«Premi letterari? Truccati come certi talent»
Questione di «aspettative irrealistiche». Nell’ultimo romanzo Una di Luna (La nave di Teseo), Andrea De Carlo dice tutto in due parole. Pensiamoci un secondo, la faccenda è tutta qui. Quando riponiamo attese eccessive su qualcosa o qualcuno; quando ci aspettiamo soluzioni magiche, risposte gratificanti, corrispondenza totale ai nostri desideri. Quando crediamo finalmente di svoltare se si verifica un determinato evento. Le «aspettative irrealistiche» confinano con l’illusione e sono il contrario della speranza. Che è aperta, non pretenziosa, pronta a raccogliere quello che viene. Musicista, fotografo e giramondo, ma soprattutto scrittore, De Carlo – 66 anni, capelli nerissimi come la camicia con colletto coreano – è allergico alle giurie, ai premi letterari e ai talent show sebbene vi abbia partecipato, anzi, proprio per avervi partecipato. Si definisce uno «scrittore scrittore» per distinguersi dagli «scrittori letterati». Appare poco e vive tra Camogli e Milano.
Margherita, la protagonista del suo romanzo, è apprensiva per un padre che l’ha «tiranneggiata tutta la vita»: una rarità. Oggi i figli ci mandano a quel paese molto prima, o no?
«È così, i ragazzi di oggi non hanno la pazienza della mia protagonista. Lei è apprensiva verso il padre perché sa che, in fondo, dietro la scorza dura, è un uomo fragile, perennemente sull’orlo di un crollo, di uno schianto».
La figlia è la voce narrante, come ha fatto a immedesimarsi nella psicologia femminile?
«In passato avevo già scritto romanzi con una parte maschile e una femminile. Ho sempre ascoltato molto le donne, sono una fonte inesauribile, un universo che continua a incuriosirmi e che cerco di capire. Mi aiutano l’osservazione e la conversazione. Scriverne è un modo di entrare ancora di più in questa comprensione».
Il padre del romanzo è un uomo anziano, un fascista scontroso, un cuoco inflessibile per il quale finisce per simpatizzare anche lei?
«Volevo presentarlo come un uomo insopportabile, antipatico e in guerra con il mondo. Però poi, strada facendo, ha rivelato dei tratti che suscitano simpatia. Per esempio, quando si ribella agli autori del talent show che vogliono piegarlo al loro gioco non si può non parteggiare per lui. La sua intransigenza anche nella preparazione di una ricetta suscita simpatia. È una sorta di guerriero, un uomo di principi, nostalgico di un mondo ordinato e un po’ utopistico».
Quando s’incontrano la fatuità della tv e il rigore di un vecchietto tutto d’un pezzo esplode il conflitto generazionale, di culture e antropologie.
«Ho immaginato certi autori televisivi alla ricerca di tipi umani come fossero ingredienti, pezzi di verdura da infilare nel minestrone. Achille resiste a questa guerra cinica sperando nella grande occasione di riscatto. Ma è un sogno che va in frantumi e la sua partecipazione viene tragicamente manipolata».
È un racconto che deriva dall’esperienza di giurato nel talent letterario Masterpiece?
«Avevo accettato di far parte della giuria nella speranza di parlare di letteratura, di riflettere su come si scrive un romanzo e di partecipare a una piccola comunità letteraria. Era un’aspettativa irrealistica perché un talent è solo un gioco tra diversi concorrenti. Spesso ciò che noi giurati ritenevamo interessante veniva tagliato al montaggio perché tutto era finalizzato alla gara. È stata un’esperienza frustrante. Probabilmente in un programma dal vivo è diverso».
Mai più?
«Certo, mai più. Avevo esitato, ma alla fine mi ero convinto perché, ragionavo, se non si prova non si può valutare. La produzione puntava a due/tre milioni di telespettatori. Invece ci assestammo sul mezzo milione, più o meno l’audience di tutti i programmi di libri. Comunque, anche quell’esperienza è tornata utile».
Nel libro il talent s’intitola Chef Test: come la prenderanno a Sky?
«Non credo possano contestare. Quello che racconto riguarda il meccanismo di quei programmi, non tanto uno specifico».
Perché li chiama chefstar?
«Sono i nuovi maître à penser. Gli chef fanno di tutto, sono ovunque. Dispensano ricette di comportamento anche lontano dalle cucine».
Che sono diventate glamour.
«Una volta erano un posto infernale. Quando a vent’anni ho fatto il cameriere a Los Angeles, in cucina si sentiva urlare continuamente, c’era puzza d’olio bruciato, era sporco. Adesso è tutto patinato».
E si scopre che gli chef sono persone insoddisfatte se non infelici, sull’orlo dell’autodistruzione come rockstar.
«Il cuoco era un lavoro umile, quasi da nascondere: un uomo che lavora in cucina? Oggi i grandi chef sono quasi tutti uomini. Forse perché sono più maniacali. O più bravi a promuoversi, a gestire i meccanismi delle critiche e delle stelle».
