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Cruyff, l’estetica visionaria divenne calcio totale

È dura non farsi prendere dalla nostalgia, meglio dichiararlo subito. È difficile non cedere al rimpianto del tempo andato ora che ad andarsene è Johan Cruyff, 68 anni, tumore ai polmoni. Qualche mese fa, aveva detto con la sfrontatezza che gli conoscevamo: “Sto battendo il cancro 2-0”. Ha perso la partita, restando in piedi. Se devo scegliere il più grande di sempre, scelgo lui. Non pretendo di convincere nessuno. Ognuno ha la propria personale classifica, Pelè, Maradona, Messi: perfetto. Difficilmente ci sarà un altro come Cruyff, tre Palloni d’oro.

La scelta del più grande identifica una stagione, un momento esistenziale, un concentrato di istanze e aspettative. Albeggiavano i Settanta, tra adolescenza e giovinezza si cominciava a intuire che roba poteva essere l’amore, e la voglia di cambiare il mondo aveva trovato una prima applicazione in quel meraviglioso pezzetto di realtà, sogni e gioco che si chiama calcio. Nelle strade e nelle università europee l’ideologia aveva preso i colori della violenza e del piombo. Ma sui prati di calcio s’affacciava una squadra di marziani di nome Aiax che praticava un gioco mai visto prima, presto ribattezzato calcio totale. Il leader era il numero 14, un ragazzo dotato di grande tecnica e velocità, due cose fino allora alternative. Corsa a testa alta, imprevedibile, palla incollata ai piedi, difensori saltati come lampioni, soprattutto capacità di anticipare, di vedere prima. Gol in acrobazia, d’esterno, allungato in orizzontale, quasi spalle alla porta. Gol con delizioso pallonetto. Dopo aver saltato mezza squadra da centrocampo fin dentro l’area. Di testa, in slalom. Dopo una veronica che manda a sedere il marcatore. E poi il passaggio filtrante, il pallone scodellato sul piede del compagno che deve solo spingerlo in rete, il rigore a due che ha ispirato anche Messi.

Sandro Ciotti lo chiamava il Profeta del gol. Un campionario di tecnica straordinaria, ma anche un leader al servizio della squadra, l’Aiax o l’Olanda allenate da Rinus Michels, composte di altri grandi giocatori. Cruyff è stato il primato dell’estetica senza dimenticare l’applicazione, l’affermazione della fantasia senza dimenticare la necessità del sacrificio. Una sintesi di spavalderia e consapevolezza, di schiettezza senza speculazioni. Giochiamo da protagonisti, mettiamo sul campo tutto quello che siamo. Calcio spensierato, atletico e ribelle perché rovesciava la filosofia fino allora vincente del catenaccio, difesa e contropiede, “primo, non prenderle”. Non a caso ha, a lungo, criticato il calcio all’italiana.

Nel 1969 il Milan di Rocco, Rivera e Prati, aveva riaffermato il suo primato: 4-1 all’Aiax nella finale di Coppa dei Campioni, come si chiamava allora. Ma nel ’74, cresciuti gli interpreti e perfezionato il sistema, nella prima Supercoppa europea (Cruyff era già al Barcellona, c’era ancora Rivera ma non più Prati) il Milan ne beccò sei. Calcio totale, calcio democratico, ruoli sfumati e eclettismo di tutti i protagonisti, difensori (Krol e Surbieer) che erano ali aggiunte, centrocampisti (Neeskens e Van Hanegem) in grado di far gol, difendere e impostare il gioco. Pressing, difesa alta, tecnica del fuorigioco, aggressione multipla e contemporanea sul portatore di palla, reparti stretti, sovrapposizioni, gioco di prima: tutto nato allora. E rivisto quindici anni più tardi nel Milan di Sacchi, non a caso incardinato su tre olandesi, tra i quali Van Basten, il giocatore che più gli si è avvicinato. E poi nel suo Barcellona e in quello dei suoi successori, Guardiola in testa.

Pochi mesi dopo quel 6-0 al Milan dell’Aiax, l’Olanda di Michels ribattezzata Arancia meccanica, approdò alla finale mondiale con la Germania di Müller e Beckenbauer a Monaco di Baviera. Ovviamente, tifavo Olanda, mentre i realisti prevedevano la vittoria dei tedeschi. Subito dopo il calcio d’inizio gli olandesi  avviarono una serie di 17 passaggi consecutivi che si conclusero con l’incursione di Cruyff, atterrato in area. Calcio di rigore trasformato da Neeskens. Poco alla volta, però, la Germania si riorganizzò, ribaltò il risultato e conquistò l’allora Coppa Rimet. In fondo, le grandi utopie hanno sempre qualcosa d’incompiuto.

