Marghera, Venezia e le periferie esistenziali di Raffaelli

Chissà se per la riqualificazione dell’area di Marghera Renzo Piano assumerebbe Il maestro vetraio, l’intraprendente e fantasioso artigiano che dà il titolo al secondo romanzo di Alberto Raffaelli, appena pubblicato da Itaca (il primo era L’Osteria senza oste, anche quello intrecciato agli eventi della cronaca). Il protagonista è figlio dell’ultimo artista del vetro di Murano che riceve l’incarico di restaurare la chiesetta della Madonna del mare all’imbocco della Laguna, ornandola con un’opera che sia visibile a chi attraversa il Ponte della Libertà, diretto a Venezia. Il mandato passa dalla curia, commissionato dal vice-sindaco che vuole fare di quel restauro il punto di forza della campagna elettorale per eliminare dal biglietto da visita quel prefisso che sa d’incompiuto. Così Benedetto Zaccaria, dotato di spirito tenace oltre che di buona mano alla fornace, si accinge all’opera in dodici quadri, sorta di scomodo Giudizio universale del presente, ispirato da quello della Basilica di Torcello. Mentre attorno al suo lavoro si muove un’umanità ripiegata sui propri giochi, più o meno sporchi, il progetto incontra diffidenze e ostruzionismi. A complicare ulteriormente la situazione c’è anche l’omicidio di una donna, proprio dalle parti della chiesetta, tra i capannoni e una tabaccheria, meta di camionisti che pendolano con l’est europeo. Le indagini sono affidate al vice-ispettore Giovanni Zanca, trasferito a Venezia dopo l’ultima complicata vicenda dell’Osteria senza oste. Sembrano roba da poco rispetto alla vera bomba che di lì a poco esplode tra calli e stampa locale, coinvolgendo il vice-sindaco e la sua segretaria, per una storia di appalti e mazzette che ricorda lo scandalo del Mose. Così, il buon Zanca è costretto alla spola tra Marghera e l’ufficio dell’ambiguo magistrato che lo controlla da distante.

Una scena del Giudizio universale, nella Basilica di Torcello a Venezia

Una scena del Giudizio universale, nella Basilica di Torcello a Venezia

La spina dorsale della storia è, dunque, un giallo con tutti gli ingredienti del genere: ritmo, colpi di scena, intercettazioni telefoniche e doppiezze varie. Ma in realtà, Il maestro vetraio è molto di più. Perché attorno alle inchieste di Zanca e alla vetrata di Benedetto, Raffaelli tratteggia le storie di un’umanità dimessa, prostitute dell’est, il trovatello Nick, ospitato dal prete, il Barba, padrone della tabaccheria, Orges, “che lavora nella burocrazia”. E poi i protagonisti di tanti quadri solo apparentemente estemporanei, come i barboni Martino e Franco, o il padre che mendica il perdono dell’unica figlia e le suona tutte le sere il campanello… Anche le parabole del vice-ispettore, del vice-sindaco e del figlio del vetraio, tutti un gradino sotto qualcuno, sono significative. Pare quasi che Raffaelli voglia parlare di una generazione non definitivamente affermata, fatta di outsider che si devono sbattere e compromettere per togliere le castagne dal fuoco, mentre i numeri uno rimangono coperti, dietro le quinte. Così, Il maestro vetraio si propone come un romanzo del margine. Bergogliano, verrebbe da dire. Un viaggio intriso di domande e conti in sospeso, alla ricerca di un’umanità autentica e da rivalutare, al contrario dei vertici della politica, della Chiesa e della magistratura, avviluppati nell’ambiguità e nell’ipocrisia del potere. La grandezza di Venezia è osservata da Marghera. San Marco, Rialto e i campielli, che l’autore mostra di conoscere come le sue tasche, son visti con gli occhi dei mendicanti, di un geniale handicappato, di una prostituta, di certi malavitosi insoddisfatti. Nella tela di Raffaelli domina una “visione periferica”. Anzi, proprio la periferia, urbanistica ed esistenziale, è il cuore di tutta la storia, più che mai bergogliana. E chissà, forse ancor più interessante per Renzo Piano, l’archistar deciso al recupero delle periferie.

La copertina del libro di Alberto Raffaelli (Itaca edizioni)

La copertina del libro di Alberto Raffaelli (Itaca edizioni)

Rimangono, certo, alcune ingenuità nella scrittura, qualche eccesso o approssimazione che un editor attento avrebbe potuto sfrondare (“Anche a Marghera, al primo chiarore dell’alba, il buio stava svanendo”; “Un misto di angoscia e di speranza si accavallavano dentro di lui”), suggerendo una prosa più asciutta e rarefatta. Ma ci sono anche guizzi felici e buone intuizioni (“Il resto del pomeriggio lo aveva speso per rimettere a posto le carte e i pensieri”). E tuttavia, al netto di quelle ingenuità, Raffaelli ci regala alcune perle. Come quella del prete che prova a sedare l’irrequietezza di Benedetto, quando la donna che l’ha colpito, all’improvviso svanisce: “Vedi, c’è una paura cattiva che nasce da un piccolo errore di partenza – premette don Giuseppe – come quando ci alziamo al mattino e ci illudiamo che le cose siano nostre: la vita, la salute, la carriera, i capelli, il naso, le mani… Si può costruire una vita, un intero mondo, su questa illusione. Fino a quando, a un tratto, per qualche caso della vita, ci accorgiamo che la verità è un’altra…”.