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Strepitosi gli highlander, Fedez sempre infantile

Le pagelle della seconda serata del 73° Festival di Sanremo

Al Bano, Ranieri, Morandi highlander. Voto: 9

Un pezzo di storia della musica italiana. Finora il loro medley è il momento top del Festival. Più popolari dei tre tenori, più intonati dei Pooh della sera prima, molto più trascinanti dei Black Eyed Peas. Uno su mille ce la fa, Perdere l’amore, Nel sole, tanto per limitarsi nelle citazioni, sono must assoluti che hanno galvanizzato il pubblico dell’Ariston, tutto in piedi a cantare e ballare.

Francesca Fagnani, carta vincente. Voto: 8

Una che sa stare al mondo. Ha indossato l’Ariston come un guanto. Giusta nei tempi e nei toni. Dove la metti fa il suo, quando deve presentare i cantanti, quando deve cazzeggiare con Ama e Gianni, quando arriva il monologo che gestisce con sagacia, misura e pieno controllo dei contenuti. Il dialogo con i ragazzi del carcere minorile di Nisida e l’esortazione ad accendere i riflettori sul rapporto tra la scuola e gli adolescenti marginali lasciano il segno.

Fedez, il moccioso che non cresce. Voto: 2

Passa il tempo, cambia il mondo, lui resta tristemente immobile nel suo infantilismo. Canta «Se va a Sanremo Rosa Chemical scoppia la lite, forse è meglio il viceministro vestito da Hitler», prima di stracciare la foto del sottosegretario Galeazzo Bignami a una manifestazione giovanile di cui si è già più volte scusato. Poi provoca per l’ennesima volta il Codacons. Ha il merito di essersi assunto la responsabilità delle sue azioni. Non dovrebbero mancargli i fondi per pagare le querele.

Pegah Moshir Pour e Drusilla Foer. Voto: 8

Più che giusto ricordare i diritti negati in Iran. Parlare di persone in carcere, donne violate e impossibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero dopo l’elogio dell’articolo 21 della Costituzione era doveroso. Lo hanno fatto le persone giuste e con i toni giusti. Abbiamo ancora nella memoria gli eccessi e i livori di Rula Jebreal; Pegah e Drusilla lo hanno fatto con garbo, eleganza e senza retorica. Doti che giovano alla causa.

Rosa Chemical, Achille Lauro de noantri. Voto: 4

Il voto è la media tra testo, musica e look. Il rapper si presenta con occhiali da sole, bustino in pelle e piercing a volontà. La sua Made in Italy cita Vasco, Celentano e Leonardo. Canta il poliamore: «Ti piace/ Che sono perverso e non mi giudichi/ Se metterò il rossetto in ufficio lunedì/ Da due passiamo a tre/ Più siamo e meglio è». Il ritornello orecchiabile e ben ritmato diventerà un tormentone. Copia sbiadita di Achille Lauro.

Angelo (troppo) Duro per l’Ariston. Voto: 5

Lo stand up più caustico e il teatro più mainstream sono mondi troppo lontani per incontrarsi. Si sapeva che era spietato e divisivo. Il contesto fa il testo. Lui fa sold out in teatri dove il pubblico sa chi va a vedere. Amadeus lo fa uscire all’una meno dieci dopo aver invitato i telespettatori a cambiare canale. Ha rivendicato il primato della trasgressione: non ha tatuaggi, è astemio e sta con una donna da 14 anni. I matrimoni «salvati» dalle puttane sono uno di quei paradossi da sbandata sul ciglio del precipizio.

 

«Dopo il tumore prego, ma non so il Padre nostro»

«Questa è la mia officina e non la vendo a nessuno», esordisce Toto Cutugno, seduto tra i suoi collaboratori. Siamo nello studio di registrazione in un seminterrato di Milano est. «Qui veniva anche Adriano Celentano, il più grande di tutti, per il quale ho scritto alcuni successi come Soli. Poi Loredana Bertè, Pino Daniele, sono venuti in tanti… Adesso fanno tutto con i cellulari. Questo studio era di Gino Paoli, poi del maestro Pinuccio Pirazzoli, quello che lavora con Carlo Conti. Poi l’ho preso io». Intorno a Cutugno, 75 anni, toscano di Fosdinovo (Massa Carrara), ci sono il manager Danilo Mancuso, la responsabile dei rapporti con i media Gessica Giglio, i tecnici e i musicisti, anche loro reduci da un tour all’estero.

Dove siete stati?

«A Budapest, Praga, Varsavia e Bratislava. E a Kiev».

Bilancio?

«Molto positivo. Palazzetti e arene sempre esaurite. Grandi soddisfazioni anche a Kiev».

In Ucraina era indesiderato.

«Ci sono andato proprio nella settimana in cui un senatore mi aveva citato come spia sovietica. Prima ha accusato Al Bano, poi me. Mi sono messo a ridere. All’aeroporto c’erano tutte le tv ad aspettarmi. Ho fatto un grande concerto con l’orchestra sinfonica».

