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«Le donne vere vittime del neofemminismo»

Irrequieta e dinamica, Annina Vallarino ha cambiato spesso città: Genova, Bologna e Milano, poi Londra, dove ha conseguito il master al London college of communication, e ora il sud della Francia. In mezzo a tanti spostamenti, il suo centro di gravità è il lavoro di editor e la scrittura con una predilezione per le questioni femminili. Ha appena pubblicato Drama (Neo edizioni), il suo primo romanzo e, subito dopo, il saggio Il femminismo inutile. Vittimismo, narcisismo e mezze verità: i nuovi nemici delle donne (Rubbettino editore).
Come mai un titolo così controcorrente?
È un titolo che, molto umilmente, si rifà a Il sesso inutile, scritto da Oriana Fallaci nel 1961. Esprime il mio pensiero sul neofemminismo odierno: dannoso e quindi inutile.
Che cosa le ha fatto fare una simile follia?
Ho vissuto a lungo a Londra e visto da vicino l’evoluzione del neofemminismo. Ho letto saggi critici inglesi, americani, francesi, ma nessuno osava proporne uno per il pubblico italiano. Così, l’ho visto come una necessità. Poi ho incontrato i dirigenti della casa editrice Rubbettino…
Le neofemministe sono il suo movente?
Il conformismo paralizza il pensiero. Se una donna dice qualcosa che non rientra nel canone prestabilito è considerata una traditrice. Da post-femminista ritengo necessario guardare avanti, mentre su molti fronti stiamo assistendo a una regressione culturale.
È per questo che alcune neofemministe sostengono che «non è un bel momento per essere donne»?
No. Lo dicono perché serve a creare l’«esercito di spaventate». Il catastrofismo rimpolpa le platee di lettrici e di seguaci. Questo non significa che non ci siano problemi reali, ma da qui a dire che siamo una classe di oppresse c’è un oceano.
L’arma principale di questo movimento è il vittimismo?
Essere vittime rende intoccabili e innocenti. Oggi è impossibile attribuire una pur minima corresponsabilità anche alla vittima. Una volta si diceva «se l’è cercata», oggi per fortuna non più. Ma siamo precipitati nell’atteggiamento opposto: se si danno consigli di prudenza alle ragazze scatta subito l’accusa di victim blaming. Niente discernimento, parlare di prudenza equivale a colpevolizzare le ragazze.
La vittima ha ragione a priori, se poi è donna ha un potere illimitato: perciò sembra che le donne abbiano solo diritti?
Si dà sempre ragione ai bambini capricciosi e ai matti. Le neofemministe sentenziano che una donna non può criticare un’altra donna. Ma è un approccio regressivo che nega alle donne lo status di persone e individui completi, prima che di donne.
La vittimizzazione è un metodo di affermazione: «soffro quindi esisto». Cosa pensa delle interviste con la rivelazione incorporata del trauma infantile o adolescenziale patito?
In inglese si chiama oversharing, eccesso di condivisione. Oggi l’eroe è chi condivide il trauma con il pubblico non colui che svela come l’ha superato. Per questo racconto la storia di Samantha Geimer, la ragazzina tredicenne violentata da Roman Polanski che si è stancata del ruolo di vittima nel quale i media l’hanno imprigionata. Dice: ok, mi è successo, ho sofferto, ma sono ripartita. Le neofemministe la considerano una «povera inconsapevole».
Oltre a quella rappresentata dalle tante donne al potere, anche questa è femminocrazia?
La soluzione alla maschiocrazia non è certo la femminocrazia. Abbiamo bisogno di politici bravi e capaci che parlino a tutti. Le donne devono entrare nell’agorà come individui.
Che ruolo hanno le star di Hollywood e le donne dell’upper class americana?
Sono state fondamentali per il Metoo, che negli ultimi tempi è diventato una sorta di marketing della sofferenza che premia le donne che si mostrano vulnerabili.
Come mai pur avendo successo ed essendo esaltate dai media sono così frustrate?

