’estate scorsa. Perciò, le ho promesso che sarà l’ultima».
Dove sta sua figlia d’estate?
«Finita la scuola una settimana in Campania dai miei genitori, ma senza di me. Poi a Santa Severa, da dove farò avanti indietro. Poi andrà in Sardegna con il papà (Francesco Boccia, capogruppo al Senato del Pd ndr)».
Suo marito cosa dice del suo lavoro estivo?
«Niente. Lui è uno stakanovista, dopo una settimana di vacanza si sente già in colpa».
Nella vostra famiglia vige il patriarcato o il matriarcato?
«Sarei un’ipocrita se dicessi il patriarcato. Vengo da una famiglia matriarcale da generazioni».
E la sua attuale com’è?
«Abbastanza matriarcale. È un fatto che dipende dalla cultura nella quale si è cresciuti. Mia madre era una figura forte, come era fortissima quella di Francesco».
Mi fa un telegramma sull’esperienza di Avanti popolo?
«È stata molto formativa. Per la prima volta ho condotto per tre ore da sola affrontando temi delicatissimi. La prima puntata è coincisa con l’inizio della guerra in Medio Oriente. Poi mi sono occupata di femminicidi, di dipendenze, di politica… Ho imparato che nella vita bisogna preservarsi e dire di no quando si sente che un’idea non è giusta per te. Mi sono trovata di nuovo in una bufera mediatica come quando ero in politica».
Come si gestisce una bufera mediatica?
«Proprio perché mi ci ero già trovata la temevo. Sapevo che il momento storico mi avrebbe esposto a poca clemenza. Ma io non so fingere, non basta dire scialla! come si fa a Roma. Sono stati mesi di pressione che ho iniziato a smaltire una volta tornata al mio pubblico con Ciao maschio».
Che cosa l’ha ferita di più?
«L’attacco subito per l’intervista ad Asia, la ragazza di 19 anni violentata a Palermo da sette coetanei. Mi sono sempre battuta contro la violenza sessuale e in favore delle donne. Ho trovato molto ingiuste le accuse di scarsa sensibilità sapendo che ci avevo messo il cuore di donna e di madre. Continuo tuttora a sentire Asia, una ragazza fragile e abbandonata».
La morale è che una rete e un pubblico come quello di Rai 3 non si modellano a tavolino?
«Lo conferma il fatto che coloro che sono venuti dopo di me, professionisti ottimi ed esperti, non hanno ribaltato il risultato contro una concorrenza radicata».
Con la quarta stagione di Ciao maschio si è presa una rivincita?
«Sì. E, in un certo senso, ho avuto la conferma che non fosse solo mia responsabilità l’insuccesso di Avanti popolo. La mia è quella di aver accettato. Ma ognuno di noi non può essere uno, qualcuno e centomila… Bisogna rimanere sé stessi, senza andare a sfidare il pubblico di Rai 3 che è molto sensibile».
Tra i tanti ospiti chi è il maschio che l’ha colpita di più?
«Sono rimasta in contatto con quasi tutti i 150 che ho intervistato. Nino D’Angelo che da tanto tempo volevo venisse, mi ha invitato a un concerto e poi a casa sua. Leo Gullotta è una persona di grande eleganza d’animo, con il quale ci scambiamo messaggi e commenti. Tra tanti difetti ho il pregio dell’ascolto. Non un ascolto di circostanza, ma di curiosità vera. Così, l’uomo è più disposto a raccontarsi».
Giorgia Meloni, Elly Schlein, Paola Cortellesi: questo è stato l’anno delle donne. Quando si allontaneranno dall’orlo della crisi di nervi, titolo di un film di quasi 40 anni fa?
«Un pregio che invidio al mondo maschile è la sua capacità di fare squadra, di fare spogliatoio. Noi non siamo capaci, una donna è quasi sempre massacrata da un’altra donna».
La sorellanza è soprattutto una parola di moda?