Come si è spiegato un attacco come quello?

«E chi lo sa? Magari alla moglie del senatore piacciono troppo le mie canzoni (sorride). L’ho anche invitato al concerto, ma non è venuto. Invece, i presidenti ucraini sono sempre venuti».

In quei giorni c’erano anche le elezioni presidenziali.

«Ed è stato eletto Volodymyr Zelensky, un comico che ricorda il nostro Beppe Grillo. Ho partecipato anche a un programma tv con lui. Un simpaticone. Aveva fatto una serie in cui interpretava il ruolo di un professore che diventa capo dello Stato. E lo è diventato veramente».

Il senatore che l’accusa appartiene a un partito avversario?

«Sì, ma è stata un’uscita isolata. Al Bano si era espresso in favore di Vladimir Putin durante la guerra di Crimea, io non ho detto nulla. Anni fa, dopo un concerto, Putin venne in camerino, mi ha dato la mano e se n’è andato. Un uomo con uno sguardo glaciale».

Però Al Bano è suo amico.

«Un fratello. Se sono qui lo devo a lui. Un giorno, era il 2007, viene a trovarmi. Gli dico: “Sai che cosa mi succede Al? Di notte devo alzarmi tre o quattro volte…”. Fa una telefonata e mi prende un appuntamento per l’indomani al San Raffaele. Il medico mi visita e decide di operarmi d’urgenza. Se non ci fosse stato Al Bano… Ora sono un miracolato che ama la vita più di prima. Solo, non riesco a camminare tanto e dovrei smettere di fumare».

In quali altri paesi la chiamano?

«Dovunque. In Turchia, in Afghanistan. Sono stato in tutte le repubbliche dell’ex Unione sovietica, dalla Kamchatka alla Lituania. Poi in Armenia, a Dubai, a Cartagine in Tunisia, in Algeria, in Germania, in Spagna. In Francia, all’Olimpia di Parigi».

Nel dicembre scorso.

«Grande serata. In Francia sono amato perché mi ha spalancato la carriera di compositore quando Joe Dassin volle cantare un mio brano. Poi sono arrivati Johnny Halliday, Mireille Mathieu e tutti gli altri».

Com’è l’Italia vista dai suoi concerti all’estero?

«Guai a chi me la tocca… Certo, ci sono tante cose che non funzionano. Ma quando sei fuori ti rendi conto della bellezza dell’Italia. Io la conosco anche nei suoi angoli remoti perché per tre anni, facendo Piacere Rai1 con Piero Badaloni e Simona Marchini, l’ho girata in lungo e in largo».

È più facile organizzare un tour in Italia o all’estero?

«Qui siamo cantanti nazionalpopolari, mentre all’estero ci vedono come artisti internazionali. Per questo è un po’ che non faccio tournée italiane. Ho un po’ di paura, mi è sembrato di esser finito nel dimenticatoio… Con tutto questo rap ho cominciato a pensare che la melodia mediterranea sia meno amata. Ma forse, se fai una bella canzone, l’apprezzano anche i giovani. Sto lavorando a un nuovo disco che sarà pronto in ottobre. Il mio manager vuole farmi provare sette otto tappe, poi vediamo. Anche dopo la vicenda dell’Ucraina, in tanti mi chiedono perché non faccio più concerti in Italia. Presto succederà».

Perché lei, Al Bano, Gigliola Cinquetti, i Ricchi e poveri, Riccardo Fogli, Marcella avete tanto successo soprattutto all’Est?

«La prima volta che sono andato a cantare in Unione sovietica era il 1986. C’erano ancora il Muro di Berlino e la dittatura. Feci 15 serate a Mosca e 15 a San Pietroburgo: 20.000 persone a concerto. La domenica se ne facevano due, uno al pomeriggio e uno la sera. I biglietti venivano venduti nelle fabbriche. Erano anni cupi, ma i russi vedevano il Festival di Sanremo. Cercavano quella spensieratezza che c’è nelle nostre canzoni. Le mie piacevano e piacciono molto alle donne, perché vedono l’italiano romantico e sentono l’armonia mediterranea. Poi in alcune mie canzoni ci sono delle assonanze con la musica popolare russa».

Perché ha il record di partecipazioni a Sanremo?

«Ci sono andato quindici volte. La prima, nel 1980, l’ho vinto con Solo noi e ho cominciato a pensare che fosse facile vincerlo. Così sono tornato, ma sono sempre arrivato secondo e la cosa mi fa un po’ incazzare. Però l’anno che sono arrivato dietro ai Pooh sono andato all’Eurofestival al posto loro, e l’ho vinto. Mi piaceva gareggiare. Arrivavo in albergo a Sanremo e dicevo a mia moglie: “Questa volta non mi voglio incazzare”. Ma dopo un quarto d’ora stavo già litigando con i giornalisti».

Motivo?

