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«Il linguaggio dimostra che Meloni è laureata dentro»

Saggista, docente di Linguistica italiana all’Università di Cagliari, autore di studi sulla comunicazione dei maggiori leader politici (dopo il Renziario, il Salvinario e il Berlusconario, ecco il Melonario, sempre da Castelvecchi editore), Massimo Arcangeli è in prima linea contro le storture prodotte dal politicamente corretto nell’uso della lingua. Sarà forse per la petizione contro lo schwa scritta con lo storico Angelo D’Orsi e firmata da tanti intellettuali autorevoli, o perché collabora anche con testate non mainstream, fatto sta che la voce di Wikipedia che lo riguarda è sempre lacunosa e non registra le sue ultime iniziative pubbliche.

In questi giorni uscirà il dizionario del linguaggio parlato, scritto e postato di Giorgia Meloni realizzato con più ricercatori. Definirebbe il premier attuale erede o successore di Silvio Berlusconi?

«Se posso permettermi, né erede né successore perché tra loro esistono distanze rilevanti se non, per alcuni versi, abissali».

Lui era un imprenditore visionario, lei una militante da sempre.

«Meloni è stata fedele fino all’ultimo alla destra sociale, con una storia consolidata di opposizione. Berlusconi è stato un grande imprenditore e l’inventore della tv commerciale. Retroterra che non collimano. Ricordo situazioni in cui Meloni si espresse in modo critico su Maurizio Costanzo o Maria De Filippi. Poi c’è una distanza geografica, Meloni è espressione del mondo romano e Berlusconi di quello milanese. Con tutto quello che questo comporta nella cultura politica».

Elementi convergenti?

«Ci sono e coinvolgono anche Umberto Bossi. Mi riferisco al populismo come elemento positivo di base. Non nell’accezione deteriore che vediamo incarnata, per esempio, dai 5 stelle».

Berlusconi sapeva e Meloni sa interpretare le istanze popolari?

«Hanno la capacità di interpretare i bisogni della gente comune e di parlare alla pancia del Paese. È quella percezione nazionalpopolare della politica che la sinistra non ha saputo fare propria diventando radical chic e fallendo gran parte dei suoi obiettivi».

Vede elementi comuni nel linguaggio?

«Innanzitutto, la personalizzazione della leadership. Più nel caso di Berlusconi ma anche parlando Meloni, il punto di riferimento del partito e della coalizione sono loro. Nella Seconda repubblica ci hanno provato a esserlo anche Matteo Renzi, danneggiato dal suo superego, e Matteo Salvini, con gli esiti che abbiamo visto. La seconda componente comune è la spettacolarizzazione della politica. Anche se Meloni non è una donna di spettacolo, lo sa usare. E sa usare bene i social che, nell’epoca della promocrazia, è molto importante».

Della promocrazia?

«Della politica basata sull’autopromozione, sul marketing. Berlusconi era un simpatico imbonitore, lo dico in positivo. Meloni compete sui vari media. Entrambi sanno che nella politica 2.0 i media che interagiscono tra loro hanno un effetto moltiplicato».

Lei è più multitasking di lui?

«Pur non essendo nemmeno lei nativa digitale».

Entrambi politici pop?

«Se dovessimo redigere un vocabolario delle nuove parole o dei tormentoni inventati da politici nell’ultimo ventennio il primato spetterebbe a loro. Con “cribbio”, “mi consenta” e “l’Italia è il Paese che amo” abbiamo tutto Berlusconi. Per rappresentare Meloni citerei l’avverbio “sommessamente”, che usa spesso e in varie sfumature, oppure il neologismo “nomadare”, in riferimento all’azione dei nomadi, i rom, entrato nella Treccani».

C’è molta differenza dal linguaggio della Prima repubblica?

«Come per Berlusconi che aveva un linguaggio doubleface, sia famigliare che volgare, dalla “patonza” al gesto delle corna, espressioni che tutti abbiamo, anche Meloni alterna il romanesco ai tecnicismi anglosassoni, per esempio in materia economica. Questa è una differenza, ma ci sono anche affinità con la Prima repubblica».

Quali?

