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Cara Biennale, senza padri gli stranieri sono ovunque

Terzomondismo e terzosessismo. In fondo, con un titolo così, era prevedibile. Stranieri ovunque – Foreigners everywhere è un gigantesco link alle minoranze. Un magnete di vittimismi. La 60ª Biennale d’Arte di Venezia è una chiamata a raccolta delle comunità outsider, laterali, emarginate, violentate dal potere, dagli Stati, dal pensiero unico, dalla globalizzazione. Ecco allora il terzomondismo e l’ideologia queer alzare il proprio pianto, lamentarsi, recriminare. Un coro a più voci, nelle varie tonalità che compongono la polifonia finale. Quella dell’esclusione patita. Della vessazione. Del sopruso. Dell’oppressione. Migranti, nomadi, apolidi, indigeni, aborigeni, sradicati, rifugiati ed espatriati si accostano a omosessuali, queer, fluidi, disforici, non binari in una comune condanna dell’Occidente colonialista, selettivo, discriminatorio, razzista. Il quale, per sgravarsi dal pesante complesso di colpa, li accoglie, li sdogana, li legittima e li esalta secondo i dogmi dell’inclusione e dell’accoglienza. Parole care anche a papa Francesco che, prima volta di un Pontefice, visiterà la Biennale, in particolare il Padiglione Vaticano (alla quarta partecipazione) allestito nel penitenziario femminile all’isola della Giudecca per l’esposizione intitolata Con i miei occhi e realizzata con la supervisione del cardinal José Tolentino de Mendoça (prefetto del dicastero per la cultura e l’educazione). Ad aspettarlo, domenica mattina Francesco troverà l’opera di Maurizio Cattelan: due piante di piedi, come quelli che ogni giovedì santo Bergoglio va a lavare nel carcere femminile di Rebibbia.

Su questa edizione ha già scritto magistralmente Marcello Veneziani, basandosi sul titolo voluto dal precedente presidente Roberto Cicutto, con sagacia ereditato da Pietrangelo Buttafuoco, e segnalando le parole del curatore che tiene a proclamarsi queer Adriano Pedrosa: «In profondità, siamo tutti stranieri». Niente di nuovo sul fronte artistico. Non serviva vedere i padiglioni e le installazioni se non per trovare conferme e aggiungere dettagli, rilievi formali, classificazioni di schieramenti.

Per esempio, il fatto che, rispetto a quello di origine geografica, il sentimento di estraneità a causa dell’orientamento sessuale è quantitativamente maggioritario forse perché più di moda tra le élite intellettuali. All’ingresso dell’Arsenale ci accoglie Refugee Astronaut II, creazione dell’artista britannico-nigeriano Yinka Shonibare, quasi una summa delle precarietà e dei disconoscimenti odierni. È un astronauta a grandezza naturale, che indossa una tuta di stoffa con motivi nigeriani e porta in un sacco di rete attrezzi e strumenti per superare sfide ecologiche e umanitarie. Senza, però, riuscire ad ambientarsi, tanto da rivolgersi allo spazio. Inoltrandosi nei saloni ai Giardini, invece, si trovano denunce più circostanziate. Nei dipinti elementari di Marlene Gilson che affiancano soldati e indigeni c’è l’oppressione subita dagli aborigeni dell’Australia, mentre nelle fotografie e negli arredi di Pablo Delano si ripercorre la storia di Porto Rico dalla dominazione spagnola alla subalternità agli Stati Uniti. La critica al colonialismo tocca anche l’Italia nell’opera Gheddafi in Rome: anatomy of a friendship di Alessandra Ferrini, artista fiorentina che ripropone l’incontro del leader libico con Silvio Berlusconi del 2009, analizzando il rapporto tra i due Stati fin dall’occupazione italiana del secolo scorso. Nell’enorme arazzo di Pacita Abad (Singapore), si fotografa invece la stratificazione sociale della globalizzazione: nella fascia alta dei grattacieli compaiono le sigle della finanza, nella seconda i marchi della moda, nella terza le famiglie dei ceti medi e nell’ultima, a terra, i più poveri. Il racconto della resistenza al regime di Pinochet realizzato su grandi tele da Arpilleristas, artiste cilene ignote, è ingenuo e colorato dal sole, segno di una speranza che non demorde. Restando in Sudamerica, l’argentina Mariana Telleria dichiara che Dios es inmigrante nell’installazione con alberi di barche a vela che compongono una grande croce, collocata nel giardino di un ostello vicino al porto di Buenos Aires. Più militante e antipotere il lavoro di Disobedience archive, raccolta di «tattiche di resistenza contemporanea» realizzata dal Marco Scotini, composta da una collezione di video sulle forme di protesta nel mondo. È una delle poche opere audiovisive del capitolo sullo sradicamento geografico che riempie anche i padiglioni dei Giardini, dove il frontespizio è affrescato dal collettivo brasiliano Mahku. Per il resto, dominano pittura, scultura e la stoffa degli arazzi, familiari nelle comunità terzomondiste degli anni Settanta.

