L’azzardo di Ammaniti è una distopia di nome Anna

Niente male come azzardo. Produrre una serie distopica nella quale un virus ha falcidiato gli adulti in un momento in cui una vera pandemia sta mietendo vittime soprattutto tra gli anziani. O la va o la spacca. Il rischio potrebbe comportare il rifiuto del pubblico televisivo, già quotidianamente sommerso da un’informazione apocalittica. Abbiamo i telegiornali farciti dalla contabilità pandemica e tutti i canali intasati di talk show pullulanti di virologi ed epidemiologi che disegnano scenari più o meno foschi: ci mancava Anna, miniserie in sei episodi tratta dall’omonimo romanzo (Einaudi), pubblicato nel 2015 da Niccolò Ammaniti, qui alla seconda prova da regista per Sky Italia (dopo Il Miracolo). Prodotta da Wildside del gruppo Fremantle e coprodotta da Arte France, The new life company e Kwaï, scritta dallo stesso Ammaniti con Francesca Manieri, la serie Sky original andrà in onda dal 23 aprile, giorno in cui tutte le puntate saranno disponibili per la visione sequenziale.
All’epidemia soprannominata «la rossa», un virus che si manifesta con strane macchie sulla pelle prima di attaccare gli organi vitali fino alla morte, sono sopravvissuti solo i bambini e gli adolescenti. In loro il virus «è dormiente», per adesso. In una Sicilia di rottami e rifiuti, dove la natura fagocita i resti della civiltà, resiste solo la legge della sopravvivenza. Ma quando Anna (l’esordiente Giulia Dragotto) fa ritorno nella casa dentro il bosco dove sfanga la giornata, il fratellino Astor (Alessandro Pecorella, anche lui debuttante) non c’è più, rapito dalla banda dei Blu. Oltre all’aiuto di Pietro (Giovanni Mavilla), coetaneo complice e rivale, Anna può contare sul Libro delle cose importanti nel quale la mamma (Elena Lietti) ha trascritto regole e consigli utili ad affrontare la vita «quando io non ci sarò più». Una sorta di lascito, di bussola per l’esistenza in cattività. «Fuori dal bosco ci sono tanti pericoli, ma voi insieme li affronterete. Siete fratelli, siete una famiglia», sottolinea, sebbene abbia istericamente allontanato il compagno al primo palesarsi dell’infezione. Tra piccole insidie e grandi agguati, tra un flashback e qualche reminiscenza da Io non ho paura, tra qualche visione onirica e le apparizioni del fantasma materno, inizia la caccia al fratellino rapito. Che è ricerca del legame con il passato e possibilità di costruzione di un futuro.

«Volevo raccontare una ragazzina costretta a superare i propri limiti, a fare la madre senza esserlo», spiega l’autore e regista. «Volevo vedere che cosa fanno i bambini senza gli adulti, come affrontano il futuro. L’adolescenza è una delle mie ossessioni. E siccome sono un biologo, mi è venuta in mente la situazione creata da un virus che li costringe a far da soli. Con l’esclusivo aiuto della memoria, di un’educazione che proviene dal passato e che si condensa in quel libro delle regole».

Insomma, la chiave interpretativa è nel passaggio di contenuti dagli adulti agli adolescenti. Forse è per questo che fin dalle parole dell’incipit rivolte dal fratellino ad Anna – «Mi racconti del fuori?» – echeggia l’aria moraleggiante dell’«andrà tutto bene» del primo lockdown. Raccontare una catastrofe epidemica in un momento come questo sperando di non creare sovrapposizioni è impresa ardita assai. «L’epidemia da Covid 19 è scoppiata sei mesi dopo l’inizio delle riprese», si avverte all’inizio di ogni episodio. Certo per segnare la distanza dall’attualità. Ma forse, al contempo, anche per segnalare una certa preveggenza autoriale. Chissà se queste sottigliezze convinceranno i telespettatori. Ha un bel dire Nicola Maccanico, vice presidente esecutivo di Sky Italia, che, non essendo voluta, «la sovrapposizione con l’attualità ci ha liberato dal dubbio» di rinviarne la programmazione. Se ci sono, sono «assonanze involontarie. Anna è una meravigliosa storia di fantasia che va a toccare le domande più profonde delle persone». Tutto vero. Ancor più vera è la quotidianità nella quale cade la finzione. Pure Maccanico deve ammettere che «la sera in tv si stenta a trovare una rete in cui non si parli del Covid. Ma», assicura, «Anna è un viaggio diverso, porta speranza». Tuttavia, a conti fatti, è probabile che la storia creata da Ammaniti sedurrà più facilmente quella parte di pubblico che crede che «la pandemia ci renderà migliori». E che, sebbene per fiction, abbia voglia di un’ulteriore immersione nella tragedia dei contagi e della morte. Invece, all’Italia che ha patito davvero per il Covid, la distopia di Ammaniti potrebbe risultare un fastidioso esercizio da laboratorio. Un’epidemia da manuale. La situazione giusta per avviare il ricalcolo della civiltà ad opera dei migliori. Come quello echeggiato dalla sigla della serie, Settembre di Cristina Donà: «Tu mi dicevi che la verità e la bellezza non fanno rumore/ Basta solo lasciarle salire, basta solo farle entrare/ È tempo di imparare a guardare/ È tempo di ripulire il pensiero/ È tempo di dominare il fuoco/ È tempo di ascoltare davvero».

Insomma, la palingenesi dei buoni.

 

La Verità, 13 aprile 2021