«Ho ascoltato centinaia di discorsi a braccio di Giorgia Meloni verificandone la capacità di tenere il filo del discorso. Ecco: lei sa controllare l’esposizione per un tempo molto più lungo degli altri politici contemporanei. Per trovarne qualcuno con la stessa capacità bisogna risalire a Bettino Craxi, Enrico Berlinguer o Aldo Moro. Inoltre, ho trovato una memorizzazione formidabile dei contenuti. Pur parlando a braccio, riesce a riproporli con le stesse parole usate diversi anni prima, fatti salvi i cambiamenti del contesto».

Questo ne accentua la percezione di coerenza e lealtà?

«La lealtà è un elemento fondamentale del suo discorso, al punto che si sono individuate espressioni tratte dalla cultura cavalleresca che, per qualcuno, erano di derivazione fascista. In realtà, sono eredità della cultura risorgimentale e, andando più indietro, dell’immaginario letterario e cinematografico di Tolkien e del fantasy che Meloni ha fatto proprie».

Cosa pensa del ricorso all’inflessione romanesca vuol dire questo?

«È un vezzo».

Da correggere in un ruolo istituzionale?

«Avrebbe potuto fare dei corsi di dizione, se non l’ha fatto è perché il romanesco le è caro. Da premier mi pare vi ricorra di meno».

Cosa significa, come scrive, che è «laureata dentro»?

«Che non ha bisogno di avere una laurea per dimostrare di saper scrivere e parlare bene. È sufficientemente colta, ha le sue letture evidenziabili, parla inglese e spagnolo in modo più che accettabile. Anche Renzi e Berlusconi parlano bene. Lei parla e argomenta meglio. Ha anche capacità di accelerare e decelerare efficacemente i ritmi del discorso».

Il linguaggio deriva dalla vita concreta e lei ha fatto tanti mestieri, dalla barman alla baby sitter, perché il padre non c’era e la madre aveva perso il lavoro… Ha ragione Pietrangelo Buttafuoco a dire che ha una storia di sinistra?

«Paradossalmente sì, una storia di sinistra vissuta sul versante opposto».

«Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana»: questo linguaggio è vincente rispetto alla comunicazione della sinistra abituata ai continui distinguo millimetrici?

«Se dicessi che sono uomo, sono padre, sono cristiano criticherebbero pure me. Siccome c’è la moltiplicazione dei generi, dobbiamo stare attenti a declinare la nostra identità. Ma mi sembra un problema falso e intellettualoide. Nessuno deve temere di dire chi è, purché rispetti l’identità altrui. Il politicamente corretto vorrebbe che il neutro si imponesse anche in questo. Io non voglio assistere all’affermarsi della tirannia del neutro».

Parlando di leaderizzazione e storytelling, due anni dopo Io sono Giorgia sta per pubblicare un nuovo libro: non sarà troppo?

«Ha capito che deve mantenere un contatto forte con i suoi lettori, follower e potenziali elettori. Se fossi in lei farei un libro l’anno».

Appartenevano a questa filosofia anche «Gli appunti di Giorgia»?.

«Quell’idea nacque in occasione della scelta dei ministri, quando Berlusconi le attribuì comportamenti scorretti. Allora lei s’inventò “Gli appunti di Giorgia”. Gli appunti si usano prima di metterli in bella forma per la divulgazione. In quel modo mandò un messaggio di trasparenza: non ho niente da nascondere, vi mostro la mia agenda, come sono realmente».

Com’è cambiata la sua comunicazione da presidente di Fdi a presidente del consiglio?

«Si è istituzionalizzata, a partire dagli abiti che sono, giustamente, meno scanzonati di un tempo. Costruisce i discorsi in modo più ecumenico, smussando i toni del primo decennio del Duemila che, secondo me, è stato il più efficace. Usa maggiormente termini angloamericani, in una proiezione più internazionale e di attenzione ai mercati».

Come giudica la modifica delle intestazioni dei ministeri, per esempio dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, dell’Istruzione e del merito…

«Mi sembrano modifiche di facciata. Ho trovato inutile la specificazione del merito per un Paese che fonda il suo futuro sull’istruzione. Sarebbe stato innovativo se, oltre al merito, avesse aggiunto l’inclusione, rubando il monopolio di questo tema alla sinistra».

Non sarebbe stato un cedimento al mainstream?

«Non credo. Da docente universitario dico che, forse a causa della pandemia, c’è un’esplosione della fragilità giovanile che non ho mai riscontrato in trent’anni d’insegnamento. Rischiamo di far crescere tanti soggetti anomali, instabili. Su questo non c’è né destra né sinistra. Perciò, mi batto per l’adozione dello psicologo in ogni plesso scolastico e università. Come già avviene nelle scuole del Nordeuropa e americane».