Più variegata nei linguaggi, sebbene sia assente quello digitale, la denuncia delle comunità omosessuali, queer e non binarie. Si va dalla performance video di danza su lenzuola appese al soffitto di Isaac Chong Wai (Hong Kong) alle raffigurazioni di gaiezza quotidiana dell’americano Louis Fratino. Il sudafricano Sabelo Mlageni sceglie invece dei murales in spazi rurali per raccontare la sua non binarietà, mentre Puppies Puppies intitola Woman la scultura di un maschio normodotato. Ahmed Umar, queer sudanese e musulmano riparato in Norvegia, assomma entrambe le forme di estraneità, ritraendosi in abiti, gioielli e trucco femminili nell’opera intitolata Talitin, ovvero «terzo», tipico insulto arabo. Più inquietante è l’evoluzione di Void, il video di Joshua Serafin (Filippine), in cui un corpo evolve in uno spazio fangoso dalla condizione strisciante a essere eretto, fino a proporsi come divinità fluida. La rappresentazione più estrema è, però, quella di Xiyadie, «padre, contadino, omosessuale, lavoratore, migrante e artista» che illustra su enormi tele il disagio dell’identità queer in Cina, raffigurando fellatio e scene di autolesionismo genitale. Infine, in Cyber-Teratology Operation di Agnes Questionmark (Italia), un corpo in sala operatoria, gravido e con arti pinnati – quindi trans-specie, transgender e transumano – è una sorta di summa dello sterminato capitolo dedicato ai percorsi trans.

In conclusione, la tonalità ultima della polifonia è quella del pianto, lamento non sempre fuso nella protesta. In cui più che la qualità e l’innovazione artistica, conta il messaggio originato dall’appartenenza a una delle minoranze rappresentate. Tuttavia, lo stupore è in modica quantità. In un’epoca che con il Sessantotto ha ucciso i padri e abolito il principio di autorità e con l’avvento della globalizzazione ha cancellato le patrie, gli stranieri sono ovunque. E, grazie alla Biennale d’Arte di Venezia, ai media mainstream e all’industria dell’audiovisivo hanno molte possibilità di diventare maggioranza.