Lo sono davvero? Non essendoci più il rapporto verticale con il pubblico, la star vuol farci credere di essere come noi.
E noi ci cadiamo in pieno?
Anche perché il racconto del trauma diventa subito intrattenimento. Ci piace farci gli affari delle celebrity. Inoltre, parlando di molestie, il sesso vende.
Tutto questo cosa c’entra con l’emancipazione femminile?
Niente. È un femminismo elitario, di lusso, degli affari marginali. Settimane a parlare di Giorgia Meloni che vuole farsi chiamare premier con l’articolo maschile… Utilità per la vita quotidiana delle donne? Zero.
Ma si combatte il sessismo della grammatica italiana.
Altro tema molto middle class, come direbbero gli inglesi, il cui unico scopo è far vendere libri e aumentare i follower. Questo controllo del linguaggio mi ricorda le suore di una volta che pretendevano il parlare pulito.
Che cosa accomuna il neofemminismo propugnato da Michela Murgia, Laura Boldrini e Rula Jebreal?
Il fatto di essere maternaliste. Si propongono come fari della massa. Parlerei di influencer più che di intellettuali, perché tendono a dire quello che molte donne vogliono sentirsi dire. Invece, gli intellettuali sanno essere scomodi a costo di deludere la loro platea.
Il maternalismo gemello del paternalismo?
Condannano il paternalismo, ma lo sostituiscono rivolgendosi a delle bambine, non a persone adulte.
Il neofemminismo intersezionale è molto ambizioso perché allarga la sua sfera d’azione?
È un’espansione illusoria. L’intersezionalità trascura pilastri fondamentali come la laicità, baluardo dei diritti femminili, e la dimensione di classe. Non è in grado di parlare a tutte le donne, ma solo alle sue adepte che comunicano fra loro con un lessico cifrato. Le intenzioni sono nobili, la messa in pratica no. Il 7 ottobre le intersezionali hanno optato per il mutismo davanti alle donne ebree violentate. Nella loro mappa di oppressione non erano le vittime perfette.
Che cos’è la noia di essere libere?
Nel mondo odierno, dove la sopravvivenza non è più la nostra principale preoccupazione e il tempo libero abbonda, è quasi naturale, in assenza di nemici reali, crearne di immaginari. A me molte di queste accese discussioni su inezie sembrano il sintomo di donne fortunate, che hanno tanto tempo libero e nessun problema serio da affrontare.
Un’altra regola delle neofemministe è non pretendere da loro la coerenza, così possono avere ascelle non depilate per ribellarsi ai canoni occidentali e al contempo indossare abiti firmati.
Viviamo felicemente in un momento di libertà. Ma se ci si pone come guide del pensiero femminista bisogna accettare di rispondere a delle domande. Invece, si rifiuta il dibattito. No debate è uno slogan di questo movimento.
Messo in pratica anche impedendo al ministro Eugenia Roccella di parlare?
L’intolleranza non è un fenomeno solo italiano, basta guardare cos’è accaduto in Gran Bretagna a J. K. Rowling. Le femministe storiche sono tacciate come Terf (Femministe radicali trans escludenti ndr) perché pensano che l’identità sessuale non debba essere soppiantata da quella di genere.
«Cultura dello stupro», «mascolinità tossica», «patriarcato sistemico»: c’è anche una nuova lingua?
Sono espressioni di moda nate nei college americani, versioni pop del linguaggio accademico. Servono a far sentire esperti chi le usa. Per esempio, una locuzione come «cultura dello stupro», non è solo usata dalla ragazzina con le amiche o dall’influencer nelle slide, ma anche dai giornalisti e dai media. E spesso viene accettata senza capire bene cosa c’è dentro.
E cosa c’è?
È un termine bulldozer che descrive un generico ambiente culturale e ormai racchiude tutto il ventaglio di ciò che opprime le donne, dallo sguardo insinuante fino al femminicidio. Ma nella sua malleabilità dimostra la sua vaghezza.
Nel libro parla dello statistichese neofemminista.
Sono le mezze verità. Per esempio, la disparità salariale raccontata come un furto. Nessun economista ne parla così, ma come di un fenomeno complesso, legato alle scelte dei campi lavorativi, al fatto che molte donne optano per il part-time o che devono assentarsi per la maternità o la cura della famiglia.
Infine c’è l’antagonismo nei confronti degli uomini, dipinti a volte come ontologicamente colpevoli.
Siamo ancora in piena ideologia nordamericana. Queste accuse sono un boomerang perché alimentano gli influencer maschili che rispondono all’odio misandrico con l’odio misogino. Il risultato è la polarizzazione del dibattito, fino all’incomunicabilità.
Perché l’attore Timothee Chalamet è così idolatrato?
Perché, se il nuovo obiettivo è decostruire il maschio, lui è l’immagine dell’uomo riformato che deve somigliare alla donna.
È l’icona globale della fluidità del Terzo millennio?
Credo lo sia per un gruppo ristretto di donne. Nei sondaggi, la gentilezza e la vulnerabilità non svettano tra i motivi che presiedono alla scelta di un uomo, mentre lo sono la protezione e la ricerca di sicurezza. Perché poi, non di rado, nella vita reale, le donne si innamorano degli uomini che le infastidiscono.

 

Panorama, 10 luglio 2024

«Con il ddl Zan cattolici a rischio discriminazione»

Massimo Introvigne è uno studioso di profilo internazionale non fosse altro per la specializzazione in sociologia delle religioni. È autore di una settantina di volumi sul pluralismo religioso e direttore del Centro studi sulle nuove religioni (Cesnur). Nel 2011 è stato rappresentante dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa. Dal 2016 vive e lavora in Toscana. È la persona giusta a cui chiedere un giudizio sul dibattito a proposito dei cattolici che, amando un dio bambino, rifiuterebbero la complessità.

Professor Introvigne, cosa pensa dell’articolo di Michela Murgia sull’infantilismo dei cattolici?

«Scrivo anch’io sui quotidiani e so che la titolazione di solito non è opera degli autori. In questo caso mi sembra si sia scelto un tono impropriamente aggressivo per provocare, devo dire con successo, un dibattito sugli altri giornali, il Web e i social. Ma Il titolo non corrisponde all’articolo, che contiene alcune argomentazioni condivisibili, altre in parte condivisibili e altre ancora decisamente problematiche».

Tra queste ultime c’è che l’accusa d’infantilismo dovrebbe riguardare tutti i cristiani e non solo i cattolici?

«Diversi elementi fanno ritenere che l’autrice non sia esattamente una specialista di religioni comparate. Gliene dico tre, per me clamorosi. Il primo è quando la Murgia scrive che nel cristianesimo non cattolico non ci sono bambini Gesù se non in una chiesa di Praga».