Perché si critica il ricorso a termini come nazione e patria?

«Altro falso problema. Nazione compare nella nostra Costituzione e anche patria è un termine di alveo risorgimentale. Chi insiste sugli echi fascisti di questi vocaboli non conosce la storia».

Intravede dei punti deboli nell’azione del premier? Quali consigli le darebbe nella comunicazione?

«L’unico punto debole di Giorgia Meloni è Giorgia Meloni. Se vuole durare deve basarsi davvero sul merito delle persone giuste».

Invece?

«Ci sono ministri, sottosegretari e parlamentari non all’altezza».

Qualcuno in particolare?

«Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. Un anno fa si è consumato il più scandaloso concorso scolastico ordinario della storia della Repubblica con decine e decine di quiz sbagliati o mal formulati come hanno documentato le perizie di docenti specializzati. L’ex ministro Patrizio Bianchi non ha fatto quasi nulla e Valditara nulla».

Tornando alla comunicazione, cos’ha pensato dello speech dopo l’incontro con il presidente tunisino Kaïs Saied senza giornalisti davanti?

«Che non è meloniano e non doveva essere così. Si è lasciata convincere da qualcuno».

Ha un rapporto ancora conflittuale con i media e preferisce la disintermediazione, rivolgersi alla gente senza la mediazioni dei giornalisti?

«Sì. Sa bene che i contenuti possono essere manipolati e ricuciti in modi non sempre consoni. Se potesse opterebbe per la disintermediazione totale».

Il confronto linguistico con Elly Schlein?

«Se devo prendere appunti di quello che dice Giorgia Meloni trascrivo poco perché capisco gli snodi del ragionamento. Se parla Elly Schlein sono costretto a trascrivere tutto e poi, alla fine, rileggendo, stento a fare la sintesi. Lo ha detto anche Concita De Gregorio: rileggi, ma il titolo non salta fuori. Ma purtroppo, questo non è solo un problema di vocabolario».

 

La Verità, 17 giugno 2023

Le parole d’ordine del bon ton sanitario di Rai 3

Il galateo sanitariamente corretto è la nuova variante, o sfumatura, mediatica che la pandemia ci sta lasciando in eredità. Gli esempi pullulano nei commenti delle testate benpensanti, nei talk show dell’ortodossia virologica. È iniziato il riflusso del Covid 19, le ondate si ritirano, ma sul bagnasciuga rimangono sempre le conchiglie del perbenismo in camice bianco. Nei salotti di tendenza c’è sempre lo scrittore radical chic che presenta il suo libro o quello più spiccatamente engagé (a volte entrambi), il comico che ricorda il tour teatrale e la virostar con il memento paternalistico a «non abbassare la guardia» e la nostalgia per la mascherina, «il nostro burqa laico», «la nostra copertina di Linus»…

Il bon ton sanitario ha accenti suadenti e vellutati, ma di fronte ai non allineati il buonismo dei migliori smarrisce il proverbiale aplomb. Qualche sera fa a Le parole di Massimo Gramellini (Rai 3, sabato, ore 20,20, 1,4 milioni di telespettatori, 6,3% di share), con ospiti Daria Bignardi e Maria Amelia Monti si chiacchierava di libri, scuola e teatro, quando a un certo punto è comparsa in collegamento l’immunologa Antonella Viola. Già la sera prima, ospite di Otto e mezzo su La7, la dottoressa aveva accusato Giorgia Meloni, rea di non voler vaccinare sua figlia, di diffondere notizie false sull’efficacia dell’iniezione per i bambini. Ora, al cospetto del pubblico del sabato sera di Rai 3, Viola poteva accomunare all’anatema sanitario Matteo Salvini, a sua volta protagonista della stessa scelta riguardo ai suoi figli. Per la solita compagnia di giro il salto da La7 a Rai 3 è particolarmente breve. La parola suggerita per l’occasione dal conduttore era «Genitori», cosicché, oltre che colorazione politica, la reprimenda assumeva anche carattere pedagogico perché Meloni e Salvini erano accostati a quei genitori di Modena privati della patria potestà dal giudice perché pretendevano sangue no vax per il trapianto cui deve sottoporsi il loro bambino. Insomma, genitori degeneri. Subito dopo arrivava Roberto Saviano per il promo del programma che seguiva in palinsesto: purtroppo la compagnia di giro e Le parole d’ordine sono spesso tristemente prevedibili. Sorprendente sarebbe se Gramellini invitasse uno come Massimo Arcangeli, il linguista promotore dell’appello contro lo schwa, per altro sottoscritto da intellettuali come Angelo D’Orsi, Paolo Flores d’Arcais, Ascanio Celestini, per citarne alcuni fra i tanti. Ma chissà, forse in quel contesto, quelle per la difesa della grammatica italiana, risulterebbero parole di disordine.