«Dicevano che ero ruffiano perché avevo scritto le canzoni sulle mamme e sui figli. Ma Le mamme parlava di mia madre che non c’era più e Figli l’avevo scritta dopo che era nato Niko. Ho scritto anche serenate, ballate malinconiche, Voglio andare a vivere in campagna…».

Mai stato idilliaco il suo rapporto con i giornalisti.

«Ce n’era uno molto importante che appena mi vedeva mi abbracciava. Ma appena c’era una telecamera teneva le distanze. Un altro mi elogiava in pubblico come musicista, ma stroncava le canzoni sul giornale. Io non sopporto l’ipocrisia, la doppiezza, amo la gente…».

Vede il pericolo che anche Sanremo diventi una manifestazione per intellettuali?

«Dipende sempre dal direttore artistico, anche lì si va per amicizie. Vorrei sapere quale canzone ha lasciato il segno negli ultimi vent’anni. Soldi mi piaceva, era una bella furbata e all’Eurofestival Mahmood è arrivato secondo. A me sembra che ci siano troppi talent, X Factor, The Voice, Amici, quello di Michelle Hunziker e J-Ax. Tutti bravi, ma dov’è lo spazio? E i ragazzi che non sfondano lo accettano o magari cadono in depressione?».

Ha seguito le polemiche del festival di quest’anno?

«Una volta c’era il voto popolare abbinato al Totip e vinceva la canzone che piaceva alla gente. Nel 1983 con L’Italiano sono arrivato quinto. Mentre con il voto del Totip, che quell’anno era sperimentale, avrei vinto. La sera mi telefonò Domenico Modugno: “Ho sentito la canzone, tu sarai il mio proseguimento”. Fu quella la mia vittoria».

Un verso di Insieme con cui ha vinto l’Eurofestival dice: «L’Europa non è lontana, c’è una canzone italiana». È la sintesi delle ultime elezioni?

«Quando l’ho scritta l’Unione europea non c’era ancora, ma qualche giorno fa a Bratislava la cantavano tutti. Sì, sembra la sintesi delle elezioni, anche se dicono che in Europa la canzone italiana conta poco. Speriamo che cambi, che riescano a ridurre le tasse, non ha idea di quante ne pago io».

Lei come le ha vissute queste elezioni?

«Premetto: io sono apolitico. Ho seguito i leader e a volte penso che parlano bene e razzolano male. Matteo Salvini mi piace, l’ho anche votato, vediamo che cosa riesce a fare. Io sono sempre stato berlusconiano, però adesso Berlusconi mi fa tenerezza. Quando l’ho conosciuto, prima che entrasse in politica, aveva grande carisma».

Come l’ha conosciuto?

«M’invitò ad Arcore nel ’93, voleva che passassi a Mediaset. Mi fece parlare e io gli raccontai di mio padre che suonava la tromba e di quella volta che gli telefonai dopo il successo di Soli cantata da Celentano: “Sì, bella canzone, ma è un po’ copiata, somiglia a questa…”, disse intonando un’aria che non c’entrava niente. Allora Berlusconi mi propose di andare a vedere il Milan in elicottero: “Perché non compone l’inno del Milan al posto di quello di Toni Renis? Intanto che vado a cambiarmi, provi qualcosa al pianoforte”. Dopo un po’ che strimpello, scende in giacca e cravatta per andare allo stadio, si avvicina, appoggia una mano sulla spalla e mi fa: “Mi piace, ma è un po’ copiata…”. Un grande. Siamo andati a vedere la partita, ma poi sono rimasto in Rai».

Che richiesta farebbe oggi al mondo politico?

«Di realizzare quello che promette. Chiunque sia, almeno la gente potrebbe fidarsi. Per esempio, le telecamere di sorveglianza negli asili e negli ospedali sono un’ottima idea. Ma che lo facciano davvero. Anche controllare gli sbarchi è giusto. Quando vedo queste mamme con i bambini che vagano per strada mi si spacca il cuore. Però non possiamo accogliere tutti noi… L’Europa c’è solo per presentare il conto? Che si divida i compiti anche sull’immigrazione».

Chi è oggi «un italiano vero»?

«Bella domanda. Allora era Pertini, il presidente partigiano. Anche mio padre è stato partigiano… L’italiano vero è chi realizza quello che ha promesso. Non dico tutto, ma in gran parte».

Mi dice il titolo del nuovo disco?

«Io pensavo Tic tac, ma il mio manager non è convinto. C’è una canzone sul tempo che s’intitola così. Chiedo di avere tempo perché ho ancora tante cose da dire e da fare».

Il tempo che passa… lei è credente?

«Quando ho scoperto di avere il tumore sono cambiato. Da bambini si dice “mamma aiutami”, da adulti si invoca Dio. Io ho cominciato a rivolgermi a Dio, anche se non vado in chiesa. Prego con le mie parole, il Padre nostro non me lo ricordo tutto: Padre nostro che sei nei cieli… sia santificato il tuo nome… E poi?».