 

Ma il Padiglione Italia e il Padiglione Venezia hanno una visione altra

Un piccolo grande elemento di discontinuità rispetto allo spartito immaginato dalla coppia Roberto Cicutto Adriano Pedrosa, rispettivamente ex presidente e attuale direttore della sezione arte della Biennale viene dal Padiglione Italia e dal Padiglione Venezia, curati da Luca Cerizza e Giovanna Zabotti. Sono avulsi dalla narrazione della gran parte degli altri spazi perché parlano una lingua diversa, costruttiva verrebbe da dire se non fosse una parola tabù nel nichilismo imperante. Al Giardino delle Tese dell’Arsenale, ecco Two here (due qui) che, giocando sull’assonanza con To hear (ascoltare), suggerisce una sorta di sospensione per fare spazio all’altro. In un labirinto di tubi innocenti echeggia un suono costante e rigonfio che forse vorrebbe richiamare il perenne saliscendi dell’acqua e fango che riempiono un grande catino. All’inaugurazione il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro vi ha immerso le mani, schizzando come in uno scherzo impertinente che ha suscitato la riprovazione dell’autore, Massimo Bartolini («Lei sta dando pessimo esempio…»). Ma trovando l’immediata difesa del presidente Pietrangelo Buttafuoco: «Il nostro sindaco è come quel bambino che fa i baffi alla Gioconda». In conclusione, appare curioso che il padiglione italiano vanti un titolo inglese, ma tant’è.

Più coerenti e, in un certo senso, orientate in direzione contraria, risultano le proposte dello spazio Venezia, in fondo ai Giardini. Il titolo è Sestante domestico e dice della ricerca di una bussola per il presente, sulla scorta di una poesia di Franco Arminio: «Abbiamo bisogno/ di un luogo: ci vuole/ una mano/ una casa, un sorriso/ qualcosa che ci faccia/ da perimetro». E gli artisti si sono espressi al meglio. Vittorio Marella ha dipinto una parete di sabbia nella quale due ragazzi si abbracciano («Mi è stato chiesto di rappresentare la mia idea di casa, proprio mentre stavo cercando casa… Invece, ho trovato una persona. Nel nostro volerci bene, nel nostro abbraccio, c’è la mia casa»). L’ottantenne Safet Zec, pittore e grafico della Bosnia-Erzegovina, già esule per la guerra e da un ventennio cittadino veneziano, espone povere figure in preghiera e padri che corrono per portare in salvo figli sofferenti. Opere intrise di tenerezza che si intitolano «Vie della bellezza».

 

La Verità, 24 aprile 2024

 

 

«Saranno pure pop, ma le mie mostre piacciono»

L’arte pop. L’arte emotiva. L’arte della fruizione diffusa. Marco Goldin è il signore che ha dato la sua impronta personale al consumo d’arte nel nostro Paese. Il segreto? Rivolgersi a tutti scremando la patina intellettuale e trasformando le mostre in eventi popolari. «Accorciare la distanza», sintetizza lui in tre parole. L’ultimo esempio viene dal Capodanno alla Gran Guardia di Verona, dove la visita a Il tempo di Giacometti. Da Chagall a Kandiski è stato un modo per festeggiare l’arrivo del 2020: alla mezzanotte le guide hanno interrotto l’illustrazione delle opere per lo scambio degli auguri tra i presenti.

Trevigiano, fondatore e direttore di Linea d’ombra, la società che realizza esposizioni dalla a alla zeta, Goldin è noto per aver portato in Italia gli impressionisti, Vincent Van Gogh e La ragazza con l’orecchino di perla di Paul Vermeer. Nei 400 eventi da lui curati dal 1984 a oggi 11 milioni di visitatori hanno potuto vedere 10.000 opere provenienti da 1.200 fra musei, fondazioni e collezioni private di tutti i continenti. Per nove anni una delle sue mostre è stata la più visitata d’Italia e per quattro volte tra le dieci più viste al mondo.

Come le è venuto in mente di far trascorrere San Silvestro davanti alle sculture di Alberto Giacometti?

«Non è la prima volta che teniamo aperta una mostra la notte di Capodanno. La prima fu nel 2011 a Genova, su sollecitazione del Comune: Van Gogh e il viaggio di Gauguin fu un successo clamoroso. Quella volta abbinammo anche il cenone, affittando alcune sale vicine a Palazzo Ducale dopo avere esaurito quelle nel palazzo stesso. Risultato finale, 1700 persone a cena e oltre 3000 in mostra».

