«La Murgia conformista non è la mia sinistra»

Ormai, anche chi è di sinistra rigetta il conformismo di sinistra. I ricettari mielosi delle buone maniere. I decaloghi di linguaggio depurato, di quello che si può dire e quello che no. All’ennesima comparsata televisiva di Michela Murgia, campionessa del ramo, Paolo Landi, advisor di comunicazione per grandi marchi (da Benetton a Ovs), autore di saggi in materia come Volevo dirti che è lei che guarda te (Bompiani) e Instagram al tramonto (La nave di Teseo) e raffinato recensore di Doppiozero.com e minimaetmoralia.it, si è messo al computer e ha mandato a Ilsaltodellaquaglia.com una fenomenologia dell’autrice di Sta zitta – e altre nove frasi che non vogliamo sentire più (Einaudi). Vado a trovarlo nella sua casa sul Sile a Treviso.

Facendo una rapida sintesi, lei si sente meno di sinistra a causa del conformismo di sinistra?

«Per mia formazione non credo che sarò mai di destra perché qualcosa è scattato dentro di me. Ma non so se oggi sono più a destra della Murgia o se la Murgia è più a destra di me. Mi pongo questa domanda perché il conformismo che emerge, per esempio, dal suo ultimo libro, mi sembra non abbia niente a che fare con la sinistra».

Su Ilsaltodellaquaglia.com ha scritto che… A proposito, cos’è questo sito?

«È un magazine online di un gruppo di ragazzi siciliani che ha come sottotitolo <l’informazione oltre lo steccato>».

Sono tanti nell’informazione?

«Come nello sci, anche nell’informazione bisogna imparare lo slalom per superare gli ostacoli. Oggi l’informazione è sempre più ricca anche grazie al Web, ma dobbiamo evitare le fake news e anche quell’informazione conformista che non fa crescere».

Dicevo, ha scritto che «il conformismo di sinistra, di cui è eccelsa campionessa Michela Murgia, è una brutta bestia: per noi radical chic è la morte del pensiero». I radical chic sanno essere anche cattivi?

«Detesto la definizione di radical chic, l’ho utilizzata ironicamente per dire che la Murgia non fornisce strumenti di comprensione diversi da quelli che già possediamo. Ma siccome imperversa sui giornali, in tv e in libreria sarebbe auspicabile che da questi pulpiti dicesse qualcosa di nuovo anziché ripetere cose note».

Cito ancora: «Noi di sinistra (o ex di sinistra, chi lo sa… se la sinistra ora è quella della Murgia) ci addormentiamo proprio: alla quinta riga di un suo articolo, alla seconda pagina del suo ultimo libro, per non dire quando compare nel salotto della dottoressa Gruber». C’è una sinistra diversa da quella della Murgia?

«Sicuramente c’è, il problema è che non ha voce perché domina il conformismo. Alla fine tutti ci confrontiamo con l’informazione massificata. In pochi leggiamo Il Manifesto o altre testate minori. Chi dice cose stimolanti è marginale, mentre la sinistra conformista deborda».

Perché coincide con il mainstream?

«Perché è una sinistra luogocomunista».

Perché i suoi testimonial si attardano sul linguaggio e le desinenze al femminile?

«La domanda vera è perché pensiamo che sia importante chiamare una donna ministra invece che ministro. Qualcuno ci ha fatto credere che il progresso dipenda da queste correzioni formali. Personalmente, dubito che queste battaglie facciano avanzare la parità di genere. C’è un’ingiustizia più grande e sostanziale che dovrebbe trovare uniti uomini e donne, a prescindere che si chiamino direttore o direttrice d’orchestra».

Adesso la Murgia si sente spaventata dalla divisa del generale Figliuolo.

«Se uno è un generale dell’esercito perché dovrebbe spaventare se indossa la divisa? Potrebbe spaventare se la indossasse senza essere generale. La Murgia si spaventa forse per la divisa di un pompiere? O di un vigile urbano? Se non subisce il fascino delle divise è un problema suo. Ma dicendola in un talk show di prima serata una scemenza del genere diventa il dibattito del giorno dopo».

Altri campioni di conformismo sono Fedez e Chiara Ferragni?

«Viviamo in un momento in cui la politica ha smesso di fare il suo mestiere e qualcun altro prova a riempire questo vuoto. Come sarebbe stato meglio che Beppe Grillo avesse continuato a fare il comico, così converrebbe che Ferragni e Fedez continuassero a far bene il loro. Ho letto che stanno reclutando dei giovani per gestire politicamente i social. Il vero problema è che la politica ha smesso di prendersi a cuore le persone che hanno meno strumenti a disposizione».

I Ferragnez potrebbero rispondere che s’impegnano in questa direzione.

«Infatti, ognuno è libero e loro fanno bene a dire quello che hanno da dire. Io mi chiedo perché la politica ceda ai comici, agli attori e agli influencer il compito di cambiare il mondo. Dovrebbero essere i politici a riappropriarsi di un linguaggio pedagogico, in grado di spiegare la complessità».

Invece?

«I Ferragnez sdottoreggiano e i politici si fanno vedere mentre mangiano la porchetta».

O vanno in tv da Barbara D’Urso.

«Invece di mantenere una spinta ideale, si cercano scorciatoie popolari che portano al populismo».