 

La Verità, 2 giugno 2019

 

 

Spinoza Live smaschera il festival di piaggeria

Le canzoni? Le canta, le cita o le fa citare. Dopo Claudio Bisio è toccato a Pio e Amedeo inchinarsi ai testi del cantautore-conduttore nell’esibizione più sulfurea del festival. Istruzioni a Claudio Baglioni su come fare tris nel 2020, con loro due al fianco. Anzi, mettendosi di fianco: «Magari tu fai un cartoon, una cosa tipo Baglion… se non lo prende la Rai lo vendiamo a Mediaset…». Il segreto però è niente ospiti stranieri: «Dilla tutta che lo facciamo al 100%. Prima…» «… gli italiani», ha completato lui. Ottima performance, rovinata dal pistolotto finale con citazione da Uomini persi: «Anche questi cristi/ Caduti giù senza nome e senza croci/ Son stati marinai dietro gli occhiali storti e tristi/ Sulle barchette coi gusci delle noci…». Festival di piaggeria.

«Il vincitore di Sanremo andrà all’Eurofestival. Dove potrebbe trovare Berlusconi»; «Pubblico tutto in piedi per Riccardo Cocciante. Che bastardi»; «A Patty Pravo invece dei fiori hanno consegnato le opere di bene»; «Motta canta Dov’è l’Italia? L’ha scritta durante gli scorsi Mondiali»; «Sanremo è l’apostrofo rosa tra un duetto di Baglioni e uno spot della Tim»; «Ricordiamo che in questo momento le tv del Venezuela stanno parlando della drammatica situazione a Sanremo»; «Stavo pensando che avendo vinto Sanremo Giovani l’anno scorso, Ultimo avrebbe potuto ritirarsi all’apice della carriera»; «Quando vedo duetti in cui non è coinvolto Baglioni me lo immagino dietro le quinte legato tipo Ulisse». Sono alcuni dei tweet di Spinoza Live, account di Spinoza.it, antidoto cult alla lentezza liturgica delle serate. Viva l’irriverenza.

 «Ho sempre detto di no perché è una fatica immane, ma se mi alleno bene non lo escludo». Ha risposto così Al Bano Carrisi a Giorgio Lauro e Geppi Cucciari di Un giorno da pecora che gli chiedevano se avesse mai pensato di condurre Sanremo. «Anni fa me lo proposero, ma ora sulla base delle due trasmissioni che mi hanno fatto condurre su Canale 5, ho notato che ci potrebbe essere una chiave nuova». Che sarebbe? «Basta aver visto 55 passi Nel Sole per capirlo…». Quanto all’edizione in corso Al Bano ha commentato: «Se fossi stato al posto del mio amico Baglioni avrei tagliato un po’ di più certe referenze nei miei confronti». Troppo autoreferenziale? «Sì. Ma non so se sia un difetto o un pregio». L’occhio del critico.

 Ma se non fosse stato «meno invadente dell’anno scorso» Baglioni che cosa avrebbe potuto fare? Fra i tanti, dittatore artistico è il nomignolo più adeguato al suo egocentrismo. «In realtà il Festival di Sanremo è il gruppo spalla del concerto di Baglioni», ha sintetizzato @fraguarino su Twitter. Straripante.

La Verità, 8 febbraio 2019

 

«Dio, Romina e l’Italia: vi racconto la mia vita»

Com’è l’Italia vista da Cellino San Marco?

«Sono due. La prima è quella dell’infanzia e dell’adolescenza fino a 17 anni, quando frequentavo le magistrali prima di andarmene a Milano, dove ho scoperto che l’Italia era una di nome e tante di fatto».

E la seconda?

«È l’Italia di oggi, un Paese in formazione. Sostanzialmente ci sono un Sud e un Nord e, nonostante l’emigrazione, siamo ancora alla ricerca di un equilibrio. Se ne vanno cervelli e manodopera. Quante volte, da ragazzo, sono andato a salutare amici che partivano su treni così pieni che mi fecero venir voglia di partire anch’io».

Nella grande cucina della casa di Al Bano Carrisi, davanti a un tavolone in legno circondato da una panca, il fuoco del camino in pietra riscalda la sera. «Con il fuoco acceso l’inverno è meno inverno», riflette. Dopo un lungo inseguimento, l’artista che ha appena festeggiato i suoi 55 anni di carriera musicale ha accettato di farsi intervistare, ritagliando una serata tra i tanti impegni e andirivieni da Cellino.

Come nasce il nome Albano?

«Durante la guerra, quando combatteva in Albania, mio padre ebbe una licenza per malattia. Arrivato a casa i miei fecero la famosa fuitina, si sposarono e mia madre rimase incinta. Una volta tornato in Albania le scrisse: “Se sarà maschio chiamalo Albano, sarà la nostra fortuna”».

Preveggente.

«Mio padre era un tipo particolare. Il nonno si chiamava Angelo e tutti i figli diedero il suo nome al loro primogenito. Lui no».

Che mestiere facevano i suoi genitori?