È un passaggio un po’ ambiguo.

«Come leggo io il testo sembra che quel Bambino sia un’immagine protestante mentre, non solo è cattolica, ma fu introdotta in Boemia proprio in funzione anti-protestante».

Il secondo elemento errato?

«È là dove dice che nel mondo protestante non c’è un’iconografia sulla nascita di Gesù. In realtà, nel protestantesimo c’è pochissima iconografia in generale perché è una confessione tendenzialmente iconoclasta. Tra i protestanti conta di più la parola, si segue più l’arte letteraria di quella figurativa. Nella loro letteratura si trovano molti riferimenti al Bambino, come per esempio in Notte santa, una famosa poesia di Elizabeth Barrett Browning colma di tenerezza verso il piccolo Gesù».

Qual è il terzo errore della Murgia?

«Sembra non parlare soltanto di confessioni non cristiane quando afferma che solo tra i cattolici c’è la devozione a un dio bambino. Un sociologo e specialista di religioni comparate come me salta sulla sedia perché fuori dal cristianesimo le divinità bambine abbondano, a cominciare dal Krishna induista, spesso raffigurato come un bambino».

Sul fatto che i cattolici costruiscano attorno alla nascita di Dio «una retorica di tenerezza zuccherosa» invece ha ragione?

«È una delle affermazioni parzialmente condivisibili. Esiste il rischio di censurare il fatto che la nascita di Dio sia un susseguirsi di avvenimenti tragici. A tutti sono simpatici i Re Magi, ma la loro storia è inseparabile dalle trame di Erode e dalla strage di innocenti, cioè bambini ammazzati con le sciabole e strade che si riempiono di sangue. A tutti è simpatico l’asinello della fuga in Egitto, ma c’è perché altrimenti Gesù sarebbe anche lui sgozzato. Naturalmente tutto questo si perde quando i Re Magi vengono venduti in sagome di cioccolato o di marzapane».

Quindi la Murgia ha ragione?

«Sì, ma la sua osservazione ha due limiti. Il primo è che tutti i simboli patiscono un’inevitabile banalizzazione. Per esempio, Ernesto Che Guevara è un personaggio che ha fatto una brutta fine, l’agonia notturna, la perdita di sangue, il colpo di grazia… Ma per un’ampia massa di persone è solo un’effigie su una maglietta o un asciugamano. Molti di coloro che indossano quella maglietta sanno solo vagamente chi era e quanto tragica sia stata la sua morte».

Anche l’uso di vezzeggiativi come «bambinello» e «pastorelli» sono una banalizzazione.

«Questo è il secondo limite del discorso della Murgia. Le religioni si presentano ai popoli attraverso narrative che si rivolgono anche al cuore, e al bambino che è in noi, non solo alla mente. Per esempio, poche religioni sono caratterizzate dalla complessità come il buddismo…».

Eppure…

«Basterebbe entrare in un ristorante cinese per vedere immagini del Budda che sembrano giocattoli prodotti nelle fabbriche della Repubblica popolare cinese, ufficialmente atea. Altre complessità banalizzate le troviamo in India nei fumetti, spesso ma non sempre di buona qualità, che illustrano l’induismo».

Una nascita in una capanna riscaldata dal fiato di animali, a quanto sappiamo senza donne che accudiscano la puerpera e con il neonato steso nella mangiatoia non è abbastanza complessa?

«Ha ragione. Ma tutte le narrative scritte e ancor più quelle figurative sono polisemantiche, cioè aperte a una pluralità d’interpretazioni. Di fronte ai Re Magi il biblista vede la storia tragica di Erode, un sociologo coglie un adombramento del rapporto fra religioni orientali e occidentali, un bambino di certe regioni della Germania, dove i regali li portano i tre Re, vede una specie di Babbo Natale».

Con tutto il rispetto per la polisemanticità, la complessità della situazione non è oggettiva?

«Forse la Murgia obietterebbe che, per esempio, non lo è per chi guarda un presepio napoletano del Settecento dove tutti sorridono e i pastori giocano con le caprette».

Ma questo è il contorno…

«Però ha una sua importanza. Tutte le religioni, tranne alcune forme di protestantesimo liberale, usano narrazioni diverse di cui hanno bisogno anche gli adulti, non solo i bambini. Benedetto XVI, al quale in questo momento va un pensiero affettuoso, ha rivelato che la storia del Natale non è idilliaca, ma molto complessa. Però ci sono momenti in cui anche l’adulto si commuove di fronte al presepe o al canto di Tu scendi dalle stelle che, al di là delle banalizzazioni, rimane un canto commovente. Se teniamo solo la complessità e togliamo le rappresentazioni rivolte al cuore ci avviciniamo a quel protestantesimo razionalista e freddo che rischia di sparire proprio perché l’uomo non è pura razionalità. Parlando di queste narrazioni, il filosofo marxista Ernst Bloch diceva che evocano “la patria che a tutti brilla nell’infanzia e in cui nessuno ancora fu”. Bloch non era credente, ma con questa espressione cercava di spiegare perché i credenti ci sono».

Pur con questi svarioni dell’autrice, il più grave forse è nel titolo: «I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità».

«Di solito le intestazioni sono opera dei titolisti. Non so se qui la Murgia ci abbia messo mano. È un titolo ingiustamente provocatorio nei confronti dei cattolici e contiene una solenne sciocchezza: da San Tommaso a Benedetto XVI abbondano i teologi che hanno spaccato il capello in undici teorizzando la complessità del Natale».