E da allora…

«Replicammo la formula. A Vicenza, per il Capodanno del 2012 attorno alla Basilica Palladiana, dov’era allestita Raffaello verso Picasso, parteciparono 5.000 persone: i visitatori si mescolavano con i partecipanti alla festa della città. Abbiamo riproposto poi l’idea a Verona, a Treviso e quest’anno nuovamente a Verona».

Con quale risposta di pubblico?

«Hanno partecipato circa un migliaio di persone. Un numero veramente notevole considerato che le sculture, e così severe come sono quelle di Giacometti, non sono propriamente intonate al clima dell’ultimo dell’anno. La mostra a San Silvestro è un’idea che piace, e molto, a chi è stanco dei cenoni con obbligo di divertimento e preferisce l’alternativa dell’arte».

Qual è l’idea di fondo?

«Che esistono diversi modi per vivere lo stesso evento. Una collezione di capolavori si può presentare in modo asettico oppure in un modo adatto anche al grande pubblico. Personalmente mi avvicino alle opere attraverso lo studio, perché solo la conoscenza mette nella condizione di rivolgersi poi a un pubblico più largo. Uno scultore come Giacometti non è semplicissimo da comunicare. Ma attraverso lezioni, conferenze e testi si possono costruire delle storie e raccontare ciò che l’artista ha rappresentato per il suo tempo e la comunità nella quale viveva».

La famosa narrazione?

«Che dev’essere sostenuta dalla qualità dei contenuti. Non si creano eventi senza un forte nucleo artistico criticamente strutturato».

Ci vogliono i capolavori.

«Se ci sono le grandi opere si possono organizzare altri eventi, dallo spettacolo teatrale alla lezione universitaria, per diverse tipologie di pubblico».

Perché i puristi storcono il naso?

«Dicono che faccia mostre troppo popolari».

E per loro è un difetto.

«Sono sicuro che si possa proporre una materia sofisticata in un modo destinato anche al pubblico più largo. Ci sono gli specialisti del Rinascimento o del Cinquecento veneziano ai quali nessuno obietta alcunché. I miei secoli di studio sono l’Ottocento e il Novecento, ho allestito mostre sull’arte americana e la pittura scandinava, ma taluni fingono che mi limiti agli impressionisti e a Van Gogh. Certo, fanno più rumore perché richiamano un pubblico più numeroso, ma rappresentano non più del 10% della mia attività».

Perché gli impressionisti e Van Gogh hanno così tanto successo? In che cosa si riconosce il pubblico?

«Bisogna distinguere. Gli impressionisti ci raccontano un mondo del quale abbiamo nostalgia. La bellezza del paesaggio, dei cieli, delle nuvole e del vento ci racconta un mondo che non c’è più ma che continua ad ammaliarci, perché è ancora dentro di noi. Invece, il fascino di Van Gogh deriva da un’esistenza complicata: noi ci ritroviamo nella profondità di un’anima attraversata dalla sofferenza, ciò che percorre le sue opere».

Che cosa può dare questo modo di fruire l’arte a un Paese ricco di patrimonio, ma pigro nel frequentarlo?

«Da una ventina d’anni si registra un crescente risveglio di sensibilità e passione per l’arte e la bellezza. Lo percepiamo tutti, lo vediamo per esempio dai riscontri dei visitatori nel nostro database, al call center e sui social che registrano centinaia di commenti quotidiani. Un tempo andare a una mostra o visitare un museo era molto più complicato che andare a un concerto o leggere un libro. Oggi l’arte ha smesso di essere qualcosa di polveroso, relegato nella torre d’avorio».

Su questo si prende qualche merito?

«Fin dalle prime mostre che ho curato, ancor prima che ci fosse Linea d’ombra, ho sempre cercato di accorciare la distanza fra arte e pubblico. Quando ci si riesce, nasce qualcosa di buono, perché si crea un senso di comunità che apre prospettive inedite».