Nel backstage del talent si assiste al conflitto tra due filosofie: quella dell’artigiano e quella globalizzata della tv.
«È anche un fatto logistico. Lo studio televisivo è in un capannone, un non luogo dell’hinterland milanese. Mentre il vecchio cuoco arriva da Venezia, un luogo stratificato da mille vicende, pieno di storia».
Che lei conosce bene…
«Ci ho vissuto da bambino, mio padre insegnava lì. Poi ci sono tornato parecchie volte».
Tornando al confronto generazionale, i nostri padri avevano solidità e uno spessore che noi ci sogniamo?
«Erano molto più solidi. La loro è stata una generazione forgiata da difficoltà enormi, compresa la guerra. La cultura dell’epoca imponeva ruoli definiti e inscalfibili. L’uomo era la roccia della famiglia, non piangeva mai, a volte era un tiranno. La comunicazione affettiva con i figli era quasi inesistente. Oggi siamo caduti nell’estremo opposto: padri bamboccioni, che piangono alla minima difficoltà e fanno gli amiconi».
Le aspettative irrealistiche sono la causa principale delle nostre depressioni?
«Sì, per le delusioni che provocano. Le aspettative irrealistiche diventano surrettiziamente una pretesa. Tendiamo a configurare troppo ciò che attendiamo. Per esempio, vai in un ristorante stellato e sei sicuro di uscirne un uomo trasformato. Invece, magari esci solo più povero e ancora affamato. Il vecchio cuoco del romanzo pretende il suo risarcimento pubblico dall’ospitata a un talent. Margherita spera che a 87 anni un padre super egocentrico diventi chissà perché attento ai suoi sentimenti. Quello che attendiamo con troppa precisione non è mai come ce lo immaginiamo».
Non dobbiamo illuderci. Perché l’unico uomo che corrisponde alle attese di Margherita è un illusionista?
«Perché c’è differenza tra illusione e speranza. La speranza è aperta, non prestabilisce come deve andare. L’uomo che corrisponde alle aspettative di Margherita è un illusionista disincantato».
Anche lui un artigiano, come i cuochi di una volta?
«E come lo scrittore. Ispirazione a parte, la ricerca quotidiana delle parole è un’umile attività artigianale».
Che differenza c’è tra gli scrittori letterati e gli scrittori scrittori?
«Lo scrittore letterato è colui che si sente testimone della società e interviene sui temi più disparati nei salotti televisivi. Gli scrittori scrittori sono quelli che si limitano a raccontare le storie che sentono e vedono intorno a loro stessi. Io appartengo a questa seconda categoria. Recitare la parte dello scrittore non m’interessa per niente. Scrivere, invece, molto».
Facciamo qualche esempio delle due categorie?
«Meglio di no, guardandosi intorno si riconoscono. Comunque, oggi il ruolo sociale dello scrittore è ridimensionato».
Sicuro? Quest’estate c’erano quelli che volevano salire sulle navi dei migranti.
«Vero, ma ormai si ha la percezione che gli scrittori militanti finiscono per svilire la loro arte. Fanno i maître à penser, come i cuochi filosofi. Ciò detto, anch’io esprimo la mia visione del mondo, ma lo faccio nei romanzi».
Perché non partecipa ai premi letterari?
«Sono stato diversi anni nella giuria del Premio Strega e ho assistito ai traffici degli editori per far vincere questo o quello. Ho visto i meccanismi della manipolazione che assomigliano a quelli del montaggio dei talent show. Alla fine mi sono dimesso e ora sarebbe incoerente concorrere ai premi. Per di più non sono convinto che una giuria possa decidere se un libro è meglio di un altro».
E dei festival cosa pensa?
«Qualche volta ci vado. Si incontrano i lettori… Sono stato a Mantova, a Pordenone. Ma non lo faccio in modo seriale. Anche lo scrittore da festival che allestisce il suo show non mi convince».
A proposito di aspettative irrealistiche, che rapporto ha con la politica?
«Non mi sono mai identificato in nessuna ideologia e tanto meno in qualche partito. Ho un atteggiamento critico verso chiunque sia al potere. E adesso anche con chi è all’opposizione. Sono un anarchico insofferente».
Ha mai votato?
«Una volta sola. Mi sembra di esser costretto a scegliere tra cose che non mi piacciono».
Ha cambiato tante città, è stato in America e in Australia. Vivere a Camogli è una scelta estetica?
«La Liguria mi è piaciuta fin da bambino. Camogli è un luogo di luce e colori che mi corrisponde».
Come si divide tra le attività di musicista, fotografo e scrittore?
«La fotografia è il gusto della curiosità, niente più che un hobby. Amo la musica e suono tutti i giorni. Ma la mia attività vera è la scrittura, dove so di riuscire a fare quello che voglio. Gli altri linguaggi possono arricchirla».
Che cosa le dà speranza?
«Soprattutto le piccole cose quotidiane. Suonare con gli amici. Stare con qualcuno che non vedevo da tanto tempo…».
La Verità, 16 settembre 2018