È un titolo che asfalta il mistero dell’incarnazione, una delle caratteristiche pregnanti del cristianesimo?

«La cui unicità tuttavia non va esagerata. Tra le tante religioni, quella del cristianesimo non è l’unica con un’incarnazione divina. Quando il Dalai Lama sta per morire, i monaci tibetani iniziano a cercare la nuova incarnazione in un bambino. Abbiamo citato l’esempio del Krishna induista raffigurato come un bambino, per altro piuttosto vivace. Anche dei fondatori di nuove religioni cinesi o coreane, a loro volta incarnazioni di divinità supreme, si racconta che facevano miracoli già da bambini».

Qual è lo scopo di un articolo di questo tenore?

«Il bersaglio è la Chiesa cattolica perché, nella visione dell’autrice, è abbarbicata a una visione conservatrice e patriarcale che si contrappone al femminismo e ribadisce che i sessi sono due e non tre o di più. Sono convinzioni che vagheggiano una modernità illuminata secondo la quale, per venire al mondo, i bambini non hanno bisogno solo di una mamma e un papà, ma magari anche di due mamme o due papà, oppure di una comune dove si pratica il poliamore, l’incontro amoroso tra più uomini e/o più donne. Tutto questo sarebbe in sé stesso più bello perché più complesso».

È corretto dire che la Sacra Famiglia è una famiglia di migranti?

«Quando va in Egitto è una famiglia di rifugiati, quando sta in Palestina è una famiglia reale. Guardando alla genealogia si vede che Giuseppe e Maria appartengono a una sorta di nobiltà decaduta, ma di stirpe reale. Anche in questo caso mi pare che la Murgia sbagli obiettivo perché non c’è una realtà, un’agenzia internazionale, che difenda gli immigrati più della Chiesa di papa Francesco. Forse può prendersela con Matteo Salvini che, però, non è la Chiesa cattolica».

Sbaglia bersaglio, tuttavia l’accusa peggiore è il rifiuto della complessità.

«Per chi le conosce, tutte le visioni del mondo sono complesse, mentre chi le ignora o le conosce da ritagli di giornale può ridurle a caricatura. Sono disponibile a riconoscere che la visione queer cara alla Murgia, dove la sessualità è diversificata in decine di sessi, può essere banalizzata da chi non la conosce. Non basta limitarsi a qualche slogan o a dire che chi la propugna vuole distruggere la famiglia tradizionale. Ma questo vale anche per il cattolicesimo, per l’induismo o, che so, la chiesa di Scientology. È insufficiente ridurle allo stereotipo di difensori di valori retrogradi e della società patriarcale».

In molti Paesi del mondo i cristiani continuano a subire persecuzioni. In Italia e in Europa si vanno espandendo forme d’intolleranza e di razzismo culturale nei confronti del cristianesimo?

«Quando ero rappresentante dell’Osce ho proposto di distinguere tra intolleranza, discriminazione e persecuzione riguardo al cristianesimo. Quest’ultima esiste in alcuni regimi totalitari come il Nicaragua, denunciato di recente anche dalla Santa sede. In Europa e in Italia ci troviamo nella fattispecie dell’intolleranza. Essa deriva dal fatto che nei media e negli enti produttori di cultura c’è una maggioranza di persone ostili o critiche verso il cristianesimo che può favorire un clima di antipatia. Rodney Stark, importante sociologo protestante americano, ha dedicato anni di studi a questo fenomeno. La discriminazione è un concetto giuridico che si attua con leggi e regolamenti che penalizzano i membri di una certa religione. È presente in Cina e in Russia, in Europa è rara. In Italia è stata sfiorata a causa del ddl Zan, disegno di legge su cui conviene vigilare perché può ridurre la libertà di espressione dei cristiani in materia di famiglia e sessualità».

 

La Verità, 31 dicembre 2022

«Che ipocrisia negare il male che c’è in noi»

È uno dei maggiori scrittori italiani viventi. Già docente di Letteratura italiana contemporanea all’università dell’Aquila, critico letterario, curatore delle opere di Pier Paolo Pasolini per la collana dei Meridiani (Mondadori), vincitore del Premio Strega del 2012 con Resistere non serve a niente. Di recente il suo Contro l’impegno – Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli) ha fatto traballare la cattedra di qualche autore da talk show di prima serata.

Quanti nemici si è fatto con il suo ultimo saggio?

Non credo più di quelli che avevo già. Ho fatto il mio mestiere di critico letterario senza coinvolgere minimamente le persone. Ho scritto quello che penso dei testi di alcuni autori e della piega che sta prendendo la letteratura quando si prefigge scopi etici. Non mi pare di essere stato sgradevole, tanto che mi risulta che nessuno si sia offeso.

Il libro è stato strumentalizzato dalla destra, come temeva?

Stranamente, no. Anche le cose scritte su Roberto Saviano non sono state utilizzate da quella parte. E nemmeno quelle riguardanti l’opera di Michela Murgia. Forse perché, in genere, faccio osservazioni sia positive che negative. O perché è più facile utilizzare qualche breve frase sui social di quegli autori che confrontarsi con il saggio di un critico che ha richiesto mesi di lavoro.

Perché secondo lei si moltiplicano gli scrittori pedagoghi?

