«Saranno pure pop, ma le mie mostre piacciono»
L’arte pop. L’arte emotiva. L’arte della fruizione diffusa. Marco Goldin è il signore che ha dato la sua impronta personale al consumo d’arte nel nostro Paese. Il segreto? Rivolgersi a tutti scremando la patina intellettuale e trasformando le mostre in eventi popolari. «Accorciare la distanza», sintetizza lui in tre parole. L’ultimo esempio viene dal Capodanno alla Gran Guardia di Verona, dove la visita a Il tempo di Giacometti. Da Chagall a Kandiski è stato un modo per festeggiare l’arrivo del 2020: alla mezzanotte le guide hanno interrotto l’illustrazione delle opere per lo scambio degli auguri tra i presenti.
Trevigiano, fondatore e direttore di Linea d’ombra, la società che realizza esposizioni dalla a alla zeta, Goldin è noto per aver portato in Italia gli impressionisti, Vincent Van Gogh e La ragazza con l’orecchino di perla di Paul Vermeer. Nei 400 eventi da lui curati dal 1984 a oggi 11 milioni di visitatori hanno potuto vedere 10.000 opere provenienti da 1.200 fra musei, fondazioni e collezioni private di tutti i continenti. Per nove anni una delle sue mostre è stata la più visitata d’Italia e per quattro volte tra le dieci più viste al mondo.
Come le è venuto in mente di far trascorrere San Silvestro davanti alle sculture di Alberto Giacometti?
«Non è la prima volta che teniamo aperta una mostra la notte di Capodanno. La prima fu nel 2011 a Genova, su sollecitazione del Comune: Van Gogh e il viaggio di Gauguin fu un successo clamoroso. Quella volta abbinammo anche il cenone, affittando alcune sale vicine a Palazzo Ducale dopo avere esaurito quelle nel palazzo stesso. Risultato finale, 1700 persone a cena e oltre 3000 in mostra».
E da allora…
«Replicammo la formula. A Vicenza, per il Capodanno del 2012 attorno alla Basilica Palladiana, dov’era allestita Raffaello verso Picasso, parteciparono 5.000 persone: i visitatori si mescolavano con i partecipanti alla festa della città. Abbiamo riproposto poi l’idea a Verona, a Treviso e quest’anno nuovamente a Verona».
Con quale risposta di pubblico?
«Hanno partecipato circa un migliaio di persone. Un numero veramente notevole considerato che le sculture, e così severe come sono quelle di Giacometti, non sono propriamente intonate al clima dell’ultimo dell’anno. La mostra a San Silvestro è un’idea che piace, e molto, a chi è stanco dei cenoni con obbligo di divertimento e preferisce l’alternativa dell’arte».
Qual è l’idea di fondo?
«Che esistono diversi modi per vivere lo stesso evento. Una collezione di capolavori si può presentare in modo asettico oppure in un modo adatto anche al grande pubblico. Personalmente mi avvicino alle opere attraverso lo studio, perché solo la conoscenza mette nella condizione di rivolgersi poi a un pubblico più largo. Uno scultore come Giacometti non è semplicissimo da comunicare. Ma attraverso lezioni, conferenze e testi si possono costruire delle storie e raccontare ciò che l’artista ha rappresentato per il suo tempo e la comunità nella quale viveva».
La famosa narrazione?
«Che dev’essere sostenuta dalla qualità dei contenuti. Non si creano eventi senza un forte nucleo artistico criticamente strutturato».
Ci vogliono i capolavori.
«Se ci sono le grandi opere si possono organizzare altri eventi, dallo spettacolo teatrale alla lezione universitaria, per diverse tipologie di pubblico».
Perché i puristi storcono il naso?
«Dicono che faccia mostre troppo popolari».
E per loro è un difetto.
«Sono sicuro che si possa proporre una materia sofisticata in un modo destinato anche al pubblico più largo. Ci sono gli specialisti del Rinascimento o del Cinquecento veneziano ai quali nessuno obietta alcunché. I miei secoli di studio sono l’Ottocento e il Novecento, ho allestito mostre sull’arte americana e la pittura scandinava, ma taluni fingono che mi limiti agli impressionisti e a Van Gogh. Certo, fanno più rumore perché richiamano un pubblico più numeroso, ma rappresentano non più del 10% della mia attività».
Perché gli impressionisti e Van Gogh hanno così tanto successo? In che cosa si riconosce il pubblico?
«Bisogna distinguere. Gli impressionisti ci raccontano un mondo del quale abbiamo nostalgia. La bellezza del paesaggio, dei cieli, delle nuvole e del vento ci racconta un mondo che non c’è più ma che continua ad ammaliarci, perché è ancora dentro di noi. Invece, il fascino di Van Gogh deriva da un’esistenza complicata: noi ci ritroviamo nella profondità di un’anima attraversata dalla sofferenza, ciò che percorre le sue opere».
Che cosa può dare questo modo di fruire l’arte a un Paese ricco di patrimonio, ma pigro nel frequentarlo?
«Da una ventina d’anni si registra un crescente risveglio di sensibilità e passione per l’arte e la bellezza. Lo percepiamo tutti, lo vediamo per esempio dai riscontri dei visitatori nel nostro database, al call center e sui social che registrano centinaia di commenti quotidiani. Un tempo andare a una mostra o visitare un museo era molto più complicato che andare a un concerto o leggere un libro. Oggi l’arte ha smesso di essere qualcosa di polveroso, relegato nella torre d’avorio».