 

La Verità, 15 febbraio 2022

«Minacciato perché tento di difendere l’italiano»

Trasversali, trasversalissimi. Lui, Massimo Arcangeli, e l’appello di cui è promotore. Da raffinato linguista, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università di Cagliari, critico letterario, fondatore e direttore artistico del Festival della lingua italiana e autore del testo della petizione «Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra» (consultabile su Change.org e sottoscritto tra gli altri da Massimo Cacciari, Edith Bruck, Paolo Flores d’Arcais e Ascanio Celestini), Arcangeli attraversa la geografia politica e mediatica da sinistra a destra senza scomporsi. La voce di Wikipedia che lo riguarda però è un filo datata e tra le collaborazioni giornalistiche che gli attribuisce, oltre alla Stampa, L’Unione sarda e Repubblica, compaiono solo testate di sinistra, alcune defunte: Il Manifesto, L’Unità e Liberazione. «Andrebbe aggiornata perché sono anche blogger per Il Fatto quotidiano e Il Post e collaboro con Il Messaggero, Il Giornale e Libero».

A che punto è la vostra petizione contro l’adozione della o dello schwa nella lingua italiana… A proposito, che articolo va usato?

«Un paio d’ore fa eravamo a 18.500 firme, ma le adesioni continuano a crescere. Quanto all’articolo che dovrebbe accompagnare la schwa dovrebbe essere la elle con la e rovesciata: lə».

Un rebus trovarla sulla tastiera.

«In alcuni dispositivi di ultimissima generazione, pochi, si trova. Ma poi c’è il problema del plurale, i gli le, che si scrive l3».

Formalismo contro buon senso?

«E moltiplicazione dell’inutile. Perché bisogna distinguere anche la fonetica: questi segni o simboli dovrebbero essere pronunciabili e distinguibili. Lo schwa semplice per il singolare deve differire dallo schwa lungo per il plurale».

Roba da logopedisti.

«Circolano podcast che istruiscono sulla pronuncia».

Da cosa è nata l’idea, qualcosa di preciso vi ha fatto rompere gli indugi?

«Ci pensavo da quando, nel giugno scorso, ho letto sull’Espresso un articolo di Michela Murgia contro Giorgia Meloni scritto interamente con lo schwa. La desinenza neutra, finora rimasta nell’ambito dei social, approdava all’informazione tradizionale. Di recente ero tornato sull’argomento con un post su Facebook quando lo storico Angelo D’Orsi, mi ha proposto di lanciare una petizione».

Lo scopo è impedire l’adozione di formule linguistiche arbitrarie in documenti ufficiali?

«Bloccare la possibilità di una qualsiasi commissione pubblica di adottare questo tipo di segni grafici».

C’è un caso preciso che contestate?

«In sei verbali concorsuali per la funzione di professore universitario una commissione del Miur (ministero Istruzione università e ricerca ndr) è ricorsa all’uso di decine di schwa normale o lungo. È un pericolosissimo precedente che non si può lasciar passare sotto silenzio. La petizione obbligherà il ministero a risponderne».

Finora avete avuto qualche replica?

«Aspettiamo di raggiungere 20.000 firme prima di presentarla. Se sarà accolta quegli atti saranno dichiarati nulli. La legislazione in materia è molto complessa. Speriamo si arrivi a stabilire che non si può scrivere un verbale di un atto pubblico in questo modo».

Segnali dal ministero?

«Solo Maurizio Decastri, un componente della commissione ha scritto un articolo sul sito del Corriere attribuendosi goffamente la responsabilità dell’iniziativa. In realtà, non è il presidente della commissione, ma un semplice membro».