In passato la letteratura è stata ancella delle ideologie. In epoca di realismo socialista, per esempio, veniva usata per combattere il capitalismo anche sul terreno dell’immaginario. Oggi, in un tempo di grande smarrimento, tutti pensano di dover fare qualcosa. Anche la letteratura si trasforma in un’attività per far prevalere contenuti di amore anziché di odio. Inoltre, le teorie e pratiche soprattutto americane di applicazione del pensiero computazionale, statistica e algoritmi delle digital humanities, per conferire alla letteratura una valenza scientifica, ne studiano le tendenze dei contenuti perché più semplici da cogliere di quelle della forma.

Il politically correct sostituisce l’ideologia tradizionale?

No, gli daremmo troppo valore. L’ideologia contiene anche un metodo d’interpretazione della storia. Il politicamente corretto è soprattutto un modo di non far sentire esclusi gli esclusi. Il presupposto di partenza è giusto. Se l’esclusione di alcune categorie si è incarnata in un linguaggio è bene correggerlo per evitare che si sentano ancora maltrattate.

Tutto bene, dunque?

Due aspetti non mi piacciono. Il più ovvio è che se si pubblica un libro di un secolo fa, quando la parola «negro» era normale, bisogna lasciarla spiegando come veniva usata all’epoca. In Europa lo si sta facendo, mentre in America si tolgono i libri dalle biblioteche. Il secondo aspetto che disapprovo è che, a forza d’inseguire le categorie penalizzate, ce ne sarà sempre una più piccola, diversa dai diversi. Se rincorriamo tutte le micro categorie, da libera come dev’essere, per non pestare nessun callo la letteratura finirà imbrigliata da mille avvertimenti, trasformandosi in qualcosa di comico.

Che vuoto riempie la missione degli scrittori di riparare il mondo?

Innanzitutto quello della scuola, che da trent’anni non ha più una direzione precisa. Anche nelle università si seguono le ultime tendenze, senza sapere come organizzare i programmi, tra contenuti fondanti e accessori. L’agenzia educativa principale è venuta meno. Così come l’altra agenzia, la famiglia. I figli frequentano mondi che padri e nonni ignorano. Da qui la perdita di autorevolezza degli adulti. Con il dominio del consumismo, anche la cultura insegue l’ultimo grido, l’ultimo aggiornamento. Una certa letteratura vorrebbe supplire alla scomparsa delle istituzioni che si occupavano d’insegnare. Una volta si riparava il mondo con la rivoluzione o con le riforme, ma oggi anche la politica gira a vuoto.

Per riparare il mondo bisogna che qualcuno l’abbia rotto, presupporsi nel giusto e possedere gli attrezzi per farlo, cioè la parola?

Il discorso del centrosinistra sostiene che il mondo l’hanno rotto il capitalismo selvaggio e la finanza. E che tocca a noi ripararlo. Per la letteratura lo strumento è la parola. Ma ciò che gli autori impegnati tendono a sottovalutare è che le parole sono viscide e cambiano significato a seconda di come vengono usate. Per questo non stare attenti alla forma può essere dannoso. Se si entra nel campo etico, può accadere che sebbene una parola venga usata per condannare un certo modo di essere, questo divenga un modello per qualcuno. A quel punto come potrò usare quella parola?

C’è un’ambiguità della parola che non controlliamo?

Se lascio l’iniziativa alle parole possono dire una cosa e il loro contrario. Se dico al mio analista che ho sognato una signora che di sicuro non era mia madre, l’analista potrà pensare che era proprio lei. Mettere dei no davanti alle parole può far salire in superficie il sì sottostante.

Un’altra missione degli scrittori impegnati è abbassare la conflittualità attraverso un galateo del linguaggio?

Ridurre la conflittualità è una buona idea, ma alcune volte, nell’ansia di farlo, si tende a negarla. Si evita di dire che nell’uomo esiste il male e che esso si mescola con la passione. La violenza non è amore, si sentenzia. Appena qualcuno fa trapelare una minima forma di violenza lo si rimuove. Invece anche il male e la violenza hanno una loro attrattiva, non a caso esiste il sadomasochismo. L’animalità dell’uomo comporta violenza e oppressione: sarebbe giusto ricordarsi che è ineliminabile. La letteratura frequenta anche le pulsioni distruttive.

Perché è liberatorio?

C’è una componente di autodistruzione. Dire che si tratta di patologie come fa la letteratura pedagogica non risolve il problema. Come scrittore devo raccontare come sono fatte, non rifiutarmi di capirle.

Il dibattito pubblico che si svolge attraverso antinomie come patriarcato/femminismo, migranti/razzisti si è riprodotto anche sul Covid?

Nella pandemia c’è la contrapposizione tra sì vax e no vax. Parlando con alcune persone mi sono sentito ripetere: «Io sono più forte del virus». In passato nessuno si era detto più forte del morbillo o dell’Aids. Oggi si è creato un meccanismo antagonista. Il virus è stato subito un nemico da abbattere, poi un nemico subdolo, infine un’entità contro cui si scatenano pulsioni machiste, da combattere a petto in fuori. Si è affermata una convinzione per cui essere contro il vaccino significa essere forti.

Cosa pensa delle posizioni di intellettuali come Massimo Cacciari e Giorgio Agamben?