«Dobbiamo lavorarci parecchio. Quando facevo politica il male mi è sempre arrivato dalle donne. In televisione è ancora presto per dire da dove arriva. La crisi di nervi viene anche da un sentimento di diffidenza verso l’altra donna».
Quindi non è causata solo dai soprusi degli uomini?
«Non solo. Nella definizione dei ruoli c’è ancora da lavorare, forse le nuove generazioni sono più avanti. Nella mia persiste una netta distinzione tra l’uomo e la donna sia nella gestione della casa che della vita quotidiana. Oggi le donne lavorano e se tutto ricade sulle loro spalle la crisi di nervi è inevitabile».
Gli spot pubblicitari pullulano di mammi.
«La rappresentazione della pubblicità guarda alle nuove generazioni. Quella precedente è nata e cresciuta con le mamme tuttofare e ora si trova a confrontarsi con le donne multitasking».
Le donne in crisi di nervi e gli uomini di identità?
«Forse sì. Si devono abituare a una figura femminile molto cambiata rispetto a quella materna».
Queste crisi psicologiche sono anche figlie di un’educazione troppo molle?
«Mio nonno mi diceva sempre che la mangiatoia dev’essere alta perché se è bassa il cavallo non si abitua al sacrificio. E quando mi viziava, concedendomi quello che i miei genitori mi negavano, sottolineava che non si può iniziare a guidare con la Ferrari perché se nella vita ti tocca la Cinquecento vai in crisi».
Lei e suo marito che genitori siete?
«Metà e metà. La tentazione della mamma chioccia ce l’ho. Ma sprono sempre mia figlia e se si lamenta per l’atteggiamento sbagliato di un professore non mi schiero dalla sua parte, ma lascio che affronti la difficoltà anche di una situazione ostile».
E suo marito fa il papà amico?
«No. È un papà che ascolta, comprensivo e amorevole. Ma fa il padre».
Per il secondo anno fa coppia con Daniele Semprini a Estate in diretta su Rai 1.
«Essere affiatati non è scontato ed è una grande risorsa quando si co-conduce. Noi non abbiamo mai discusso, ci capiamo al volo in diretta. La televisione restituisce ogni piega… rispetto, complicità, empatia».
Quest’anno si è aggiunto anche Gigi Marzullo.
«A Ciao maschio ho usato alcune sue domande così, ora, è protagonista di un siparietto con gli ospiti con il suo libro Non ho capito la domanda».
Le dispiace che non ci sia stato il duello tv tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein?
«Molto, avevo già comprato i popcorn. Un peccato non aver visto il confronto tra due donne leader della destra e della sinistra. Infatti, l’avrei fatto sui social con un giornalista in diretta su Facebook o Instagram».
Chi l’avrebbe vinto?
«… La Meloni… Ha più esperienza. Anche se hanno molti tratti in comune. Le conosco entrambe, sono persone educate, leali, oneste e determinate».
Che cosa non ha fatto che dovrebbe fare il governo di Giorgia Meloni?
«La riforma della giustizia».
Ha fatto la separazione delle carriere, cosa manca?
«Va completata con la definizione, in alcuni casi, della certezza della pena e con lo snellimento di alcune procedure sia nel civile che nel penale. In generale, con interventi che riportino equilibrio tra i poteri dello Stato».
La magistratura ha troppo potere?
«Negli anni ne ha avuto tanto. Serve anche la riforma del Csm».
Con la nomina per  sorteggio?
«Sarebbe una buona cosa. In questi anni il potere delle correnti e di alcune figure singole ha inciso in modo esagerato».
E l’opposizione di Elly Schlein cosa dovrebbe fare che non ha fatto?
«Dovrebbe proseguire con lo slogan con cui aveva iniziato: non mi hanno visto arrivare. Dovrebbe farlo anche dentro il Pd che è un partito radicato sul territorio e ha una forza diffusa. Ma dal giorno dopo le primarie le correnti iniziano a lavorare per distruggere la persona che hanno scelto».
I cacicchi.