«Erano contadini come la maggior parte dei cellinesi. Eravamo in quattro con mio fratello, più il mulo. Molta miseria, un mondo dal quale volevo scappare».

Come le venne l’idea di cantare?

«La ereditai da mia madre che cantava nei campi, benissimo. Anche mio padre cantava. Poi a due passi da qui, a San Pietro Vernotico, viveva Domenico Modugno. Seguivo alla radio le sue orme canore, il suo folk, che rendeva musicali le espressioni degli ambulanti. Come Lu pisci spada. Sentivo la passione per il canto prima ancora di avere coscienza della mia voce. Erano gli altri a incoraggiarmi».

Finché partì per Milano.

«Ero convinto che fosse la meta giusta per me. E non sbagliavo. Mio padre aveva detto che mi avrebbe fatto partire se avessi trovato qualcuno di cui fidarsi che mi avrebbe fatto da guida. C’era un ragazzo delle nostre parti che viveva a Varese. Iniziai lì, ma presto mi spostarono a Milano a dipingere le porte di un palazzo in costruzione. Finii a mangiare pane e ananas per una settimana».

Pane e ananas.

«Esattamente. Il padrone non pagava e con le ultime mille lire in tasca entrai alla Standa. Vicino alle scatolette di carne Simmenthal c’erano delle cose marroni tondeggianti che non avevo mai visto. Pensavo fosse un tipo di carne meno costosa. Ne comprai una piccola scorta e quella settimana andò così. Ma capii la lezione».

Che era?

«Se il problema è la fame, troverò lavoro in un ristorante, lì ci sarà da mangiare… In uno davanti al Duomo cercavano un aiuto cuoco. Non ancora diciottenne, non ero mai entrato in un ristorante. Pensavo: basterà mettere la legna nel fuoco in cucina. “Non è così terùn”, rispose il padrone, “però hai una faccia simpatica e ti prendo lo stesso”. Davo i volantini ai passanti, pulivo la cucina e le sale. La sera mi facevano aiutare a preparare la pizza. Imparai presto».

Poi?

«Ho lavorato anche sei mesi di fila senza riposi, ma stavo bene. Milano era vitale. Mandavo a casa 15.000 lire al mese, lo stipendio era di 25.000, le altre dieci mi servivano per la pensione. Vivevo con le mance».

Quando iniziò a cantare?

«Conobbi il maestro Pino Massara che mi fece fare un provino da Adriano Celentano. Iniziarono i primi concerti. Poi Settevoci con Pippo Baudo e il primo Festival di Sanremo, cose che abbiamo ripercorso nello show di Canale 5».

E i suoi genitori?

«Erano contenti. Nel 1967, l’anno di Nel sole, mandai a mio padre l’assegno del primo contratto con la Emi: 8 milioni».

Suo padre non era debole di cuore.

«Capì che le cose stavano cambiando».

Gli anni Settanta furono un trionfo?

«Mi sposai con Romina. Poi iniziarono le tournée all’estero. Quando ne accettai una in Spagna mi criticarono. Ricordo una telefonata di Gianni Minà: lì c’è la dittatura. Ma io ci lavoravo bene mentre in Italia c’era il terrorismo, si aveva paura a camminare per strada».

Perché la Puglia è terra di artisti? Lei, Celentano che però è nato a Milano, Modugno, Renzo Arbore, Lino Banfi, Diego Abatantuono, Checco Zalone, Michele Placido…

«Il grande Tito Schipa… i Negramaro, Emma. Secondo me ci siamo influenzati l’un l’altro. Il canto e la musica ci pervadono. Poi siamo gente che ama viaggiare e i cantanti di successo partono, girano il mondo, tornano. Ancora oggi faccio 260.000 miglia di aereo l’anno. Lassù è il posto dove mi vengono le idee migliori. Durante le lunghe trasvolate per l’Australia o il Giappone trovo ispirazione. Sarà perché si è più vicini a Dio…».

È superattivo: show in tv, tournée…

«È il mio mestiere. Per fortuna continuano a chiamarmi. Il 2019 è già quasi tutto pieno. Andrò in Romania, Corea del Sud, Russia e ancora in Cina».

Perché ha fatto centro il family show su Canale 5?

«Siamo un gruppo di persone che ha il fuoco dell’arte dentro. Nessuno sbava per il successo a tutti i costi, ma quando abbiamo l’occasione buona la sappiamo cogliere. Cristèl è disinvolta, lavora da tanto con me. Come titolo avevo proposto Tre passi nel sole. Poi sono diventati 55 come gli anni della carriera che volevo festeggiare appoggiandomi sugli amici e gli eventi della mia famiglia».

Aveva voglia di archiviare un periodo di preoccupazioni per la salute?

«Vedo tante persone che fanno le vittime e desiderano solo farsi compatire. Io detesto il piangersi addosso».

Al successo del suo show ha giovato anche il fatto di arrivare dopo il cartoon di Celentano?