Come si diventa un manager d’arte di rilevanza internazionale?

«Non ne ho la più pallida idea. Ho iniziato dalle piccole cose, ma senza l’idea di diventare qualcuno. Certo, l’ambizione ce l’avevo, ma nel 1984, a 23 anni, la figura del critico come la conosciamo oggi non esisteva».

Quindi da che cosa è partito?

«Da piccole mostre sui pittori italiani del Novecento, soprattutto della sua seconda metà. La mia passione. A Palazzo Sarcinelli, a Conegliano. Ne facevo anche una al mese. Poco alla volta i grandi critici, come Giovanni Testori del Corriere della Sera e Giorgio Soavi del Giornale, mi si fecero vicini perché se si voleva vedere un certo tipo di pittura bisognava venire a Conegliano. Nel 1997 ho avuto i primi prestiti internazionali, due Ninfee di Monet. Dal 1998 ho iniziato a organizzare la stagione di mostre rimasta celebre nella Casa dei Carraresi di Treviso. Mi muovevo senza complessi, come fossi a Milano o a Roma. Così, lavorando e lavorando, si è imposto “il caso Treviso” nel mondo».

Lavorando e lavorando…

«Fino al 1996 non ho mai avuto collaboratori. Ero il segretario di me stesso, mi occupavo delle assicurazioni, trattavo con le ditte di trasporti, organizzavo la pubblicità e la comunicazione… Il marketing dell’arte non esisteva e le mostre venivano annunciate nelle riviste specializzate o con qualche affissione».

Qual è la mostra che le ha dato più soddisfazione come manager?

«Manager è una figura nella quale non so se mi riconosco. La mia fortuna è stata riuscire a trasformare la mia passione in lavoro. Seguo i progetti dall’inizio alla fine, con attenzione maniacale. Non basta essere esperti se non si sa trasformare in qualcosa d’altro le proprie competenze. Quasi sempre ci si affida a società terze. Linea d’ombra ha una visione completa dell’evento, accompagnato dal principio alla fine».

Tornando alle mostre che le hanno dato soddisfazione?

«Potrei citare America! Storie di pittura dal Nuovo Mondo, al museo Santa Giulia di Brescia nel 2007, che fu l’esito di un lavoro durato tre anni con venti viaggi negli Stati Uniti. Due anni prima, sempre a Brescia, avevo fatto Gauguin/ Van Gogh. L’avventura del colore nuovo. Poi La ragazza con l’orecchino di perla a Bologna. La voleva tutta Europa, ma erano state previste solo tre sedi in Giappone e tre negli Stati Uniti. Quando si aprì uno spiraglio, divennero decisivi i miei rapporti con il direttore del museo Mauritshuis dell’Aia. Un’altra esposizione che ho amato tanto è quella del 2010 sulla pittura scandinava, a Villa Manin di Passariano, per la quale ho avuto prestiti dai maggiori musei del nord Europa».

Le sue lezioni e i suoi spettacoli che seguito hanno?

«Notevole. Qualche anno fa tenevo delle lezioni per promuovere le mostre. Poco alla volta si sono trasformate in veri spettacoli teatrali, anche con la partecipazione di grandi artisti come nel caso di Antonella Ruggiero, in occasione delle mostre bresciane del 2006. O di Franco Battiato, Alice e Francesca Michielin per La ragazza con l’orecchino di perla. Ultimamente, La grande storia dell’impressionismo è diventato uno spettacolo autonomo con le musiche meravigliose del pianista Remo Anzovino: trenta date tra fine 2018 e fine 2019 con una media non lontana dai mille spettatori paganti per sera».

Tra Philippe Daverio, Federico Zeri, Achille Bonito Oliva, Vittorio Sgarbi, Tomaso Montanari a chi si sente più vicino?

