Copione friabile, Brennero è un’occasione persa
L’idea era parecchio interessante e prometteva bene. Finalmente una storia non ambientata a Roma, Napoli o Milano. Finalmente un thriller poliziesco dalle atmosfere nordiche, geograficamente marginale come evocato fin dal titolo, Brennero, otto episodi in quattro serate per Rai 1 dirette da Davide Marengo e Giuseppe Bonito, nel contesto della difficile convivenza tra popolazione italiana e cittadini di lingua tedesca, nell’Alto Adige in passato scosso dalle spinte irredentiste (lunedì, ore 21,40, share del 17,2%, 2,8 milioni di telespettatori). Dopo tre anni di inattività, rispunta con un nuovo omicidio l’ombra sinistra del Mostro di Bolzano, un serial killer che uccide solo cittadini di madre lingua tedesca, favoriti da presunti privilegi non riconosciuti a quelli di ceppo italiano. Il focus è sulla complessa integrazione etnica ma, da quanto s’intuisce dopo due episodi, con una prospettiva capovolta. Mentre, storicamente, l’irredentismo, culminato nella Notte dei fuochi, era opera di terroristi di lingua tedesca che nel giugno 1961 fecero saltare decine di tralicci dell’alta tensione con l’intento di favorire l’unificazione del Tirolo sotto l’Austria, in Brennero a sentirsi discriminato e a scegliere la via della violenza sembra essere un italiano.
La collaborazione tra cittadini di lingua diversa diventa invece indispensabile tra gli investigatori incaricati, la Pm interpretata da Elena Radonicich e l’ispettore impersonato da Matteo Martari. Oltre a superare le reciproche diffidenze, entrambi devono fare i conti con le rispettive ferite che affondano proprio nella mancata soluzione della lunga serie di omicidi rimasta senza colpevole. Hanno fallito sia il padre della Pm, ex capo della Procura ora in pensione, sia lo stesso ispettore, fermato da un grave incidente nel quale lui ha perso una gamba e la sua compagna e collega la vita. Tutti validi motivi, ora, per unire le forze superando le barriere etnico-linguistiche e fare squadra per stanare il Mostro.
Al di là del rovesciamento della prospettiva storica e di una certa, immancabile, preoccupazione pedagogica in ossequio al mainstream (una delle vittime è un omosessuale bullizzato nella caserma dei vigili del fuoco), le buone premesse di ambientazione si perdono in una sceneggiatura friabile e dagli snodi incerti (l’assegnazione dell’incarico alla figlia dell’ex procuratore e la sua ingenuità all’inizio delle indagini). Grave lacuna. Soprattutto in assenza di interpreti di grande impatto, per avvincere il telespettatore la struttura narrativa dovrebbe essere solida e incalzante.
La Verità, 18 settembre 2024