«Ho rispetto e gratitudine per Adriano. Nei primi anni a Milano mi ha quasi adottato. Qui, nella masseria, ci sono le vie e le piazze, ne intitolerò una a lui. E un’altra a Modugno».

Nello show si è vista una parte della famiglia. E l’altra?

«La famiglia è sacra dal primo all’ultimo nato. Però Romina non vuole intromissioni nella sua vita artistica e anche Loredana la pensa allo stesso modo. Quindi mi divido nel rispetto delle esigenze dell’una e dell’altra».

Ha parlato di una sorpresa in arrivo, di cosa si tratta?

«Il 20 maggio prossimo (giorno del compleanno di Al Bano ndr) dovrebbe andare in onda un docufilm. Una troupe di Endemol mi segue da mesi, prima nelle tournée all’estero poi anche qui, nella vita di tutti i giorni. Ci saranno i figli di Loredana e lei, se vorrà».

Com’è andato il tour mondiale con Romina?

«Abbiamo avuto successi ovunque. Io divido la mia attività artistica da solista, quando vogliono il solista, e in coppia, quando vogliono la coppia».

Lei vive?

«A Los Angeles, con Romina Jr».

E Loredana Lecciso?

«A Lecce. Tra due caratteri forti è meglio mettere qualche chilometro».

Preferisce i concerti dal vivo o la televisione?

«I concerti, per il contatto con il pubblico. La tv serve per promuoversi, considerato che ti vedono milioni di persone».

Quest’anno niente Sanremo.

«L’ultima volta mi hanno escluso, mentre Di rose di spine era una bellissima canzone. Vorrei tornare nel 2020. Sanremo è importante, è conosciuto all’estero, passa tutto da lì».

Con la sua voce avrebbe potuto cantare di più il blues?

«Ma lo canto. Come canto l’opera. Nel 1968 ebbi grande successo con Il Mattino di Leoncavallo. E grande successo ha avuto un album intitolato Concerto classico con opere di Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Fryderyk Chopin. Mi piace anche il folk. Nei concerti propongo una varietà di generi».

Ammette che sia difficile immaginare un rapporto solo professionale tra lei e Romina Power?

«Io sono trasparente. Mio padre e mia madre mi hanno innestato l’onestà dentro e la manterrò sempre. La riunione artistica con Romina non l’abbiamo voluta né io né lei, ma un impresario russo. Per la festa dei 70 anni eravamo al Cremlino. C’erano Toto Cutugno, i Ricchi e Poveri, Gianni Morandi, Pupo, i Matia Bazar… L’impresario disse che gli sembrava giusto ci fosse anche Romina. “Se vuoi provarci, provaci”, dissi. Ma ero sicuro che non sarebbe venuta. Invece, accettò, non so grazie a quale argomento».

Anche economico?

«Non me ne sono interessato, lo giuro sui miei figli. I tre concerti erano già sold out. Abbiamo abbassato di un tono le canzoni. Lei avrebbe voluto di due, ma io ho tenuto il punto».

La causa della vostra separazione è la scomparsa di Ylenia?

«Già prima c’era qualche difficoltà. Era inquieta, anche lei non capiva bene perché. La scomparsa di Ylenia ci aveva un po’ riavvicinato. Alla fine ha deciso così».

Le stava stretto il posto?

«Ma no… Mi aveva convinto lei a tornare qui, si era innamorata di queste terre. Qui non c’era niente, né l’elettricità né il telefono. Ho costruito tutto io, con i gruppi elettrogeni. Ho speso tanti soldi, ma quando c’è l’amore tutto diventa favola».

Qualcosa si era rotto?

«Sì, non è stato facile. Mi spiace che non abbia accettato la vita che mi sono fatto dopo. Come fa a non rendersi conto che tutto è derivato dalla sua scelta di cambiar vita!».

Le donne vogliono l’esclusiva.

«Io vorrei ci fosse armonia. Ma rispetto e vado avanti senza paure, sempre con il mio motto».

Che è?

«Voglio essere il problema per i problemi. Ce ne sono sempre di problemi, ma con me trovano filo da torcere…».

Il fuoco continua a emanare calore. Come le parole di Al Bano, che esprimono un’intelligenza profonda e solida, nata dalla terra, provata dalla vita vissuta e dall’attaccamento alle radici. «Vuole che su quelle braci mettiamo a cuocere della carne?». Si alza, apre il frigorifero, estrae la carne, inizia a tagliare, mi vieta di aiutare…

Come si ricomincia a vivere dopo la scomparsa di una figlia? A cosa ci si aggrappa?

«È una tragedia che non risolvi mai del tutto. Io la vivo cristianamente».

Cosa vuol dire?

«Se uno è cristiano sa che anche a Dio hanno ammazzato un figlio. Gliel’hanno messo in croce. Allora ho capito che anche a me poteva succedere di perdere una figlia. In realtà, è stata la prima volta che sono andato contro Dio».

Come?