«Montanari non lesina attacchi. Mi sono avvicinato all’arte leggendo Roberto Tassi, Luigi Carluccio, Testori. Ho sempre amato lo scrivere sulla pittura. Tassi era un poeta dell’arte, sensibilissimo, Testori un grande scrittore. Ho amato tanto la scrittura, e certe scelte, di Francesco Arcangeli, l’allievo principale di Roberto Longhi, sul quale ho fatto la tesi di laurea. Ho più di qualche preferenza artistica in comune con Sgarbi, che ho sempre stimato, anche se trovo sia più oratore che scrittore».

La prossima mostra?

«S’intitolerà Van Gogh. I colori della vita, la prima di due in occasione dei 25 anni di Linea d’ombra. Si terrà al Centro san Gaetano di Padova, dal 10 ottobre 2020 all’11 aprile 2021 e consisterà di oltre 120 opere, di cui oltre 80 dipinti e disegni di Van Gogh. La prossima settimana andrò in Olanda, con molti giornalisti, per presentarla in anteprima. Per questa esposizione ho pensato anche a una serie di iniziative e aperture straordinarie, legate sia all’approfondimento critico che al vivere l’arte come patrimonio dell’emozione, perché le emozioni contano quando si vuole raccontare la pittura».

 

La Verità, 5 gennaio 2020

«Il mercato dell’arte contemporanea è folle»

Le opere di Giovanni Frangi ti restano dentro. Ti fanno rimuginare a distanza di giorni. Fino al 17 giugno sono esposte a Villa Carlotta di Tremezzo, in faccia al lago di Como che le irrora e le cangia di luce e riflessi. Quadri, sculture, installazioni nello splendido parco. Frangi è un esploratore della natura. Della natura e del paesaggio che sono fuori di noi, ma che risuonano in noi. Noi stessi siamo natura. Foreste tropicali, cieli notturni, fiumi nel verde: che riverbero hanno, che emozione generano nell’essere? Sono opere che nascono dallo sguardo del cuore. Uno sguardo appreso da Giovanni Testori, che era suo zio. Anzi, è suo zio, visto che ne parla al presente. Diplomato all’Accademia di Brera, milanese di cinquantotto anni, artista contemporaneo completo, pittore, scultore, incisore, Frangi ha esposto nelle gallerie di tutto il mondo.

Com’è nata la collaborazione con Villa Carlotta?

«Con 220.000 visitatori l’anno, la Villa è una delle mete lombarde più frequentate da turisti e amanti dell’arte italiani e internazionali che vengono per ammirare opere di Antonio Canova, di Francesco Hayez e di altri autori dell’Ottocento. Da quest’anno l’Ente morale che la gestisce ha deciso d’inaugurare un rapporto nuovo con l’arte contemporanea e mi ha contattato».

Hanno scelto in base al fatto che le sue creazioni prendono vita nel rapporto con la natura?

«Credo di sì. Ho sempre cercato un ambito preciso nel quale lavorare, una forma precisa per rafforzare la mia identità. Sono partito dal paesaggio, le case, le aree industriali, le tangenziali. Negli anni la natura è diventata l’elemento nel quale mi trovo più a mio agio».

La ispira il luogo dove deve situare le opere oppure prima le crea e poi cerca gli spazi?

«I luoghi espositivi suggeriscono differenti modalità espressive. Qui ho tentato di costruire un rapporto tra il parco e le stanze della Villa. Ai margini della foresta delle felci che sembra una jungla giurassica ho adagiato due tronchi rossi, come fossero reperti. Oppure ho creato un serpente di stoffa colorata che abbraccia la douglasia, un gigantesco tronco disteso nel giardino. All’interno ho collocato i quadri su strutture autoportanti e mobili come quinte teatrali, in modo che i cambiamenti della luce nella giornata potessero modificarne la percezione».

Quanto è importante il colore nella sua arte?