Ho postato oggi su Twitter che avrei voluto trascorrere il pomeriggio a guardare partite di Johan Cruyff. Così, in parte, ho fatto. Adesso, anche se c’è l’amichevole tra Italia e Spagna, vorrei trascorrere la sera vedendo un ritratto approfondito di Cruyff e dei suoi anni.

Alla Champions di Premium manca il tono dell’evento

Con l’eliminazione della Juventus ad opera del Bayern Monaco l’avventura italiana nella Champions League è giunta al capolinea (a completamento del triste epilogo anche l’eliminazione della Lazio in Europa League). Anche se rimangono da giocare le fasi finali, agonisticamente assai interessanti, l’esclusione delle nostre squadre è propizia per fare il punto sul primo anno di esclusiva Premium. Per la pay tv di Mediaset, questa stagione è, in realtà, da considerarsi come una sorta di anno zero durante il quale si dovevano testare la macchina, i conduttori, le sinergie tra redazione e telecronisti, i commentatori e gli opinionisti e, nel complesso, l’offerta dell’intero pacchetto. Il martellante battage della primavera-estate aveva creato molte aspettative a riguardo della confezione dell’evento. Ma, a ben guardare, è stata forse proprio la dimensione dell’evento a latitare, in particolare nello studio di Premium Champions-League. C’è qualcosa di routinario, una patina dimessa nella gestione degli appuntamenti. Entrando nel dettaglio, nella squadra delle voci non si sono registrate novità di rilievo. I telecronisti sono sempre Sandro Piccinini, che sembra aver rinfoderato le sciabolate, e Pierluigi Pardo, tendente a elevare i decibel per rendere l’enfasi dei momenti topici. Più sporadica la voce di Roberto Ciarapica. I commenti tecnici sono affidati prevalentemente ad Aldo Serena e Antonio Di Gennaro, con rare presenze del pur apprezzato Roberto Cravero.

Il punto più debole del pacchetto è però lo studio post-partita. Non tanto nella conduzione di Sandro Sabatini (ex Sky) che ha voluto farsi affiancare da Giorgia Rossi, tutto sommato un buon mix di competenza ed effervescenza, quanto nella resa degli opinionisti fissi. È anche la logistica a non aiutare: Alessio Tacchinardi con la Juve o Federico Balzaretti con la Roma, Arrigo Sacchi o Paolo Rossi e Graziano Cesari sono affiancati su tre seggiole, sperduti e inevitabilmente dimessi in uno studio senza pubblico, che sembra una piazza vuota. Tolto Sacchi, che col suo passato di guru e la sua ossessione calcistica manifesta ancora autorevolezza da studioso, agli altri commentatori sembrano difettare approfondimento e aggiornamento. Non manca la lettura tecnico-tattica del match, quanto la conoscenza ampia del movimento calcistico, i link internazionali, l’evoluzione in chiave moderna e, di conseguenza, la capacità di collocare il singolo match e il nostro calcio in un contesto più ampio. In questo modo si rischia di rimanere dentro una prospettiva provinciale come dimostrano le polemiche tra Sacchi e Allegri. O l’eccessivo spazio dato a piccole beghe nostrane (la Juve si è offesa per un tweet di Reina inneggiante al gol di Thiago Alcantara… Càspita!). Non che un tavolo o una scrivania, magari l’uso di un monitor o di un tablet risolvano tutti i problemi e trasformino d’improvviso Balzaretti e Tacchinardi in scienziati di questa disciplina opinabilissima che si chiama calcio. Però aiuterebbero. Di più ancora, aiuterebbe un po’ di studio.

Il bello verrà adesso che non ci sono più italiane. Visto il panel delle qualificate, la Champions mantiene una buona dose di fascino che, se non porterà nuovi abbonati a Premium, potrebbe essere il banco di prova per sperimentare nuove soluzioni e nuovi volti in vista della prossima stagione. Quando, in lizza potrebbero esserci ancora Juventus, Napoli e Roma, tifoserie ben distribuite lungo tutto lo Stivale (solo con la qualificazione di una milanese, le cose andrebbero numericamente meglio). Il tetto di 2 milioni superato già a dicembre e  gli ascolti dei match clou (1,5 milioni abbondanti e il 5,72% di share per Bayern-Juventus) incoraggiano a investire nuove risorse nell’esclusiva della competizione che sta trainando la crescita della pay di Mediaset. Ma bisogna cambiare passo.