Che cosa pensa del fatto che per tradurre l’opera di Amanda Gorman bisogna essere una donna di colore attivista dei diritti?

«Il politicamente corretto sposta sempre il problema su questioni formali e secondarie. Discutiamo se le opere di Amanda Gorman possano essere tradotte da un uomo o una donna bianca, ma nessuno dice che le sue poesie sono brutte. Non si può dire perché è una persona non udente e di colore?».

Che, per ragioni di marketing, indossa un cappotto giallo di Prada.

«Il cappotto di Prada non è interessante. Lo è ciò che propone, la qualità dei testi che, grazie alla ribalta che le è concessa, hanno un’audience mondiale. Hanno dato il podio dell’insediamento del presidente degli Stati uniti a una poetessa mediocre che è diventata un’icona globale. La Murgia imperversa nei nostri media e diventa una maestra del pensiero».

Una questione di sovraesposizione?

«Bisognerebbe che imparassero a osservare un minuto di silenzio. Il mainstream domina, mentre le voci meno conformiste non le senti perché soffocate da chi pensa che la parità di genere arriverà quando non si pronunceranno le frasi che infastidiscono la Murgia».

Svettano nelle classifiche perché l’industria culturale è imperniata su questi modelli?

«La qualità non fa più testo, a tutti i livelli. In politica si cerca la fama, la visibilità. Amanda Gorman sta alla poesia come Grillo alla politica. Ma entrambi sono mediocri e la mediocrità non fa progredire».

Una certa vacuità della sinistra si evidenzia anche nell’evoluzione dei suoi maître à penser?

«Sì, purtroppo. Non voglio nemmeno fare confronti. Io ho avuto la fortuna di leggere Pasolini sul Corriere della sera. Chi legge i giornali di oggi credo sia molto meno fortunato».

Enrico Letta che, in piena emergenza pandemica, si presenta da segretario del Pd parlando di ius soli e voto ai sedicenni è un altro esempio di distanza dalla realtà o fa solo la guerra alla Lega?

«Non voglio entrare nelle dietrologie. Mi preoccupa il fatto che la politica abbia rinunciato a misurarsi con la complessità. I social la costringono a esprimersi per slogan. Così è nata quella che chiamo politica masterchef, fatta di ricette, di formule che non risolvono i problemi, ma danno l’impressione che ci si stia riflettendo».

Letta ha recuperato terreno intestandosi la battaglia per le capogruppo donne in Parlamento?

«I percorsi di Maria Elena Boschi e Teresa Bellanova in Italia viva, di Giorgia Meloni segretaria di FdI, di Anna Maria Bernini o Mara Carfagna in Forza Italia sono lì da vedere. Questo non vuol dire che in politica la parità di genere sia stata raggiunta. Ma che la polemica sulla rappresentanza femminile è strettamente interna al Pd e non un’emergenza generale».

Creando una sorta di bolla i social provocano un distacco dalla vita della gente comune?

«I social hanno introdotto il primato della facilità, del tempo reale, della giocosità. A scapito dell’introspezione e della ricerca. Perciò pensiamo di risolvere questioni di portata enorme come l’emigrazione o la parità di genere con slogan e azioni sommarie come fermare una nave fuori da un porto o intimando a un uomo di non dire a una donna <adesso ti spiego>».

Un anno fa ha scritto un saggio su Instagram nel quale evidenziava il pericolo dell’omologazione. Oggi a che punto siamo?

«Credo persista una certa ignoranza relativa all’aspetto economico dei social. Gran parte dei fruitori non si rende conto che i social sono prodotti commerciali, venduti da corporation. Su Instagram ci coccoliamo con i cuoricini, su Twitter ci sembra di partecipare a battaglie che cambiano il mondo. In realtà, non facciamo che consumare un prodotto commerciale. Da qui nascono una serie di interrogativi molto più pregnanti, per esempio sulla democrazia».

Come giudica le decisioni di oscurare i profili non allineati, da Donald Trump su Twitter alla piattaforma Byoblu su YouTube?

«I social sono prodotti commerciali che hanno diritto di fare quello che vogliono. I temi della politica non andrebbero trattati su piattaforme-prodotto, ma in luoghi istituzionali, ufficiali, in cui il dibattito è regolato. Altrimenti, dobbiamo aspettarci che una policy aziendale intervenga in un senso o nell’altro. L’errore è illudersi. Finché Jack Dorsey, un privato, sarà proprietario di Twitter potrà oscurare il profilo di Trump».

Anche se al contempo non oscura gli account nazisti?

«Fortunatamente hanno scarso seguito. Lo scandalo non è che Twitter oscuri Trump, ma lo strapotere che queste corporation si stanno prendendo senza che nessuno muova un dito. Fanno affari sul 91% del pianeta, perché  è questo che fanno, ma pagano le tasse solo in America».

Il futuro è dei social, degli influencer, delle poetesse che vestono Prada come il diavolo?

«Sembra brutto accanirsi su persone di buona volontà come Amanda Gorman o Michela Murgia. Ma se vogliamo progredire credo che il dibattito debba spostarsi dal conformismo che loro incarnano a forme di comprensione del mondo meno stereotipate e più complesse, meno superficiali e più profonde».

 

La Verità, 10 aprile 2021