«Se il risultato delle Europee glielo consentirà dovrà andare fino in fondo per cambiare davvero il partito».
Le è piaciuto C’è ancora domani di Paola Cortellesi?
«Molto. La prima a vederlo è stata mia figlia che ha 12 anni, che poi ha voluto rivederlo al cinema con me e con il papà. Guardiamo molti film e serie con lei, utilizzandoli per discure i temi che affrontano, anche quelli un po’ forti».
C’è il rischio di enfatizzare l’epoca delle nonne mettendo tra parentesi le battaglie delle mamme?
«Quel film è un manifesto, un documento storico per i nostri figli e figlie. È un film che avrei proiettato nelle scuole per mostrare un passato che non è un presente e che, comunque, non deve diventare futuro. C’è una donna che anziché scappare va a votare. È un bel messaggio, ma dobbiamo trasformare questo entusiasmo in dibattito, senza lasciarlo ai salotti».
Anche perché gruppi di presunte femministe mostrano un’intolleranza isterica come si è visto in più occasioni con il ministro Eugenia Roccella.
«Mi disturba molto l’idea che un pezzo di società detenga l’esclusiva su certi temi. È un atteggiamento che ho subito anch’io ad Avanti popolo quando ospitavo una donna che parlava di femminicidi, di violenza e patriarcato. Era uno spazio mal tollerato, come se solo alcuni fossero deputati a parlare di questi argomenti. Credo che il confronto con persone che la pensano diversamente arricchisca sempre. Nei giorni scorsi ho comprato due libri: Una famiglia radicale di Eugenia Roccella e Triste tigre di Neige Sinno, su una storia di violenza sessuale».
Sul caso Scurati si sarebbe comportata come Serena Bortone, sua collega del sabato sera di Rai 3?
«No. Non avrei fatto il post su Instagram. Forse avrei fatto un casino con i vertici, ma non quel post pubblico. Lo dico da amica di Serena».
In casa come avete vissuto la campagna elettorale?
«Francesco da una settimana è in giro per l’Italia. In Rai ho visto Giuseppe Conte, Elly Schlein e Giorgia Meloni, perché il nostro studio è accanto a quello di Bruno Vespa e quando io finisco lui inizia a registrare Porta a porta».
Un dettaglio rivelatore?
«No, sono tre abili comunicatori. Ho visto la frenesia e la cautela degli ultimi giorni».
In casa sua una cerca di convincere l’altro? Litigate?
«No, mai. Evitiamo igienicamente di discutere di politica perché abbiamo opinioni opposte. In questi giorni ha scritto in una chat di amici che lo diverte il fatto che molte donne di sinistra gli chiedono di me: <Perché non ci porti anche Nunzia la prossima volta?>. Lui abbozza: <Mi sembra difficile>».
Se tornasse alla vita politica che idea proporrebbe per l’Europa?
«Più Europa».
È il nome di un partito.
«Ci vorrebbero più condivisione e più progettualità e meno egoismi».
L’Europa che vediamo oggi è fatta soprattutto di veti e vincoli.
«Dovrebbe essere un’Europa diversa, non un’entità che aggiunge rigidità a un Paese già afflitto dalla burocrazia. Per questo parlo di condivisione e progettualità».

 

La Verità, 8 giugno 2024

«Su Matteotti Meloni ha spiazzato i maestrini»

Non si finisce di stupirsi. Antonio Padellaro è stato allevato dai gesuiti, non ha mai votato per i partiti post-comunisti e il padre fascista lo ha raccomandato per fargli fare il giornalista. Lo racconta lui stesso in Solo la verità lo giuro, sottotitolo: Giornalisti artisti pagliacci (Piemme), un’autobiografia professionale nella quale mette a nudo le nevrosi e gli infortuni di una carriera che, dal Corriere della Sera all’Espresso di Claudio Rinaldi, maestro riconosciuto, dopo un passaggio all’Unità, lo ha portato a fondare (con Marco Travaglio) e dirigere Il Fatto quotidiano. Agli umori del retrobottega del foglio antiberlusconiano ora in cerca di una nuova linea di sopravvivenza, Padellaro alterna il ritratto di un tempo dominato dai social, orfano di una certa politica e di figure come Silvio Berlusconi e Gianni Agnelli. «Mi sono divertito», sintetizza, «ma la festa è finita da tempo».