Su questo si prende qualche merito?
«Fin dalle prime mostre che ho curato, ancor prima che ci fosse Linea d’ombra, ho sempre cercato di accorciare la distanza fra arte e pubblico. Quando ci si riesce, nasce qualcosa di buono, perché si crea un senso di comunità che apre prospettive inedite».
Come si diventa un manager d’arte di rilevanza internazionale?
«Non ne ho la più pallida idea. Ho iniziato dalle piccole cose, ma senza l’idea di diventare qualcuno. Certo, l’ambizione ce l’avevo, ma nel 1984, a 23 anni, la figura del critico come la conosciamo oggi non esisteva».
Quindi da che cosa è partito?
«Da piccole mostre sui pittori italiani del Novecento, soprattutto della sua seconda metà. La mia passione. A Palazzo Sarcinelli, a Conegliano. Ne facevo anche una al mese. Poco alla volta i grandi critici, come Giovanni Testori del Corriere della Sera e Giorgio Soavi del Giornale, mi si fecero vicini perché se si voleva vedere un certo tipo di pittura bisognava venire a Conegliano. Nel 1997 ho avuto i primi prestiti internazionali, due Ninfee di Monet. Dal 1998 ho iniziato a organizzare la stagione di mostre rimasta celebre nella Casa dei Carraresi di Treviso. Mi muovevo senza complessi, come fossi a Milano o a Roma. Così, lavorando e lavorando, si è imposto “il caso Treviso” nel mondo».
Lavorando e lavorando…
«Fino al 1996 non ho mai avuto collaboratori. Ero il segretario di me stesso, mi occupavo delle assicurazioni, trattavo con le ditte di trasporti, organizzavo la pubblicità e la comunicazione… Il marketing dell’arte non esisteva e le mostre venivano annunciate nelle riviste specializzate o con qualche affissione».
Qual è la mostra che le ha dato più soddisfazione come manager?
«Manager è una figura nella quale non so se mi riconosco. La mia fortuna è stata riuscire a trasformare la mia passione in lavoro. Seguo i progetti dall’inizio alla fine, con attenzione maniacale. Non basta essere esperti se non si sa trasformare in qualcosa d’altro le proprie competenze. Quasi sempre ci si affida a società terze. Linea d’ombra ha una visione completa dell’evento, accompagnato dal principio alla fine».
Tornando alle mostre che le hanno dato soddisfazione?
«Potrei citare America! Storie di pittura dal Nuovo Mondo, al museo Santa Giulia di Brescia nel 2007, che fu l’esito di un lavoro durato tre anni con venti viaggi negli Stati Uniti. Due anni prima, sempre a Brescia, avevo fatto Gauguin/ Van Gogh. L’avventura del colore nuovo. Poi La ragazza con l’orecchino di perla a Bologna. La voleva tutta Europa, ma erano state previste solo tre sedi in Giappone e tre negli Stati Uniti. Quando si aprì uno spiraglio, divennero decisivi i miei rapporti con il direttore del museo Mauritshuis dell’Aia. Un’altra esposizione che ho amato tanto è quella del 2010 sulla pittura scandinava, a Villa Manin di Passariano, per la quale ho avuto prestiti dai maggiori musei del nord Europa».
Le sue lezioni e i suoi spettacoli che seguito hanno?
«Notevole. Qualche anno fa tenevo delle lezioni per promuovere le mostre. Poco alla volta si sono trasformate in veri spettacoli teatrali, anche con la partecipazione di grandi artisti come nel caso di Antonella Ruggiero, in occasione delle mostre bresciane del 2006. O di Franco Battiato, Alice e Francesca Michielin per La ragazza con l’orecchino di perla. Ultimamente, La grande storia dell’impressionismo è diventato uno spettacolo autonomo con le musiche meravigliose del pianista Remo Anzovino: trenta date tra fine 2018 e fine 2019 con una media non lontana dai mille spettatori paganti per sera».
Tra Philippe Daverio, Federico Zeri, Achille Bonito Oliva, Vittorio Sgarbi, Tomaso Montanari a chi si sente più vicino?
«Montanari non lesina attacchi. Mi sono avvicinato all’arte leggendo Roberto Tassi, Luigi Carluccio, Testori. Ho sempre amato lo scrivere sulla pittura. Tassi era un poeta dell’arte, sensibilissimo, Testori un grande scrittore. Ho amato tanto la scrittura, e certe scelte, di Francesco Arcangeli, l’allievo principale di Roberto Longhi, sul quale ho fatto la tesi di laurea. Ho più di qualche preferenza artistica in comune con Sgarbi, che ho sempre stimato, anche se trovo sia più oratore che scrittore».
La prossima mostra?
«S’intitolerà Van Gogh. I colori della vita, la prima di due in occasione dei 25 anni di Linea d’ombra. Si terrà al Centro san Gaetano di Padova, dal 10 ottobre 2020 all’11 aprile 2021 e consisterà di oltre 120 opere, di cui oltre 80 dipinti e disegni di Van Gogh. La prossima settimana andrò in Olanda, con molti giornalisti, per presentarla in anteprima. Per questa esposizione ho pensato anche a una serie di iniziative e aperture straordinarie, legate sia all’approfondimento critico che al vivere l’arte come patrimonio dell’emozione, perché le emozioni contano quando si vuole raccontare la pittura».
La Verità, 5 gennaio 2020