Perché è così importante il caso di questa commissione del Miur? In fondo è un fatto isolato…

«Il fatto grave è che s’intende adottare queste formule per evitare l’uso del maschile sovraesteso e sostituirlo con l’uso del femminile. Però, anziché scrivere i candidati e le candidate, oppure gli autori e le autrici, si ricorre allo schwa. Se passa questo precedente, chiunque può sentirsi autorizzato ad applicare queste formule anche a prescindere dall’esistenza di identità non binarie».

Qual è la sua conclusione?

«La commissione che, guidata dal presidente, ha optato collegialmente per l’adozione di queste espressioni lo ha fatto con un intento politico che nulla a che fare con la lingua, allo scopo di modificarla sostituendo l’esigenza di pochi alla necessità di molti di poter leggere un atto pubblico in italiano. Questo è bene ricordarlo: non si tratta di una circolare interna, ma di un atto pubblico».

Qual è la «pericolosa deriva» che citate nella petizione?

«Proprio il fatto che, in nome di una minoranza, al di là del merito e della necessità di difendere le identità di genere non binarie, si possa modificare una norma linguistica consolidata alterandone le espressioni. Non si tratta di mere correzioni lessicali, ma di formule che investono le strutture profonde dell’italiano. In una recente intervista al Corriere della Sera un filosofo americano notoriamente non binario pretese che l’intervistatrice rispettasse la sua identità definendolo filosof*. Ma in italiano articoli, verbi, pronomi, aggettivi si accordano con il sostantivo. La conseguenza è un delirio che mina l’intero sistema linguistico».

Come si regolano gli altri Paesi?

«In Francia il ministro dell’Istruzione Jean-Michel Blanquer ha inviato una circolare nella quale, pur incoraggiando l’uso del femminile per le professioni, tipo sindaca o ministra, ha chiesto di evitare il ricorso ad altre formule creative che potrebbero rendere più difficoltoso l’apprendimento della lingua per i dislessici».

Nei paesi anglosassoni?

«Negli Stati uniti e in Gran Bretagna c’è chi insiste per l’adozione del “loro” singolare. La popstar Demi Lovato pretende che le si dia del “loro”. Sul suo esempio, ho intercettato qualche richiesta analoga anche in Italia».

In tempi andati, in presenza di un rapporto di subalternità, si usava dare del voi.

«Anche Dante scriveva “Lo mio maestro”. Ma parliamo di un’altra lingua. Ora in Germania si prova a diffondere una nuova pronuncia. Qualcuno quando si rivolge al proprio collega o colleghi, kollegen o kolleginen, per specificare l’indeterminatezza di genere aggiunge un asterisco dopo la g, pronunciato con un colpo di glottide. Ma siamo alle acrobazie glottologiche».

Per proteggere i diritti della minoranza non binaria si trascurano quelli della minoranza dei dislessici?

«E di altre componenti neurotipiche, come i disgrafici. Più si aumentano i segni più si rende difficoltosa la lettura e la scrittura per queste categorie. In che proporzione ancora non si sa, in quanto mancano studi in materia».

Tra i sottoscrittori ci sono nomi sorprendenti…

«C’è stata un’adesione trasversale, anche di molte donne come Edith Bruck, Barbara De Rossi e Cristina Comencini».

Perché?

«Perché questi usi vanno anche contro le donne. Il neutro inclusivo voluto dagli schwaisti di vocaboli come direttore o pittore o lettore richiede la e capovolta al posto di direttrice, pittrice, lettrice, espressioni femminili che sono frutto di secoli di battaglie sociali e culturali».

L’adesione è trasversale anche a dispetto di chi ritiene che la difesa dell’italiano sia patrimonio di pericolosi reazionari?

«C’è una trasversalità anche politica. Angelo D’Orsi che ha sempre militato nella sinistra estrema, è stato l’ispiratore della petizione. Forse anche i vecchi comunisti sono diventati improvvisamente reazionari. A dispetto dei fautori dello schwa che vorrebbero politicizzare il dibattito, stiamo parlando di italiano e di norme linguistiche, non dell’adesione a una presunta ideologia».

Non a caso i più sensibili sono i linguisti.

«Hanno aderito i più insigni a livello nazionale come Francesco Sabatini, Luca Serianni, il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini».

Qual è stata la reazione dei media?

«In Italia, a parte Repubblica tutti i quotidiani se ne sono occupati. In Germania ne ha scritto Die Tagespost e in Gran Bretagna il Times e il Telegraph hanno rilevato che l’intellighenzia italiana si oppone allo schwa».