Solo la verità lo giuro è un diario del crepuscolo del giornalismo o il racconto della tua illusione perduta?
«È un libro che nasce dalla richiesta di Piemme, editrice del gruppo Mondadori, concorrente di Paper first per la quale avevo scritto fino ad adesso. Perciò ho apprezzato che anche le pagine più dure nei confronti di Silvio Berlusconi siano passate senza difficoltà. Ho ripescato taccuini e registrazioni per raccontare nel modo più sincero cosa c’è dietro gli articoli che pubblichiamo. Mi sento raramente artista, a volte pagliaccio, quasi sempre giornalista».
Un’autobiografia disincantata?
«Sono contento che si colga l’autoironia. Evito le solite citazioni, il nostro è un mestiere straordinario, ma si lavoro molto. Solo che se una cosa la ami la fai con leggerezza».
La risposta data da direttore dell’Unità a Piero Fassino che voleva cacciare Travaglio – «caccia me così nomini un direttore che poi caccia Travaglio» – è una scena da Prima pagina con Jack Lemmon e Walter Matthau.
«Fassino era pressante, ma questo libro è stato scritto prima delle sue recenti disavventure e vorrei evitare l’accanimento. Sebbene L’Unità non usufruisse dei contributi di Stato, dei fondi ci arrivavano dai Ds. Ricordo che una volta io e Furio Colombo dicemmo ai dirigenti che potevamo rinunciare ai soldi, ma non a fare il nostro mestiere. La morale è che quando il giornalismo si avvicina troppo alla politica, la politica se lo mangia. Starne lontano, invece lo aiuta».
Anche Renato Soru voleva accompagnarti alla porta, poi lo fece Walter Veltroni. I tuoi rapporti con gli editori della sinistra ortodossa erano tormentati perché non eri allineato?
«Travolta dai debiti, L’Unità non andava in edicola da mesi. La nuova proprietà capeggiata da Alessandro Dalai, vicina alla sinistra Ds, chiamò Furio Colombo per risollevare il giornale. Era un mandato tecnico e professionale, non di linea editoriale. D’altra parte, io ero vicedirettore dell’Espresso e se la richiesta fosse stata di fiancheggiare il partito sarei rimasto dov’ero. Accettammo una sfida che ci parve entusiasmante. Ma poi, davanti alle pressioni, Colombo abbandonò la direzione perché non ne poteva più e io lo feci poco dopo. Penso che non esistano i martiri. Abbiamo la libertà di lasciare un giornale e cercarci un altro lavoro. Così come un editore ha tutti i diritti di mandare via il direttore».
Eri poco allineato?
«Non lo eravamo. Il nostro obiettivo era vendere in edicola e arrivammo a sfiorare 100.000 copie. Per un giornale che aveva chiuso e riaperto era un ottimo risultato. Fassino faceva le sue rimostranze e io rispondevo a tono».
Oltre a lui non ti amavano Renato Soru e Veltroni.
«Soru non mi conosceva e non posso dirlo. Con Veltroni era ed è difficilissimo litigare, ma quello che è stato non possiamo cancellarlo».
Cosa devi a tuo padre, fascista e arruolato nella Repubblica di Salò?
«Prima di tutto il convincimento di non rinnegare e non rimpiangere, che era anche un detto di Giorgio Almirante. Quella era la sua storia: bisogna riconoscere gli errori senza rinnegare. Dopo la guerra era entrato nell’amministrazione pubblica. Il secondo insegnamento è non prendersi mai troppo sul serio».
Ottimo antivirus pensando a certe primedonne di oggi.