«Quando hai sempre fatto il tuo dovere di cristiano non riesci a capire… I miei anni Novanta sono stati tragici. Mio padre perse la vista, dissero per un infarto del nervo ottico. Voleva farsi fuori: da uomo iperattivo ora doveva essere aiutato ad andare al bagno. Gli parlavo di Ray Charles e Stevie Wonder, artisti che facevano divertire la gente. Quando iniziò ad ascoltare Radio Maria pian piano si rappacificò. Nel 1994 ci fu la tragedia di Ylenia. Poi Romina se ne andò. Non riuscivo a dormire, avevo le bambine piccole…».

E contestò Dio.

«Ero pieno di rabbia. Protestavo contro il cielo. Ma dentro di me sentivo che stavo sbagliando».

Viene in mente Giobbe.

«La pazienza non mi è mai mancata. Anche adesso, prima di uscire di casa, ogni giorno me ne faccio un bel carico. Le cose nuove che succedono mi sembrano un déjà vu».

Nell’autobiografia del 2006 ha lasciato bianche le due pagine dedicate a Romina e Loredana: lo rifarebbe?

«Lottai con gli editori per mantenerle bianche».

Motivo?

«Era una difesa dal gossip diventato insopportabile. Ho visto tanto squallore. Un telegiornale arrivò ad accusarmi di aver nascosto mia figlia in casa per farmi pubblicità».

Ha cantato davanti a Vladimir Putin.

«Tre volte. Lo farò ancora in agosto a Tokio».

Com’è nato il rapporto con il presidente russo?

«Nel 1986, durante una tournée in Russia, feci 18 concerti a Leningrado e altri 18 a Mosca. In uno di questi era presente anche lui, allora capo del Kgb. Il giorno dopo venne in albergo per complimentarsi. Poi nel 2004 ho cantato al Cremlino per festeggiare il Capodanno. Allo stesso tavolo c’erano Putin e la sua famiglia e Boris Eltsin e famiglia. È stata una grande festa, con i rappresentanti di tutte le religioni, cattolici, ortodossi, copti, musulmani, segno che, quando si vuole, la convivenza pacifica è possibile. Nel novembre scorso, invece, alla festa del centenario del Kgb, tanti cantanti, e anch’io, abbiamo intonato ognuno due canzoni».

Che cosa apprezza di questa persona?

«Dopo Michail Gorbaciov la Russia stava declinando, non c’erano più soldi. Eltsin ha iniziato questo rinascimento e Putin l’ha consolidato».

Le libertà sono tutelate?

«Vedo che si respira. Poi, certo, l’unica perfezione del mondo è l’imperfezione. Qualche nemico ce l’ha anche Putin. Però ha saputo mantenere intatto il corpo sociale della Russia, non permettendo ad altri di invadere i suoi campi».

Mai parlato di politica?

«Mai, è sempre blindato».

Di recente è stato ricevuto al Viminale da Matteo Salvini: una visita solo per affari con la Cina?

«Gli imprenditori cinesi che vendono i miei vini volevano incontrarlo perché avevano notato che il 50% del mercato vinicolo è in mano ai francesi, mentre gli italiani hanno solo il 5%. Volevano sensibilizzare il governo italiano per cambiare questa sproporzione. Ho accettato di fare da mediatore per questo incontro. Pochi giorni dopo il ministro dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio è andato in Cina… Penso di aver fatto un buon lavoro in favore dei vini italiani, non necessariamente i miei».

Nella polemica tra Salvini e Claudio Baglioni, poi rientrata, ha preso le parti del ministro dicendo di conoscere la situazione dei migranti per esserlo stato. Che differenza c’è con quelli di oggi?

«Noi scappavamo da un destino che sembrava ineluttabile: la vita dei nostri genitori. Io quella vita non la volevo fare. Una volta sentii mia madre dire che in tutto l’anno si erano spaccati la schiena per 800.000 lire lorde. Si faceva la fame».

E oggi?

«Ci vuole un po’ d’ordine con questa ondata di migranti. Non solo per noi, ma anche per loro. Scappano da una morte sicura per affrontarne un’altra quasi sicura. Chissà che cosa promettono a questi poveri emigranti che attraversano i Balcani, lo stretto di Gibilterra e il Mediterraneo. Vogliono una nuova vita e spesso trovano la morte. L’Europa deve intervenire unita: l’Italia non può farsi carico da sola di questa emergenza. Pensiamo a quello che è successo in Siria. L’Isis tagliava le teste ai civili e nessuno interveniva. Abbiamo lasciato uno spago troppo lungo a quella situazione».

Che cosa le piace di Salvini?

«Mi sembra che stia mantenendo il programma annunciato in campagna elettorale. Ha trasformato la Lega in un partito nazionale. Non ho mai fatto parte di un partito sebbene abbia ricevuto tante proposte. La politica non è il mio forte. Ma dal momento che gli italiani hanno scelto – come in passato con Berlusconi e Renzi – se c’è da fare qualcosa di positivo la faccio. Pur senza appartenere. Quando viaggio e vedo gli exploit di Paesi come la Polonia o la Spagna a confronto con la mia Italia sto male. Tutto questo litigare dalla mattina alla sera non rende merito a una delle più belle terre del mondo. Sapere che Roma era comandata dalla mafia di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati è avvilente».