La reazione della minoranza in questione qual è stata?

«Abbiamo avuto critiche feroci. L’università si conferma un ambito corporativo e difende i suoi privilegi. I docenti dicono che siamo reazionari e che la lingua deve modernizzarsi. Ce lo aspettavamo. Abbiamo aperto il vaso di Pandora, finora nessuno aveva avuto il coraggio di esporsi in questo modo».

Michela Murgia?

«Ha riscritto la petizione in modo che apparisse stupida: “L’apericena? No, grazie”. Senza portare argomentazioni di contenuto, perciò non merita attenzione».

Ha ricevuto minacce?

«Mi è arrivato di tutto».

Anche espressioni aggressive?

«È un buon eufemismo. Ho esperienza di dibattiti culturali anche aspri e sapevo di espormi. Ma non immaginavo che si arrivasse al punto che ho constatato, e di cui sto discutendo con i miei avvocati».

Quella che voi chiamate deriva è iniziata con genitore 1 e genitore 2 nei documenti ufficiali?

«Il collegamento è la derivazione dagli eccessi del politicamente corretto. Ma l’impegno per lo schwa è precedente. In un articolo del 2015 Luca Boschetto, un informatico, cominciò a parlare di italiano inclusivo. Poi creò il sito apposito, mettendo in rete le sue proposte. Un altro salto si è verificato con l’articolo della Murgia per L’Espresso già citato».

Come giudica il fatto che al Festival di Sanremo la fluidità sia stata linguaggio dominante.

«Non mi ha sorpreso. Sanremo ha assemblato in modo furbesco tendenze già in atto, inclinando amore, sesso e look nell’accezione della fluidità».

Come giudica i testi delle canzoni?

«Mediamente banali, privi di ricerca espressiva. Me ne occupo da una decina d’anni e dell’ultima edizione salverei i brani di Giovanni Truppi, di Dargen D’Amico e di Fabrizio Moro».

L’anno scorso hanno vinto i Måneskin e ora Mahmood e Blanco: inevitabilmente la fluidità modificherà anche l’italiano?

«È quello che non deve avvenire. Un conto è accompagnare un processo culturale o sociale, un altro brandire la grammatica come un’arma. La lingua ha tempi diversi».

A proposito di tempi, il politicamente corretto, la cancel culture e il linguaggio woke sono il nostro futuro?

«Sono il nostro presente, purtroppo. La cancellazione ci sta privando di Dante, Ovidio, Shakespeare solo per citare i primi nomi che mi vengono. Il dogmatismo intollerante è una deriva molto pericolosa».

 

La Verità, 11 febbraio 2022

«Ora il pensiero unico vuole spianare la storia»

Il politicamente corretto ha ucciso il buonsenso. E adesso si prepara a spianare anche la storia e l’arte. È il succo dell’allarme contenuto in Una pernacchia vi seppellirà. Contro il politicamente corretto (Castelvecchi editore), un agile libriccino scritto da Massimo Arcangeli, linguista, collaboratore dell’Istituto della Enciclopedia italiana e della Società Dante Alighieri. Arcangeli è anche curatore di saggi sul linguaggio dei politici (Il Renziario e Il Salvinario, prossimamente Il Berlusconario) e ideatore e organizzatore del Festival della lingua italiana che si tiene a Siena. Nel prossimo, dall’1 al 5 aprile 2020, verrà premiato con lo Zucchino d’oro chi, nell’ultimo anno, si è «distinto nell’applicare, contro il più elementare buonsenso, le regole imposte da una correttezza politica cieca e retroattiva». Il nome del vincitore sarà annunciato dopodomani, 26 novembre.

Professore, può anticiparcelo?

«Purtroppo no perché i nostri cinque giurati stanno ancora valutando. Se vuole, le posso dire il mio candidato preferito».

Prego.

«È il regista Leo Muscato che, per dare un segnale contro i femminicidi, ha capovolto il finale della Carmen di Bizet. Nel libretto originale l’eroina muore pugnalata da Don José, nell’edizione di Muscato, andata in scena al Maggio musicale fiorentino, è lei che uccide lui. Solo che per due volte la pistola vendicatrice si è inceppata. E la vittima, trasformata in carnefice, non è riuscita a sparare, scatenando il riso del pubblico».

Per la beffa dell’intoppo, oltre che per il danno della licenza artistica?