«È un difetto accentuato dalla frequentazione della tv che dispensa popolarità. Per non parlare dei social, che evito. La televisione ci illude di essere delle star».
Silvio Berlusconi è stato la grande illusione perduta del Fatto?
«Più che grande illusione, grande tiratura perduta. Glielo dissi esplicitamente: lei ha fatto la fortuna dei suoi amici, ma molto anche quella dei suoi nemici».
Quanto è difficile per Achab rifarsi una vita senza Moby Dick?
«Difficilissimo. All’inizio del libro cito Illusioni perdute di Honoré de Balzac dove l’editore invita lo scrittore a trovarsi un nemico famoso perché così “il vostro valore aumenterà”. Ma dev’essere un nemico potente, e noi avevamo il più potente. Prima con Matteo Renzi e ora con Giorgia Meloni non è la stessa cosa. A un nemico potente corrispondeva un giornale molto vivace».
Più è strenua la lotta…
«Più si guadagnano copie. Il lettore ti conosce, si identifica e ti compra. Un giornale è un prodotto, la sfida dell’edicola è ogni mattina più difficile».
Ora che è passato un anno dalla scomparsa di Berlusconi bisogna fare i conti con le cene eleganti e lo stalliere di Arcore o considerare Milano 2, Mediaset e Forza Italia?

«In pratica, in quel periodo il “nemico” faceva lui il giornale al posto nostro. Ogni mattina le notizie di Ruby Rubacuori e delle cene eleganti erano una manna. Ora sono letteratura e storia. Hai presente quel personaggio del GialappaShow che si chiede scandalizzato “ma dove stanno le istituzioni”? Ecco, trovo grotteschi i giornalisti che fanno la morale dalla cattedra e non vogliono che si pubblichino le intercettazioni. Ma se hanno fatto la fortuna dei giornali! Posso capire che lo dicano i politici… Poi, dovevano essere molto divertenti quelle cene».
Oltre a Rinaldi, anche Giampaolo Pansa è stato un maestro di giornalisti politici. Come giudichi la sua «mutazione», dicendola alla Luca Ricolfi?
«Pansa era un irregolare, e l’esserlo era la sua forza. Al Corriere della Sera lo portò Piero Ottone, poi lo ritrovai all’Espresso dove, nel “Bestiario”, metteva sulla graticola tutti, indistintamente. Quando nel 2003 scrisse con la sua maestria Il sangue dei vinti, in base all’intuizione che un certo mondo aspettava una narrazione autentica, contava nell’apprezzamento anche della sinistra. Ricordiamo che Pansa era autore di saggi sulla Resistenza. Invece, la reazione furibonda delle persone che pensava vicine lo ferì al punto che decise di replicare una ad una alle critiche e agli insulti. Facendoci capire che la storia d’Italia era fatta anche da quella pagina che non andava nascosta».
Cosa pensi dell’insistente richiesta di abiura del fascismo a Giorgia Meloni?
«Su Giacomo Matteotti “ucciso dagli squadristi fascisti” ha detto finalmente parole chiare».
Basteranno?
«Al giudizio dei cittadini sì, forse non a coloro che ogni mattina danno le pagelle di antifascismo».
È giustificato il continuo allarme democratico attivato dalle firme benpensanti?
«È un’espressione che andrebbe usata in circostanze di pericolo reale. Usata continuamente è un suono fine a sé stesso».
Eppure ogni settimana c’è un nuovo martire, dopo Antonio Scurati ora Roberto Saviano.
«Mi spiace non essere stato censurato, probabilmente non lo merito, perché sarei cresciuto in popolarità e copie vendute. D’altro canto, penso che nella destra ci sia un ufficio che sponsorizza gli intellettuali di sinistra».
La Fiera di Francoforte rischia di trasformarsi nella fiera delle vanità?
«Sì, se si fa di tutto – vero Mauro Mazza? – per alimentare la vanità dei vanitosi».