«È un elemento fondamentale. Partendo da fotografie di posti che ho visto, realizzo una trasformazione cromatica della natura. Come nel ciclo chiamato Selvatico: una foresta tropicale reinterpretata con il rosso e il blu. L’immagine originale è reinventata con l’uso arbitrario del colore. Così, in qualche modo, nasce una nuova realtà. L’arte è creazione di qualcosa che prima non esisteva. Ciò che sorprende l’artista mentre lavora è proprio il risultato inaspettato. Questa imprevedibilità è un elemento quasi magico».

È ciò che si chiama ispirazione?

«L’ispirazione è anche frutto di una pratica artigianale. Un artigiano ha bisogno di ripetere più volte la stessa azione per essere sicuro di compiere quel gesto nel modo giusto. Per raggiungere questo stato di grazia occorre che il motore sia rodato».

Ha iniziato a dipingere da bambino: una vocazione innata?

«Ho iniziato presto a disegnare perché mi ero accorto che mi divertiva. Il piacere esecutivo è stato fondamentale. Quando qualche anno fa ho visto che Vincent Van Gogh corredava di disegni le lettere che spediva a suo fratello mi è tornato alla mente che da piccolo disegnavo con le matite Caran d’Ache e che per stendere il colore le bagnavo con la lingua. Provavo piacere vedendo che due colori funzionavano uno con l’altro».

Perché all’inizio dipingeva finestre, sedie, tavoli?

«Erano il tentativo di dare una mia rappresentazione del mondo in una chiave matissiana. Nel 1986 quei dipinti composero la prima personale a Milano curata da Achille Bonito Oliva. L’anno scorso alcuni di quei quadri sono stati riproposti a Palazzo Fabroni, per Pistoia capitale della cultura, insieme a lavori più recenti con i quali funzionavano bene».

Quest’anno sono 25 anni dalla morte di Testori. Per lei è stato un maestro, un testimone o un ispiratore?

«È una presenza fondamentale nella mia formazione. Con me e mio fratello Giuseppe ha sempre avuto un rapporto fraterno. È un uomo che ha portato la sua espressività al limite estremo. Questa drammaticità nei confronti dell’esistenza lo rende tuttora da scoprire, imprevedibile grazie alla sua complessità».

C’è un episodio, un fatto particolare, che la accompagna del suo rapporto con Testori?

«Nel 1988 ero presente alla prima di In exitu a Firenze, il dramma della morte di un drogato ambientato alla Stazione Centrale di Milano con Testori in scena a fianco del grande Franco Branciaroli. Dopo venti minuti il pubblico ha cominciato a gridare “basta, basta coi froci” e più di metà sala se ne stava andando mentre l’altra metà applaudiva… Io ero evidentemente tra questi, ma c’era un’atmosfera di grande stress. Pensavo che smettessero, invece alla fine mio zio era entusiasta. Lo scandalo lo esaltava e quella fu una serata mitica».

Nell’opera e nella lingua di Testori è centrale la carne. Lei hai scelto la via della materia. In che cosa l’ha influenzata dal punto di vista artistico?

«Nello sguardo sulle cose, nella capacità di sorprendersi. Nell’essere una persona sicura, ma anche, allo stesso tempo, una persona attratta da qualcosa che non è suo: questa è la dote della giovinezza. Aveva una grande saggezza, ma anche uno sguardo infantile. Il grande scultore francese Constantin Brâncusi diceva: “Quando non siamo più bambini siamo quasi morti”».

In che senso nelle sue immagini «entra qualcosa di infinito»?

«Urpflanze, il titolo di questa esposizione, è un termine usato nel Viaggio in Italia da Goethe per identificare la pianta originaria, quella da cui tutte discendono. È qualcosa che ci pervade, non una realtà esterna che guardiamo da spettatori. L’infinito entra nel particolare della natura. È lì che lo riconosco. Nei miei lavori cerco di rendere questa percezione. Che non è un’esperienza astratta, ma avviene attraverso un rapporto fisico, un contatto corporeo».