«Esatto. Ma l’episodio è significativo oltre il suo lato comico».

Perché?

«Per la retroattività. La retroattività di queste censure introduce un salto qualitativo. Per proteggere una qualche minoranza, si annulla la distanza tra il presente e un’epoca passata. Si depurano opere di sette o otto secoli fa in base a standard attuali».

Altri esempi?

«C’è solo da scegliere. Ero a Bruxelles quando un’associazione culturale, consulente dell’Onu, propose di non leggere più nelle scuole il XXVIII canto della Divina commedia perché considerato anti islamico in quanto Maometto, divisore della cristianità, è rappresentato squartato in due per la pena del contrappasso, con le viscere penzolanti. In Francia, un organismo che si prefigge d’instaurare l’uguaglianza tra uomini e donne, ha proposto di sostituire l’ultima parola del motto francese fraternité con solidarité o adelphité. Poi c’è il mondo della pubblicità: sulla scia di un autore ha riscritto in chiave parodica le fiabe classiche, sull’altare del buonismo lo spot della Brondi ha fatto andare d’amore e d’accordo Cappuccetto rosso e il lupo. Ad Ascoli Piceno alcune scuole medie hanno declinato l’invito per l’anteprima di Così fan tutte di Mozart perché considerato inadatto a un pubblico di adolescenti. In materia di sesso, la lista è ricca di casi comici».

Tipo?

«La censura operata da Facebook della Sirenetta di Copenaghen per i suoi seni troppo sexy. O, per lo stesso motivo, la celebre Fontana delle tette di Treviso».

La città di Treviso è piuttosto bersagliata da Facebook.

«Nel 2018 il social ha rifiutato le inserzioni della storica concessionaria d’auto Negro, intimandole di rimuovere l’offesa. Ma era il nome di famiglia».

Colpa dell’algoritmo?

«Gli ingegneri di Facebook avevano promesso che avrebbero trovato una soluzione, ma siamo ancora in attesa. Con la tecnica si possono fare miracoli. Almeno creare un algoritmo in grado di distinguere tra un’offesa e un marchio commerciale».

I codici di certi sacerdoti del perbenismo sono più gravi della rigidità di un algoritmo?

«Li metto sullo stesso piano. Non possiamo attribuire a un algoritmo la responsabilità di una regia che non ha previsto la differenza tra il David di Michelangelo e qualcuno che fa dell’esibizionismo. Distinguere è faticoso, l’omologazione di massa preferisce uniformare».

Il conformismo non ha un’origine culturale?

«Certo. Se a un certo punto si decide che padre e madre non vanno più bene e si decide di usare genitore 1 e genitore 2, oppure matria al posto di patria, sono scelte che personalmente non condivido. A quel punto, però, scatta il confronto, si dissente e si controbatte. Ma se si applica il politicamente corretto al Mercante di Venezia di William Shakespeare perché contiene espressioni anti ebraiche e si decide di non rappresentarlo a teatro o non studiarlo nelle università, qui siamo nel campo della pura imbecillità».

La quale è a sua volta la propaggine estrema della dittatura del politicamente corretto?

«O del pensiero unico. Si sa che qualcuno vuole imporlo, ma ciò che più mi preoccupa è l’omologazione generalizzata, l’assenza di resistenza al conformismo. Ancor più quando è retroattivo. Nelle scuole vedo molti insegnanti disarmati di fronte a questa deriva. La accettano supinamente. Invece, è proprio nell’istruzione che deve iniziare un’educazione critica, partendo dal linguaggio. Pensiamo ai dizionari: poniamo di accettare di espungere la parola negro perché ritenuta offensiva. Ma se la togliamo anche dai testi del Settecento o dell’Ottocento operiamo una mistificazione, falsifichiamo la nostra cultura, nascondiamo la verità a chi verrà dopo di noi».

C’è una corrente di pensiero che identifica il politicamente corretto con il bon ton e un maggior uso di mondo.

«Siamo ben oltre, l’espressione giusta è massificazione culturale. Se leggere a scuola il canto di Maometto di Dante o brani del Mercante di Venezia o postare sui social il quadro di Paolo e Francesca nudi di Ary Scheffer crea problemi si finisce per rinunciare. Ma così si perde, accettando una grande privazione perché, poco alla volta, quei canti e quelle immagini smetteranno di circolare. Lascio a lei valutare la gravità di questo impoverimento».