Nuoce o giova a Salvini il fatto che lo vogliano processare per la vicenda della nave Diciotti?

«Sono curioso di vedere quale sarà la reazione degli italiani».

Per chi ha votato alle ultime elezioni?

«Non glielo dirò mai. Voto per i politici che mi sembrano positivi per l’Italia. Abbiamo visto che fine hanno fatto sia la destra che la sinistra».

In passato chi apprezzava?

«Per tanti anni qui a Cellino c’è stato un bravo sindaco comunista, come facevo a non votarlo?».

Se le dico Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi?

«Sono stati grandi politici. Però Andreotti fu accusato di connivenze mafiose e trattato come un delinquente. Craxi è morto in esilio. Di Berlusconi avevo grande fiducia, ma è evidente che governare in Italia non è facile. Tutto sommato non glielo hanno lasciato fare».

È stata una delusione?

«La delusione c’è stata… Perché l’Italia è diventata ingovernabile».

Che cos’è la fede per lei?

«È la mia coperta d’inverno, la mia acqua nel deserto. È una certezza cresciuta negli anni. Tanti poteri passati in Italia appartengono solo alla storia. Quello della Chiesa è tuttora vivo e vegeto perché afferma il bene, l’amore, la pace e l’umanità partendo dalla persona di Gesù Cristo e dei santi che lo imitano».

Ha detto di avere ancora molti progetti da realizzare, me ne sveli uno.

«Con la Publispei, insieme a Lino Banfi stiamo preparando una fiction in sei episodi per Rai 1. Poi reciterò il ruolo di uno strano mafioso in Le nostre vacanze romane, una produzione italo-turca».

Che cosa le dà speranza oggi?

«La voglia di vivere con la fede che mi porto addosso. La voglia di affrontare tutto ciò che c’è da affrontare. Con il mio motto… Le piace la carne?».

 

La Verità, 3 febbraio 2019

Il family show di Al Bano è una boccata d’ossigeno

Ossigeno puro. Come quello che si respira in certi pomeriggi di montagna. Sono pochi in Italia in grado di reggere un family show, di trasformare in varietà la propria storia senza eccedere in egocentrismi. Al Bano Carrisi sì, può farlo. Lo si è visto l’altra sera su Canale 5, rete reduce dal deludente Adrian di Celentano, anche questo una biografia musicale, quanto diversa. Il confronto se lo aggiudica 55 passi nel sole, show in due serate (la seconda il 30 gennaio) per celebrare la carriera dell’artista di Cellino San Marco. Prima che negli ascolti (18.3% di share, 3,4 milioni di spettatori), la sentenza è nei contenuti e nella misura. Un gala elegante nella forma e popolare nella sostanza, schietto come il suo protagonista. «Io sono le mie canzoni», dice Al Bano entrando in scena, «sono storie che nascono dal cuore. Questa è la mia vita». Come dire: uno che ci mette la faccia, dritto per dritto. Dopo gli infarti e i malori ha di nuovo voglia di cantare e di calcare le scene, come dimostra il tour mondiale insieme a Romina Power, tappe in Cina, America, Medio Oriente, Europa. La voce e lo spirito sono sempre gli stessi.

Lo studio è disegnato su la strada dei 55 passi, uno per ogni anno di carriera. Il family show è in Cristèl Carrisi, la figlia maggiore esordiente alla conduzione che tiene la serata dosando l’ego del padre. È in Romina jr, coinvolta nei promo e negli stacchi. È in Al Bano e Romina seduti a un tavolo che sono il format nel format. Proprio nella «family» è il segreto. Nel mettersi in scena per ciò che si è, con la propria travagliata storia. Tutti insieme sul palco ad accompagnare Felicità remixata con J-Ax. Lo show parentale diventa amicale e vive di tanti momenti diversi. Il momento Sanremo, con Pippo Baudo a ripercorrere i festival, dal primo di entrambi, anno 1968, quando spunta l’Al Bano blues di La strada, autori Gene Pitney e Mogol. Il momento nazionalpop dei Ricchi e Poveri, Toto Cutugno e Pupo. Ancora il blues, con Alex Britti alla chitarra. Il momento emigranti con Lino Banfi, dalla Puglia a Milano e, a seguire, il momento genitori-figli, sottolineato dalla poesia di Khalil Gibran e le foto «di quando eravamo tutti insieme», anche con Ylenia. Bussa ancora sconfina nel rock, prima dell’omaggio al Celentano di Soli e Azzurro. Infine, la dedica di Giuliano Sangiorgi e Fabrizio Moro che, emozionatissimo, dimentica il testo di Portami via. Uno show spontaneo e misurato, senza pulpiti e intellettualismi, apprezzabile anche da chi non è un fan della prima ora. Avercene.

La Verità, 25 gennaio 2019