Come lavora un artista che dipinge, scolpisce, incide e usa materiali come la gomma piuma?

«La tecnica è fondamentale. Da qualche anno lavoro su tele con una base cromatica precisa. Cerco strade nuove, sperimentazioni nella scultura e nelle incisioni. Se rifai ciò che già conosci ti annoi. La bellezza di questo lavoro sta nella curiosità, nel mettersi alla prova, nel cercare l’inedito. Spesso sono i luoghi espositivi a suggerire prove diverse».

Cosa pensa della moda delle mostre? Sono diventate un fenomeno popolare, senza vera passione per l’arte?

«Il rischio della moda e del conformismo legata solo ad alcuni nomi è reale. L’abbiamo visto per la mostra di Caravaggio a Milano. C’era una coda continua, in pratica era impossibile entrare.  Ma è sbagliato pensare che l’arte sia per pochi».

Lo storico dell’arte Tomaso Montanari sostiene che ci sia un eccesso di offerta.

«Il pericolo delle mostre blockbuster esiste. È diventa una mania. La vastità dell’offerta penalizza la qualità. Tuttavia, non mi piace nemmeno lo snobismo di chi ritiene che l’arte sia un fatto di élite, che necessiti di una propedeutica. L’equilibrio tra pop e élite è difficile. Da artista faccio una selezione, non riesco a vedere tutto, anche se vorrei».

Quali sono le mostre che ha maggiormente apprezzato di recente?

«Mi è piaciuta Post Zang Tumb Tuuum allestita alla Fondazione Prada sull’arte del Ventennio. Andando controcorrente rispetto al pensiero anglosassone che ritiene la white cube, lo spazio bianco e neutro, il luogo migliore per fruire le opere, il curatore Germano Celant ha ricostruito le situazioni espositive in cui vennero proposte all’epoca. Così si sono potuti apprezzare Mario Sironi, Giorgio De Chirico, Umberto Boccioni uno accanto all’altro con il sapore di quando si sono visti per la prima volta. Anche la mostra di Damien Hirst dell’anno scorso è stata straordinaria. Hirst è un artista che si reinventa sempre e ha riportato a Venezia la narrazione nell’arte. In una mostra ci racconta una storia. Quando l’arte raggiunge questa capacità di comunicazione riesce a farsi comprendere anche dai bambini, oltre che dagli addetti ai lavori».

Le è mai capitato di raggiungere questo livello di comunicazione?

«Forse con Nobu at Elba a Villa Panza di Varese, dove ho realizzato un’installazione pittorica per una superficie di 40 metri in cui ricostruivo con l’ausilio di un’illuminazione variabile l’impressione di trovarsi di notte davanti a un fiume. Il messaggio era molto semplice. Ognuno di noi si emoziona all’arrivo della notte ai bordi di un fiume, ma non sempre si riesce a raggiungere quell’immediatezza».

Perché spesso l’arte contemporanea risulta incomprensibile? A volte sembra essere arte della provocazione?

«La provocazione è da sempre stata nel Dna dell’arte. Forse è la sua ragion d’essere. l codici devono essere sempre trasgrediti. La vera arte riguarda la sfera più profonda della nostra vita, le paure con cui dobbiamo confrontarci».

E che dire delle quotazioni esorbitanti? L’arte contemporanea è solo per miliardari?

«Penso solo che sia il sintomo di un meccanismo impazzito, un mercato completamente drogato con dei congegni perfetti. Ci sono artisti che non hanno quarant’anni che costano cifre assurde. Una speculazione, una gara senza senso che confonde i valori, gli equilibri della storia. Un’opera di Mario Sironi o di Filippo De Pisis costa 50 volte meno di un disegno di Marlene Dumas o di William Kentridge. Le sembra possibile?».

La Verità, 20 maggio 2018