L’allarme è unanime. Le menti più lucide, i cervelli più autorevoli e disincantati lo ripetono all’unisono: la ripresa che speriamo per questa povera Italia non può essere guidata dal governo attuale. È un dato di formazione, di attrezzatura culturale, di inesperienza. Bisogna cambiare rapidamente pilota, dicono i migliori economisti, sociologi e filosofi, se non vogliamo che il pullman finisca nel precipizio della povertà e della protesta sociale violenta. Lo intonano da settimane senza che nei media, in gran parte omologati al pensiero mainstream, il loro invito superi il livello delle voci isolate. Provando ad avvicinarle ne scaturisce un coro. Giorgio Agamben, Quodlibet: «È evidente – e le stesse autorità di governo non cessano di ricordarcelo – che il cosiddetto “distanziamento sociale” diventerà il modello della politica che ci aspetta». Luca Ricolfi, intervista all’Huffington post: «La nostra società, se non si cambia rotta molto molto alla svelta è destinata a trasformarsi in una società parassita di massa». Giulio Sapelli, intervista alla Verità: «All’ora della verità arriviamo governati da eterni disoccupati». Massimo Cacciari, La Stampa: «Serve una cultura politica esattamente opposta a quella che si è manifestata in questi mesi». Giuseppe De Rita, intervista alla Verità: «La ripartenza non si fa con le sovvenzioni ad personam». Carlo Galli, La Parola: «Il Paese è chiamato a grandi scelte per ripartire a guerra finita, ma anche prima, a breve». Marcello Veneziani, La Verità: «Non possiamo lasciare la ricostruzione in mano ai nani».
Incurante del ridicolo, qualche giorno fa il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ha presentato un piano strategico per trasformare «questa crisi in opportunità» sulle stereofoniche colonne del Corriere della sera e del Fatto quotidiano. Una fogliata di «profonde» riforme volte alla modernizzazione del Paese che va dalla sburocratizzazione alla capitalizzazione delle imprese e delle start up, dal sostegno green economy alla digitalizzazione dell’offerta formativa, dalla riforma dell’abuso d’ufficio all’introduzione di una nuova disciplina fiscale. Un vasto programma che abbiamo già orecchiato in altre solenni occasioni con «Giuseppi» in piedi dietro a un leggio su come verranno usati i molto promessi fondi europei. Un Recovery plan così altisonante che non l’ha sentito nessuno, non un approfondimento né una ripresa se si eccettua quella, obbligata, del ministro per gli Affari europei Enzo Amendola. Del resto, la credibilità, quando la si è persa è difficile riconquistarla. Mesi di conferenze stampa abborracciate, di decreti affastellati, di proclami labili e provvedimenti volubili, di alluvioni di fantastilioni e casse integrazioni mai arrivate, di rilanci futuri al tavolo da poker che i presentissimi sprofondi rossi hanno smascherato come l’ennesimo bluff, dando al «piano strategico» l’attendibilità di un desiderio da Miss Italia neoeletta.
Intanto l’apocalisse incombe. La tratteggia Agamben citando Patrick Zylberman: un certo «terrore sanitario» ci ha precipitato in una situazione «da fine del mondo. Dopo che la politica era stata sostituita dall’economia, ora anche questa per poter governare dovrà essere integrata con il nuovo paradigma di biosicurezza, al quale tutte le altre esigenze dovranno essere sacrificate. È legittimo chiedersi», conclude il filosofo, «se una tale società potrà ancora definirsi umana o se la perdita dei rapporti sensibili, del volto (con le mascherine ndr), dell’amicizia, dell’amore possa essere veramente compensata da una sicurezza sanitaria astratta e presumibilmente del tutto fittizia». Più che mai urgente è un cambio di direzione copernicano. Ma per Ricolfi, docente di Analisi dei dati all’università di Torino, può essere persino «già tardi». Di sicuro è improbabile che chi comanda ora sia in grado di guidarlo. «Questo governo è il primo governo esplicitamente e risolutamente iper-statalista della storia della Repubblica. In esso», osserva «le peggiori pulsioni del mondo comunista ed ex comunista, rappresentato da Pd e Leu, confluiscono e si saldano con l’ideologia della decrescita felice propria dei Cinque stelle». Lo scenario tracciato