Non ho approfondito e non sono abituato a basarmi su poche frasi. In generale credo che la situazione mondiale sia diventata tale per cui, per non lasciare che la pandemia si prolunghi, alcune istituzioni normalmente democratiche abbiano accentuato il loro carattere decisionista. Questo per qualcuno può mettere a rischio le forme della democrazia in Occidente. Uno come Cacciari avverte questa situazione.

Che opinione si è fatto del comportamento dell’informazione durante la pandemia?

C’è stata un’esagerazione. È un argomento che ha riempito troppi minuti di palinsesto, trasformandosi in occasione di spettacolo. A volte si parla troppo a lungo dello stesso problema. Altre volte viene enfatizzato il caso singolo perché fa più spettacolo della statistica. Infine, vorrei fare una petizione agli autori tv: smettete di mostrare aghi che entrano nelle braccia, sono immagini che non danno alcuna informazione.

Concorda con Vittorio Sgarbi che, per evitare confusioni e notizie contraddittorie, propone di dare all’informazione sul Covid un’ora al giorno.

Un’ora al giorno mi sembrerebbe un po’ dittatoriale. Però, capisco l’intenzione. Concordo con l’esigenza di spettacolarizzare meno l’argomento, di decidere uno schema per non sentire ripetere le stesse cose… Oggi i nostri telegiornali dedicano una parte alla pandemia e un’altra all’elezione del presidente della Repubblica, come se nel mondo non succedesse altro.

In Italia manca uno scrittore come Michel Houellebecq?

Direi di no. Houellebecq è un bravo autore che non nasconde dentro di sé le sue pulsioni. Ma è accessibile, lo si può leggere in francese o tradotto…

Intendevo dire che manca una coscienza critica come la sua.

In Italia abbiamo una letteratura di forte impatto critico. Per esempio nel 2021 è uscito un libro potente come Le ripetizioni di Giulio Mozzi, ma non è entrato nella cinquina del Premio Strega. I libri troppo disturbanti tendiamo a lasciarli nell’ombra. Houellebecq ha avuto la fortuna che Sottomissione è uscito nel giorno dell’attacco terroristico a Charlie Hebdo. Questo gli ha dato un’aura ancora più profetica. Ricordo che quando segnalavo i suoi primi romanzi mi dicevano: «Lascia perdere quel fascista, quell’antifemminista…».

 

Panorama, 12 gennaio 2022

«La Murgia conformista non è la mia sinistra»

Ormai, anche chi è di sinistra rigetta il conformismo di sinistra. I ricettari mielosi delle buone maniere. I decaloghi di linguaggio depurato, di quello che si può dire e quello che no. All’ennesima comparsata televisiva di Michela Murgia, campionessa del ramo, Paolo Landi, advisor di comunicazione per grandi marchi (da Benetton a Ovs), autore di saggi in materia come Volevo dirti che è lei che guarda te (Bompiani) e Instagram al tramonto (La nave di Teseo) e raffinato recensore di Doppiozero.com e minimaetmoralia.it, si è messo al computer e ha mandato a Ilsaltodellaquaglia.com una fenomenologia dell’autrice di Sta zitta – e altre nove frasi che non vogliamo sentire più (Einaudi). Vado a trovarlo nella sua casa sul Sile a Treviso.

Facendo una rapida sintesi, lei si sente meno di sinistra a causa del conformismo di sinistra?

«Per mia formazione non credo che sarò mai di destra perché qualcosa è scattato dentro di me. Ma non so se oggi sono più a destra della Murgia o se la Murgia è più a destra di me. Mi pongo questa domanda perché il conformismo che emerge, per esempio, dal suo ultimo libro, mi sembra non abbia niente a che fare con la sinistra».

Su Ilsaltodellaquaglia.com ha scritto che… A proposito, cos’è questo sito?

«È un magazine online di un gruppo di ragazzi siciliani che ha come sottotitolo <l’informazione oltre lo steccato>».

Sono tanti nell’informazione?

«Come nello sci, anche nell’informazione bisogna imparare lo slalom per superare gli ostacoli. Oggi l’informazione è sempre più ricca anche grazie al Web, ma dobbiamo evitare le fake news e anche quell’informazione conformista che non fa crescere».

Dicevo, ha scritto che «il conformismo di sinistra, di cui è eccelsa campionessa Michela Murgia, è una brutta bestia: per noi radical chic è la morte del pensiero». I radical chic sanno essere anche cattivi?

«Detesto la definizione di radical chic, l’ho utilizzata ironicamente per dire che la Murgia non fornisce strumenti di comprensione diversi da quelli che già possediamo. Ma siccome imperversa sui giornali, in tv e in libreria sarebbe auspicabile che da questi pulpiti dicesse qualcosa di nuovo anziché ripetere cose note».

Cito ancora: «Noi di sinistra (o ex di sinistra, chi lo sa… se la sinistra ora è quella della Murgia) ci addormentiamo proprio: alla quinta riga di un suo articolo, alla seconda pagina del suo ultimo libro, per non dire quando compare nel salotto della dottoressa Gruber». C’è una sinistra diversa da quella della Murgia?

«Sicuramente c’è, il problema è che non ha voce perché domina il conformismo. Alla fine tutti ci confrontiamo con l’informazione massificata. In pochi leggiamo Il Manifesto o altre testate minori. Chi dice cose stimolanti è marginale, mentre la sinistra conformista deborda».