La portavoce delle levatrici inglesi ha dovuto dimettersi per aver detto che i figli li partoriscono le donne. La sua associazione l’ha sconfessata perché con quell’affermazione ha discriminato la comunità Lgbt e perché in Gran Bretagna, in questi casi, al posto di lady si usa il termine menstruator. Siamo alla creazione della seconda lingua di orwelliana memoria?

«È così. La lingua diventa uniforme perché trasmette il pensiero unico. Pensiamo di difendere le minoranze, in realtà le omologhiamo con un linguaggio neutro, asettico. Qualcuno, per fortuna, comincia a reagire».

Chi?

«In America da qualche anno molti gay hanno preso a definirsi orgogliosamente froci. Rifiutano l’edulcorazione del termine gay e rivendicano la loro identità trasformando l’offesa nell’orgoglio della differenza».

La seconda lingua preconizzata da Orwell finge di proteggere le differenze mentre le conforma?

«Uno degli esempi più lampanti è l’handicap. Chi ha vissuto con un disabile sa che vuole essere chiamato sordo o cieco. Dagli anni Settanta in poi, di eufemismo in eufemismo e staccandosi progressivamente dal reale, si è passati da portatori di handicap a diversamente abili, a differentemente abili, a ipovedenti, ipoudenti… Oggi una guida all’inclusione scolastica s’intitola La speciale normalità».

Per non dire anziani si dice diversamente giovani: siamo tutti diversamente qualcosa?

«Diversamente alto, diversamente magro… Nano è spregiativo, grasso anche, così ci sono le modelle curvy, ingentilito dall’inglese. Dobbiamo essere tutti belli, giovani e prestanti. Eliminando la parola che contraddice lo stato di grazia, ci illudiamo di viverlo».

Di che cosa è figlio il «cieco moralismo mortale» che tratteggia nel suo pamphlet?

«Della cultura di sinistra. Da quando alla fine degli anni Ottanta nelle università americane sono stati inventati gli speech codes, i regolamenti che disciplinavano i comportamenti verbali nei campus, la sinistra puritana e bigotta ha esteso questi codici al linguaggio universale. Facendoli diventare un nuovo catechismo acritico e intransigente. Siamo arrivati all’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo… In Europa abbiamo ereditato in modo aproblematico gli aspetti peggiori di questa ideologia».

Che cosa pensa dell’ultima lezione di superiorità di Corrado Augias?

«Mi spiace che si sia espresso in quel modo perché è un amico. Ma non posso condividere quel linguaggio in perfetto sinistrese che esprime un manicheismo nel quale destra è sinonimo di istintualità e volgarità culturale e sinistra di intelligenza, profondità e impegno. Proprio in un momento in cui queste categorie stanno cadendo».

Lei ha scritto Il Renziario: qual è la principale innovazione nel linguaggio di Matteo Renzi?

«Renzi è il più obamiano dei nostri politici. Barack Obama ha portato i social network nella vita politica, Renzi li ha resi una finestra sul quotidiano».

E, parlando del Salvinario, qual è la novità della comunicazione di Matteo Salvini?

«Se nella Seconda repubblica i cittadini hanno cominciato a immedesimarsi nei politici, ora sono i politici che giocano a fare i cittadini comuni. Quando Salvini si mostra in boxer in spiaggia o si fa ritrarre sulla copertina di un settimanale a torso nudo con la cravatta dice agli italiani “sono uno di voi”. Se paragoniamo questi messaggi a ciò che fanno i leader della sinistra vediamo la differenza abissale».

Qual è l’argine critico alla melassa del pensiero unico?

«È la ricerca delle sfumature tra parole, concetti, pensieri diversi. Il linguaggio del politicamente corretto e del pensiero unico è uniformante. Al contrario, il pensiero critico favorisce le differenze e le specificazioni».

Come bisognerebbe fare nel caso della commissione Segre?

«Se servisse a circoscrivere l’antisemitismo nuovamente montante, soprattutto nel Nordeuropa, la commissione sarebbe utile. E può esserlo anche come sensibilizzazione contro l’intolleranza. Ma se si trasforma in un contenitore che fa di tutta l’erba un fascio per mettere la museruola al dissenso, allora non mi trova concorde. Tanto più considerando che, in materia di antisemitismo e razzismo, esiste già un ricco corredo legislativo al quale ricorrere».

 

La Verità, 24 novembre 2019