Aveva ragione Massimo D’Alema quando diceva che continuando a criminalizzare Berlusconi lo si rafforzava?
«Dal punto di vista politico sì, dal punto di vista giornalistico no».
È lo stesso trattamento attuato nei confronti di Giorgia Meloni?
«È un meccanismo simile, che però non funziona. La risposta di Giorgia Meloni a Vincenzo De Luca l’ho trovata efficace. Credo che la stragrande maggioranza pensi che ha fatto bene. Un po’ come lo pensa a proposito del Papa che ha parlato di “frociaggine” nei seminari. Ciò che conta non è il giudizio delle nostre confraternite, ma delle persone che ci leggono e votano. Mi sembra che sia la Meloni che papa Francesco abbiano aumentato la loro popolarità».
Sei spesso ospite di La7: hai trovato irrispettoso il messaggio che il premier ha indirizzato ai suoi telespettatori?
«Mi ha sorpreso che un protagonista assoluto di La7 come Enrico Mentana non lo abbia trovato irrispettoso».
Perché?
«Perché è controcorrente. Sono i giornalisti di La7 che devono rispondere. Per Corrado Formigli la Meloni ha superato il limite della decenza, per Mentana no. Detto questo, se Meloni la smettesse di attaccare i media… Tra tante qualità non ha quella di saper prendere i giornalisti. Mentre l’informazione va maneggiata con cura, anche quella ostile».
Sebbene i talk show di La7 la dipingano come Attila?
«Come ha fatto con De Luca anche in questo caso potrebbe capovolgere il giochino. Se dopo le elezioni europee si facesse intervistare da Formigli o da Lilli Gruber, senza far torto ad altri, farebbe qualcosa d’inaspettato ed efficace».
Perché il libro si chiude con la citazione della festa nell’attico di Leonard Bernstein a Manhattan in cui Tom Wolfe identifica l’esemplare del radical chic?
«Parlo della necessità che abbiamo, io compreso, di essere narcisisticamente al centro della scena. Il reporter descritto da Tom Wolfe si sente escluso dai crocchi e perciò delegittimato. L’epoca d’oro dei giornali la dobbiamo a Indro Montanelli, Eugenio Scalfari, Giampaolo Pansa e Giorgio Bocca: grandi giornalisti e grandi narcisi».
Replicando al premier, Michele Serra dice che quell’espressione è «un fantoccio retorico usato da chi non ha argomenti propri da spendere».
«Oggi sì, è un’espressione usurata. Come lo è allarme democratico».
Però la realtà esiste.
«Qua e là, ma non è determinante. Né l’insistenza sui radical chic né quella sull’allarme democratico fanno cambiare parere o inducono qualcuno ad andare a votare. Ciò che lo farebbe sarebbe, per esempio, riuscire ad accorciare i tempi di attesa per effettuare esami e interventi vitali negli ospedali. Ma di questo nessuno parla».

 

La Verità, 1 giugno 2024

«Più che un diritto l’aborto è una tragica necessità»

Tornare ai fondamentali» sono le prime parole di «Ma io ti ho sempre salvato», il nuovo libro di Luciano Violante, sottotitolo: La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri). Un centinaio di pagine dense e commoventi soprattutto nel capitolo finale, dedicato a «Le mie morti». I «fondamentali», infatti, sono la vita e la morte. Alla cui dialettica inesauribile l’ex magistrato, già presidente della Camera e attuale responsabile della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine, dedica la sua attenzione più ancora che all’altra coppia di categorie, guerra e pace, solitamente ritenuta prioritaria.
Presidente Violante, questo libro è una riflessione filosofica, civile o esistenziale?
Soprattutto civile.
Mossa da cosa?
Dalla mia età. Hai la possibilità di guardare attorno. Viviamo circondati dalla morte, sia a causa delle guerre sia per gli annegamenti dei migranti. C’è una grande campagna per la dignità della morte; ne manca una analoga per la dignità della vita.
Chi era sua madre?