Perché coincide con il mainstream?

«Perché è una sinistra luogocomunista».

Perché i suoi testimonial si attardano sul linguaggio e le desinenze al femminile?

«La domanda vera è perché pensiamo che sia importante chiamare una donna ministra invece che ministro. Qualcuno ci ha fatto credere che il progresso dipenda da queste correzioni formali. Personalmente, dubito che queste battaglie facciano avanzare la parità di genere. C’è un’ingiustizia più grande e sostanziale che dovrebbe trovare uniti uomini e donne, a prescindere che si chiamino direttore o direttrice d’orchestra».

Adesso la Murgia si sente spaventata dalla divisa del generale Figliuolo.

«Se uno è un generale dell’esercito perché dovrebbe spaventare se indossa la divisa? Potrebbe spaventare se la indossasse senza essere generale. La Murgia si spaventa forse per la divisa di un pompiere? O di un vigile urbano? Se non subisce il fascino delle divise è un problema suo. Ma dicendola in un talk show di prima serata una scemenza del genere diventa il dibattito del giorno dopo».

Altri campioni di conformismo sono Fedez e Chiara Ferragni?

«Viviamo in un momento in cui la politica ha smesso di fare il suo mestiere e qualcun altro prova a riempire questo vuoto. Come sarebbe stato meglio che Beppe Grillo avesse continuato a fare il comico, così converrebbe che Ferragni e Fedez continuassero a far bene il loro. Ho letto che stanno reclutando dei giovani per gestire politicamente i social. Il vero problema è che la politica ha smesso di prendersi a cuore le persone che hanno meno strumenti a disposizione».

I Ferragnez potrebbero rispondere che s’impegnano in questa direzione.

«Infatti, ognuno è libero e loro fanno bene a dire quello che hanno da dire. Io mi chiedo perché la politica ceda ai comici, agli attori e agli influencer il compito di cambiare il mondo. Dovrebbero essere i politici a riappropriarsi di un linguaggio pedagogico, in grado di spiegare la complessità».

Invece?

«I Ferragnez sdottoreggiano e i politici si fanno vedere mentre mangiano la porchetta».

O vanno in tv da Barbara D’Urso.

«Invece di mantenere una spinta ideale, si cercano scorciatoie popolari che portano al populismo».

Che cosa pensa del fatto che per tradurre l’opera di Amanda Gorman bisogna essere una donna di colore attivista dei diritti?

«Il politicamente corretto sposta sempre il problema su questioni formali e secondarie. Discutiamo se le opere di Amanda Gorman possano essere tradotte da un uomo o una donna bianca, ma nessuno dice che le sue poesie sono brutte. Non si può dire perché è una persona non udente e di colore?».

Che, per ragioni di marketing, indossa un cappotto giallo di Prada.

«Il cappotto di Prada non è interessante. Lo è ciò che propone, la qualità dei testi che, grazie alla ribalta che le è concessa, hanno un’audience mondiale. Hanno dato il podio dell’insediamento del presidente degli Stati uniti a una poetessa mediocre che è diventata un’icona globale. La Murgia imperversa nei nostri media e diventa una maestra del pensiero».

Una questione di sovraesposizione?

«Bisognerebbe che imparassero a osservare un minuto di silenzio. Il mainstream domina, mentre le voci meno conformiste non le senti perché soffocate da chi pensa che la parità di genere arriverà quando non si pronunceranno le frasi che infastidiscono la Murgia».

Svettano nelle classifiche perché l’industria culturale è imperniata su questi modelli?

«La qualità non fa più testo, a tutti i livelli. In politica si cerca la fama, la visibilità. Amanda Gorman sta alla poesia come Grillo alla politica. Ma entrambi sono mediocri e la mediocrità non fa progredire».

Una certa vacuità della sinistra si evidenzia anche nell’evoluzione dei suoi maître à penser?

«Sì, purtroppo. Non voglio nemmeno fare confronti. Io ho avuto la fortuna di leggere Pasolini sul Corriere della sera. Chi legge i giornali di oggi credo sia molto meno fortunato».

Enrico Letta che, in piena emergenza pandemica, si presenta da segretario del Pd parlando di ius soli e voto ai sedicenni è un altro esempio di distanza dalla realtà o fa solo la guerra alla Lega?

«Non voglio entrare nelle dietrologie. Mi preoccupa il fatto che la politica abbia rinunciato a misurarsi con la complessità. I social la costringono a esprimersi per slogan. Così è nata quella che chiamo politica masterchef, fatta di ricette, di formule che non risolvono i problemi, ma danno l’impressione che ci si stia riflettendo».

Letta ha recuperato terreno intestandosi la battaglia per le capogruppo donne in Parlamento?

«I percorsi di Maria Elena Boschi e Teresa Bellanova in Italia viva, di Giorgia Meloni segretaria di FdI, di Anna Maria Bernini o Mara Carfagna in Forza Italia sono lì da vedere. Questo non vuol dire che in politica la parità di genere sia stata raggiunta. Ma che la polemica sulla rappresentanza femminile è strettamente interna al Pd e non un’emergenza generale».

Creando una sorta di bolla i social provocano un distacco dalla vita della gente comune?

«I social hanno introdotto il primato della facilità, del tempo reale, della giocosità. A scapito dell’introspezione e della ricerca. Perciò pensiamo di risolvere questioni di portata enorme come l’emigrazione o la parità di genere con slogan e azioni sommarie come fermare una nave fuori da un porto o intimando a un uomo di non dire a una donna <adesso ti spiego>».

