Quanti padri ha Il Signor Diavolo di Pupi Avati
Il diavolo, probabilmente. O forse no. Ma chi può dirlo, con quel finale mozzafiato. Oltre quarant’anni dopo La casa delle finestre che ridono, Pupi Avati torna all’horror che gli diede grande successo a inizio carriera. Presentato ieri in contemporanea al cinema Adriano di Roma e all’Anteo di Milano, Il Signor Diavolo uscirà nelle sale il 22 agosto, qualche giorno prima dell’inizio della Mostra del Cinema di Venezia. Con quest’opera il cineasta bolognese chiude un cerchio artistico e tematico, riproponendo il tema prediletto dell’esistenza del male radicato in ogni essere umano. La vicenda ci porta indietro di quasi settant’anni, autunno del 1952, in pieno regno della Democrazia cristiana, Alcide De Gasperi presidente del consiglio, epoca nella quale il regista si muove con gran disinvoltura. «Il maligno è sempre attualissimo, non c’è tecnologia che tenga», sottolinea Avati. «Sebbene non se ne parli, è in me e in te, lo sappiamo bene. Noi pratichiamo il male, godiamo delle sfortune altrui, oppure siamo invidiosi dei successi. Ho visto persone trasformarsi in esseri malefici appena hanno conquistato un briciolo di potere. Io ne sono vittima anche in questo periodo. Non si tratta solo di qualche cattiva azione, di fare lo sgambetto a qualcuno per sostituirsi a lui. C’è qualcosa di più patologico, una presenza congenita, un’ambiguità diffusa. Alla fine, nel mio film, il male è ovunque».
Nei paesi tra la laguna e il Delta del Po lo scandalo per l’omicidio di Emilio, un ragazzo deforme, considerato un indemoniato dal popolino, sta mettendo a rumore la vita locale. Gli echi dell’indagine che punta sugli ambienti della Chiesa sono arrivati fino a Roma e, per tacitare i pettegolezzi, il ministro di Grazia e giustizia incarica un funzionario (Gabriele Lo Giudice) di compiere un’inchiesta parallela. Le elezioni si avvicinano e non si può permettere che i consensi al partito siano erosi da certe fandonie. Tra l’omicida Carlo, anche lui adolescente, e l’amico Paolino, è filato sempre tutto liscio fino alla comparsa proprio di Emilio, figlio unico di una possidente terriera (Chiara Caselli). Secondo le solite maldicenze, sarebbe stato l’indemoniato a sbranare una neonata nella culla (citazione di Rosemary’s Baby?). Quando, per darsi importanza, Paolino lo umilia pubblicamente, Emilio mostra la dentatura ferina. È la conferma. La ripicca si consuma alla cerimonia della Prima comunione quando, al momento di ricevere l’ostia, Emilio spintona Paolino che finisce per calpestare la particola. La celebrazione viene inevitabilmente sospesa e da quel momento inizia una serie di accadimenti inquietanti.
Tratto dal romanzo omonimo scritto dal regista e qui sceneggiato con il figlio Tommaso con un finale diverso, Il Signor Diavolo è un film che condensa tutta la maestria artigianale dei fratelli Pupi e Antonio Avati. I tramonti in laguna, gli scorci cunicolari di Venezia, le penombre delle sacrestie, le suore, le candele, i crocifissi: tutto conferisce sacralità a un racconto dalle tinte fosche. Notevole anche la cura dei dettagli, dalle scenografie ai costumi, dalle occhiaie dei bambini fino alla calza smagliata dell’aristocratica in lutto con veletta e guanti neri. Perfettamente definiti i caratteri dei personaggi in un film corale dal cast più avatiano che mai: la nobildonna Chiara Caselli, il giudice Massimo Bonetti, il sacrestano Gianni Cavina, l’esorcista Alessandro Haber, il parroco Lino Capolicchio, il medico legale Andrea Roncato.
Oltre che un ritorno al genere d’inizio carriera e all’epoca prediletti, quella dell’adolescenza del regista, nel Signor Diavolo c’è anche il ritorno «all’idea del cinema che ci faceva indagare l’altrove», sottolinea Avati, «quel cinema che ci faceva immaginare il mistero, che si avventurava in tempi e luoghi diversi dall’eterno presente, costantemente al centro della produzione attuale centrata solo ed esclusivamente sulla commedia. In America non è così», incalza il regista, «non si ha timore di scandagliare il passato o il futuro e di tuffarsi nei generi. Non a caso negli Stati Uniti amano registi come Ruggero Deodato, Mario Bava o Lucio Fulci più di quanto li stimiamo noi. Senza andare lontano, prima di arrivare a Raicinema, il mio film ha subito il rifiuto di sei distributori, perché tutti si aspettavano la solita commedia. L’unico genere che continuiamo a frequentare In Italia, con cast ripetitivi e una panchina sempre più corta».
Avati ha scelto, invece, una storia controcorrente. Più che un film de paura, come si dice, è un film gotico. Più che un horror, una storia sinistra e ambigua. Soprattutto, una storia inquietante, che lascia aperti tanti interrogativi. «Si usa la definizione di gotico come sinonimo di horror, ma è sbagliato», distingue il regista. «Qualcuno si accontenta degli scricchiolii e delle porte che si aprono da sole, io no. Un’opera è gotica quando ai temi del bene e del male aggiunge la presenza del sacro. Io sono affezionato a queste tematiche. Sono cresciuto nella cultura della favola contadina e in un cristianesimo timoroso, preconciliare. Non come quello di oggi, che si preoccupa solo di essere rassicurante. I peccati sono solo quelli sociali e non a caso i sacerdoti si sono trasformati in psicologi o assistenti sociali. Io sono stato chierichetto quando i preti predicavano dal pulpito in alto, al centro delle chiese, per farsi sentire meglio. E parlavano del peccato, dell’inferno e del diavolo. Oggi non lo fa più nessuno, neanche il Papa. Ma, come dice Charles Baudelaire, la più grande astuzia del diavolo è proprio far credere di non esistere».
Oltre a Baudelaire, Il Signor Diavolo è figlio di tanti padri. «Di Giovannino Guareschi e don Camillo, e del suo piccolo mondo che questa volta ho ambientato in quella parte tra la laguna e il Po. E poi anche della pittura fiamminga. Soprattutto di un quadro in particolare con il quale sono cresciuto: I coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck, che campeggiava alle spalle della scrivania prima di mio nonno, poi di mio padre. Se non lo conosce, vada a cercarlo su Google e poi mi dica se, con quella visione, con quei volti sempre davanti, non si cresce immersi nella paura».
La Verità, 23 luglio 2019