Una donna di grande determinazione e forza di volontà. Garbo e fermezza nel rapporto con gli altri.
Che cosa vuol dire il titolo del saggio «Ma io ti ho sempre salvato»?
È una frase che mi ha detto negli ultimi giorni di vita quando sono stato con lei in ospedale. Dai suoi deliqui ho capito le aggressioni che ha subito, prima nel campo di concentramento inglese in Etiopia dove sono nato, e poi nel percorso da Napoli al paese di mio padre, in Puglia, quando lui, comunista,  era ancora prigioniero degli inglesi. Mi guardava, sorridendo: «Ma io ti ho sempre salvato», diceva. Nel campo di Dire Dawa  alcune amiche l’avevano invitata ad abortire, «Vuoi far nascere tuo figlio in questo immondezzaio?». Ma lei mi aveva salvato, facendomi nascere. Allora penso a tutte le madri che non possono dirlo perché hanno perso i loro figli, magari annegando in mare. Mi ha colpito molto sapere che sui fondali marini si trovano cadaveri di madri stretti a quelli di bambini piccoli.
Perché, mentre incombono due conflitti che turbano il mondo invece che sul dualismo guerra-pace si dedica a quello tra vita e morte?
La dialettica tra guerra e pace riguarda gli Stati, quella tra vita e morte riguarda le persone, quindi è più profonda. Se ci battessimo per la vita piuttosto che per la pace saremmo ascoltati di più.
«Le questioni della vita e della morte andrebbero giudicate non con la miserabilità del metro giuridico, ma con quello del destino dell’uomo»: ammette che può stupire scritto da lei, uomo di diritto?
Chi conosce il diritto, ne conosce anche i limiti.
Li conosceva anche 20 o 30 anni fa?
Con l’andare del tempo matura una visione più profonda delle cose grazie alle esperienze su cui la vita ci fa riflettere.
Che cos’è la «biopolitica» e come può rinnovare l’impegno per il bene comune?
La biopolitica si compone delle riforme che favoriscono la dignità della vita. Noi abbiamo una politica degli asili diversa da quella della scuola, a sua volta diversa da quella del lavoro e della salute. Un governo dovrebbe saperle promuovere insieme, collegandole organicamente le une alle altre.
Che cosa pensa del fatto che la sinistra, un’appartenenza che non so se per lei è ancora valida… Anzi, si considera ancora un uomo di sinistra?
Assolutamente sì.
Che cosa pensa del fatto che aborto, eutanasia, suicidio assistito, i diritti per cui si batte la sinistra, hanno a che fare con la morte?

Non si batte solo per questi, ma anche per il salario minimo e per una sanità efficiente.
Ma i diritti civili sembrano avere questa inclinazione.
Noto un allargamento importante ai diritti sociali.
Cosa pensa dell’impegno del presidente francese Emmanuel Macron, il leader intellettuale dell’Unione europea, nell’introdurre l’aborto come diritto nella Costituzione continentale dopo averlo fatto in quella del suo Paese?
Non credo che l’aborto possa definirsi  un diritto;  può essere in alcune circostanze una tragica necessità. Comunque noi uomini su questo tema dovremmo lasciare la parola alle donne.
Concorda con la convinzione diffusa che, siccome incombono conflitti, catastrofi ambientali e pervasivi domini tecnologici, è meglio non procreare?
Non concordo. È una forma di egoismo che ci fa consumare tutte le risorse che abbiamo a disposizione.
C’è anche chi ipotizza un contenimento delle nascite per non peggiorare lo stato del pianeta.
Il problema è gestire la presenza umana in modo tale che non provochi danno all’ambiente. Se ci sono meno esseri umani, ma ci si comporta male ugualmente, la situazione non migliora.
I giovani di «Ultima generazione» lamentano l’eco-ansia: oltre a causare nuovi protagonismi, i toni apocalittici causano anche nuove patologie?