Un anno fa ha scritto un saggio su Instagram nel quale evidenziava il pericolo dell’omologazione. Oggi a che punto siamo?

«Credo persista una certa ignoranza relativa all’aspetto economico dei social. Gran parte dei fruitori non si rende conto che i social sono prodotti commerciali, venduti da corporation. Su Instagram ci coccoliamo con i cuoricini, su Twitter ci sembra di partecipare a battaglie che cambiano il mondo. In realtà, non facciamo che consumare un prodotto commerciale. Da qui nascono una serie di interrogativi molto più pregnanti, per esempio sulla democrazia».

Come giudica le decisioni di oscurare i profili non allineati, da Donald Trump su Twitter alla piattaforma Byoblu su YouTube?

«I social sono prodotti commerciali che hanno diritto di fare quello che vogliono. I temi della politica non andrebbero trattati su piattaforme-prodotto, ma in luoghi istituzionali, ufficiali, in cui il dibattito è regolato. Altrimenti, dobbiamo aspettarci che una policy aziendale intervenga in un senso o nell’altro. L’errore è illudersi. Finché Jack Dorsey, un privato, sarà proprietario di Twitter potrà oscurare il profilo di Trump».

Anche se al contempo non oscura gli account nazisti?

«Fortunatamente hanno scarso seguito. Lo scandalo non è che Twitter oscuri Trump, ma lo strapotere che queste corporation si stanno prendendo senza che nessuno muova un dito. Fanno affari sul 91% del pianeta, perché  è questo che fanno, ma pagano le tasse solo in America».

Il futuro è dei social, degli influencer, delle poetesse che vestono Prada come il diavolo?

«Sembra brutto accanirsi su persone di buona volontà come Amanda Gorman o Michela Murgia. Ma se vogliamo progredire credo che il dibattito debba spostarsi dal conformismo che loro incarnano a forme di comprensione del mondo meno stereotipate e più complesse, meno superficiali e più profonde».

 

La Verità, 10 aprile 2021

La Scala, la Murgia e l’arte mandata in frantumi

Ce l’avevano messa tutta la garrula Milly Carlucci e il sornione Bruno Vespa a convincerci che valeva la pena investire le tre ore dell’imbrunire di Sant’Ambrogio assistendo all’irripetibile edizione della Prima della Scala ai tempi del Covid in assenza di pubblico, con l’orchestra diretta da Riccardo Chailly e sparpagliata in platea, il coro distribuito nei palchi, le scene ambientate nel foyer, nel portico, nelle sale attigue e in tutto l’austero edificio progettato da Giuseppe Piermarini. L’occasione era solenne sebbene mancassero le signore ingioiellate, le contestazioni, il gossip sui chi c’era e chi no, il presidente della Repubblica e la Milano bene. A riveder le stelle rappresentava ugualmente, ancor più tra vincoli e rinunce, uno sforzo di composizione tra cultura alta e bassa, il meglio dell’opera soprattutto della tradizione italiana, Verdi, Puccini, Rossini, Donizetti, senza tralasciare Bizet, Wagner e il celeberrimo Lago dei cigni di Tchaikovsky, intervallati da citazioni di Ingmar Bergman ed Eugenio Montale affidate a Massimo Popolizio e Laura Marinoni o decorati dall’iconografia dell’artista contemporaneo Jack Vettriano e il suo Tango sotto la pioggia. Tutto questo sfarzo amministrato dalla regia innovativa di Davide Livermore che avrebbe usato in un’unica scenografia spazi e anfratti del teatro. Arie popolari, aveva insistito Carlucci, nelle quali il pubblico televisivo, anche quello meno avvezzo, si sarebbe finalmente ritrovato. Brani nobilitati, fra gli altri, dal tenore Vittorio Grigolo e dal soprano Marina Rebeka, e dalle partecipazioni prestigiose di Placido Domingo e di Roberto Bolle. Insomma, il meglio del meglio, imperdibile, avevano garantito i due super testimonial della Rai radiotelevisione italiana. Un grande tentativo di trasformare il momento di dolore in rinascita attraverso la bellezza, secondo le parole di Livermore. E, dunque, proviamoci…

Poi però – che dire? – è comparsa Michela Murgia di nero vestita. La quale, senza citare nessuno se non sé stessa, ha riscritto l’intero repertorio lirico mondiale come una storia di riscatto delle «classi marginali» servi, poveri e donne. Così, «Tosca anticipa il Meeto» e «La Traviata mette alla berlina l’ipocrisia borghese che alle donne ancora oggi perdona tutto, tranne la libertà…». E avanti alla rinfusa, in un basso revisionismo da «Se non ora quando». «Questo fa l’arte», ha concluso la scrittrice, «manda in frantumi il vecchio mondo». Già. Poi, però, arriva l’ideologia delle Michela Murgia a mandare in frantumi lei. Si fosse in platea alla Scala, a questo punto ci si alzerebbe per dirigersi al guardaroba. Accomodati invece nel salotto di casa, con un sospiro poco lirico, si porta la mano al telecomando. Non per scagliarlo contro lo schermo, mandandolo a sua volta in frantumi. Ma per cambiare canale.

 

La Verità, 9 dicembre 2020