dal responsabile scientifico della Fondazione Hume è cupo: «Nella società parassita di massa la maggioranza dei non lavoratori diventa schiacciante, la produzione e l’export sono affidati a un manipolo di imprese sopravvissute al lockdown e alle follie di Stato, e il benessere diffuso scompare di colpo, come inghiottito dalla recessione e dai debiti». Anche Sapelli, insigne economista, parla di società parassitaria: «In autunno saremo circondati dai poveri come Buenos Aires negli anni Ottanta o il Perù negli anni Novanta. Grazie a questi politici l’Europa si sta sudamericanizzando. E come in Sudamerica avremo le zone dei ricchi e le zone dei servi, sorvegliati dalle torrette con le mitragliatrici». Non bastano sussidi e detassazioni, «sono indispensabili gli investimenti e la sburocratizzazione». Sapelli ha presentato un appello affinché si perseguano questi obiettivi, perché «nell’ora della verità» siamo governati da «una classe di ricchi globalizzati o di eterni disoccupati». Lo pensa anche Giuseppe De Rita: «Sarebbe interessante che qualche giornalista consultasse la Navicella parlamentare per studiare i curricula di ministri e sottosegretari e vedere cosa tornerebbero a fare se non rieletti». Quanto alla ripresa, prosegue il presidente del Censis, «non si fa con le sovvenzioni ad personam. Ma è frutto di un processo socio economico complesso che rimetta in moto filiere produttive, gruppi di imprese e territori. Se i cittadini non hanno fiducia e non escono di casa, se non arrivano i turisti, i ristoranti restano chiusi anche se gli si dà il bonus per riaprire». Ancora più ultimativa l’analisi di Cacciari: «Interventi assistenziali non basteranno più, anche ammesso e non concesso che ci siano stati finora, tempestivi ed efficaci. Non ci saranno neppure le risorse per incerottare tutti. Interventi a pioggia – e per di più, per necessità, ben avari – moltiplicheranno soltanto diseguaglianze e proteste». Se vogliamo davvero cambiare rotta, incalza l’ex sindaco di Venezia, serve «una cultura politica esattamente opposta a quella che si è manifestata in questi mesi, preda di quell’irresistibile impulso ministerial-centralistico e statalistico, capace di decreti più voluminosi della Recherche proustiana». In questo contesto si ripete che non è il momento di fare polemiche. «E invece di dialettica politica, e di elezioni, ci sarà presto bisogno», sottolinea Galli, analista del Mulino. «Il Paese è chiamato a grandi scelte, per ripartire a guerra finita – per quanto questa possa dolorosamente trascinarsi – ma anche prima, a breve», osserva il professore di Dottrine politiche a Bologna. «Una di queste è sulla Ue che, in coerenza con le proprie logiche e strutture, si appresta a sferrare un altro colpo alla nostra autonomia offrendoci come unica risorsa economica il Mes: prestiti (pochi) in cambio della Troika e di una nuova austerità». Soggiacendo ai diktat dell’eurotecnocrazia come sembrano voler fare gli attuali governanti, risulterà velleitaria la risalita post-pandemia, «un’opera gigantesca», scrive Veneziani. «Per fondare uno Stato sociale ci vuole il lavoro di un popolo, di una classe dirigente, di ministri e primi ministri che sanno rispondere davvero alla storia, ai popoli, e non si limitano a sceneggiare numeri di teatrino in tv, con la regia di uno del Grande fratello… Affidereste mai la rifondazione di uno Stato al collasso, di una società con una crisi economica e vitale senza precedenti, di un modello sociale di ricostruzione a gente così? L’ultimo che lo fece, dopo una catastrofe, si chiamava Alcide De Gasperi, il Recovery fund allora si chiamava piano Marshall».
Il Recovery plan invece propinatoci dal premier serviva ad avvisarci che non ha intenzione alcuna di spoltronarsi da Palazzo Chigi, né per la restante parte della legislatura e auspicabilmente neanche per la prossima. Ma chi conserva un residuo briciolo di speranza crede che la massima autorità statale cominci a considerare l’appello trasversale che giunge da molte tra le voci più autorevoli e disinteressate del nostro Paese. Le quali tutte, in coro, dicono, come usa a Milano, che per il governo Conte si è fatta una certa…
La Verità, 31 maggio 2020