Mi colpiscono le rivendicazioni dei giovani attorno ad alcuni grandi temi. Che a Gaza sia in corso un massacro è difficile negarlo. Apprezzo anche la mobilitazione dei ragazzi che in Georgia si ribellano alla legge russa che pretende di controllare le associazioni culturali.
Si può parlare davvero di un nuovo Sessantotto?
No. Il Sessantotto esprimeva una teoria generale contro il potere, oggi siamo di fronte a mobilitazioni su fatti specifici attorno ai quali si costruisce consenso e dissenso.
Anche se in alcuni casi il dissenso è poco tollerato da questi giovani.
Chi esercita un potere politico si espone e sa che può essere oggetto di critiche. Anche a me è capitato. Una volta, a Genova, un gruppo che dissentiva da quello che dicevo mi svuotò una bottiglia d’acqua in testa.
Non piacevole, però dissentivano da qualcosa che era riuscito a dire. Oggi accade che s’impedisca di parlare.
I comportamenti che abbiamo visto attuare nei confronti del ministro per la Famiglia Eugenia Roccella, che conosco e stimo, sono sbagliati. Tuttavia il politico deve mettere in conto la critica anche aggressiva. Ma impedire di parlare a chi la pensa diversamente è inaccettabile.
Secondo lei l’inverno demografico è causato dalle scarse politiche di sostegno alle famiglie o da un’idea disimpegnata della vita delle giovani coppie?
Credo che il costo della crescita di un bambino, calcolato in 600 euro al mese, sia in molti casi insostenibile.
Perché negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in condizioni di maggior povertà, si è comunque verificato il boom demografico?
Eravamo più abituati a essere poveri perché lo eravamo tutti. Non ci sentivamo obbligati a possedere una certa automobile, una certa tv, un certo frigorifero.
Quindi il mantenimento di un certo tenore di vita c’entra.
Reggere un normale tenore di vita e in più spendere 600 euro per un bambino non è alla portata di tutti. Quanto costa oggi in carburante e in trasporti spostarsi quotidianamente dalla periferia al centro?
Scrive che essere intellettuali non è un privilegio, ma una responsabilità. Qual è il ruolo degli intellettuali nella società contemporanea?
Dare un senso a quello che accade.
Un compito ben diverso da come viene interpretato da quelli più gettonati dai media.
Certo, è una cosa diversa. In quei casi siamo nel campo dello spettacolo.
Che cosa pensa del sistema Liguria? Siamo davvero di fronte a una nuova Tangentopoli?
Vorrei capire un po’ tutto. Da qualche stralcio di intercettazioni abbiamo intuito che qualcosa di marcio c’era. Quanto, lo capiremo quando avremo tutti gli elementi in mano.
Troverà mai un equilibrio stabile il rapporto tra politici e magistrati?
È un equilibrio per sua natura instabile. In America Donald Trump è sotto processo, la giustizia francese ha condannato Nicolas Sarkozy e in Spagna è stato fatto il governo grazie all’amnistia, azzerando decine di  condanne.
È ovunque un rapporto travagliato.
Per sua natura: giustizia e politica sono due sovranità in perenne tensione, che hanno i confini in comune.
È favorevole alla riforma per la separazione delle carriere?
È inutile perché sono già separate. In alcuni paesi si ritiene positivo che si passi da una competenza all’altra.
Magari dove la magistratura è meno militante.
In Francia non scherza.
Quando morì una zia ultracentenaria lei disse «è calato il sipario», mentre una suora sussurrò «forse si è sollevato». L’eternità la spaventa?
No. Il punto è questo: come può un qualunque essere umano pretendere di cogliere la  complessità del divino?
Sicuramente non può circoscriverlo come ipotizzava il razionalismo illuminista.
Con la pretesa di spiegare tutto. Dobbiamo essere consapevoli dei nostri limiti.
Presidente, lei cancella dalla rubrica del cellulare i numeri delle persone che non ci sono più?
Quello di mia moglie certamente non lo cancellerò.

 

Panorama, 22 maggio 2024