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«Vivo al Lido, ma niente Mostra: ora dipingo»

Catherine Spaak è morta il 17 aprile 2022, giorno di Pasqua, dopo una lunga malattia. Ripropongo la mia intervista, pubblicata dalla Verità nel settembre 2017, perché, pur dissonante nel coro generale degli osanna, ne fa ugualmente trasparire l’intelligenza e lo spirito indomito.

«Eravamo in barca…». Catherine Spaak arriva al bar del Lido di Venezia scortata da una barboncina. Camicia e bermuda, capelli raccolti, abbronzatura da esposizione senza creme protettive. Il fascino resiste.

In barca con suo marito?

«Sì, è pilota di porto, ma ha una barca sua».

Cosa fanno i piloti di porto?

«Salgono a bordo delle navi da trasporto e da crociera e le guidano insieme ai comandanti fino all’ormeggio».

Sulle grandi navi in laguna…

«Dice che non danneggiano l’ambiente: sotto, nei canali, c’è la melma».

Da quanto vive al Lido?

«Da due anni. Prima mio marito stava a Trapani».

E vi siete sposati sposati a Erice.

«Mio marito ha avuto un incidente a una spalla ed è rimasto fermo per un po’. Quando è rientrato ha potuto scegliere la nuova destinazione e ha scelto Venezia, che piaceva anche a me».

È più giovane di 18 anni: pesa la differenza d’età?

«Le cose che facevo con facilità a 40 o 50 anni ora mi costano. Andare in bicicletta, per esempio. Le cene e la mondanità invece non mi sono mai piaciute».

Capisco. La differenza di età rispetto al marito?

«Non credo sia rilevante».

Perché ha molte energie?

«Mi posso accontentare».

O perché crede nell’amore?

«Qualcuno ci riesce, ma penso che vivere senza amare sia una condanna».

Tra Emmanuel Macron e sua moglie ci sono 24 anni di differenza.

«Non m’interessa. Ho perso il vizio di giudicare: è troppo faticoso».

Sbaglio se dico che bisogna avere tante risorse per non farsi scoraggiare dagli amori finiti e risposarsi la quarta volta?

«A Maurizio Costanzo non farebbe questa domanda».

Magari sì.

«Ne dubito, è una domanda che si fa alle donne. Ci sono donne che hanno avuto mille uomini, ma essendosi sposate una sola volta sono stimate. Lo so, i matrimoni fanno effetto; io credo possa essere una brava donna anche chi è arrivata al quarto».

L’ultima volta che il grande pubblico l’ha registrata è stata all’Isola dei famosi

«Che cosa significa registrata?».

Cosa non ha funzionato all’Isola?

«Accadevano cose diverse da quelle prestabilite e me ne sono andata».

Per esempio?

«Non ne parlo volentieri, sono state scritte cose pessime. L’Honduras è violento. All’ingresso degli alberghi c’erano cartelli che invitavano a lasciare le pistole in macchina. A causa di un tornado siamo rimasti in hotel una settimana. Mi è capitato di vedere un servizio in tv sui soldati dell’esercito che, siccome si annoiavano, sparavano alle gambe dei cani per esercitarsi».

Ne fu turbata.

«Era parte di una situazione per me insostenibile».

In televisione iniziò come conduttrice di Forum su Canale 5, ma dopo due anni smise…

«Come giornalista sì, ma durò di più…».

Perché finì?

«Non ne voglio parlare».

Ad Harem invece si è divertita molto.

«Per 15 anni. Autori e direttori di Rai 3 mi hanno lasciato piena libertà. Credo che anche il pubblico si sia divertito».

L’ospite più divertente?

«È difficile, tre persone a settimana per 15 anni… Una è Kuki Gallmann, l’ambientalista autrice di Sognavo l’Africa. E Paola Borboni, piena di vita».

La sua dote era la malizia?

«La capacità di ascoltare. I giornalisti hanno paura del silenzio. In tv, poi, vanno nel panico. Ero intuitiva, accettavo il silenzio, prima che la persona parlasse».

L’ospite che la mise in difficoltà?

«Nessuno».

Perché fu chiuso il programma?

«Dopo Angelo Guglielmi altri cinque direttori l’avevano confermato. Quando arrivò Paolo Ruffini decise che si era detto tutto sulle donne».

Nessuna trattativa?

«Avevo dei progetti, ma non ebbero seguito».

Prima della tv il cinema e un po’ di musica: ha sempre voluto fare l’attrice?

«Volevo fare la ballerina classica, avevo studiato, ma sono diventata troppo alta. Il contatto con il cinema è stato casuale».

Sentiamo.

«Un’amica che doveva fare un provino per un cortometraggio mi chiese di accompagnarla. Il regista disse: “Lei è esattamente la tipologia di persona che cerco”. Solo che ero io. Quello fu il mio inizio, anche se mio padre era un importante sceneggiatore e in casa venivano molti uomini di cinema».

Che rapporti aveva con i suoi?

«Non buoni. Me ne sono andata a 18 anni dopo il primo film, Dolci inganni, di Alberto Lattuada».

Come la pescò Lattuada?

«Aveva già collaborato con mio padre a un film intitolato La spiaggia. Veniva a trovarci e diceva che prima o poi avrei fatto l’attrice. Quando chiese se poteva farmi un provino a Roma non pensavo di fare l’attrice».

Da bambina firmava autografi ai compagni di classe.

«Era un gioco».

Suo padre le concesse il provino, non era cattivo…

«Lo vedevo poco. A 9 anni sono entrata in collegio e ne sono uscita a 14 per andare a scuola a Parigi. A 16 o 17 ho iniziato a lavorare. Erano rapporti sempre un po’ conflittuali».

Poi risolti?

«Quando si è giovani è difficile comprendere certe cose, ma alla mia età mi sento serena. Non vivo nel passato».

In quegli anni al cinema era spesso oggetto del desiderio di persone adulte.

«Fanno ridere queste parole se si guardano quei film. Interpretavo ruoli di ragazza libera, consapevole. O personaggi letterari come la Cecilia de La noia di Alberto Moravia. Donne autonome».

Proto femministe.

«Non c’era il divorzio, le donne erano sottomesse, tanto più in un mondo maschilista come il cinema. Sul set c’erano 60 uomini e tre donne. La sarta, la segretaria di edizione e l’attrice protagonista; quattro con la parrucchiera. Anche uomini di talento e di cultura erano misogini».

Il suo fascino etereo incrinò il dominio delle maggiorate.

«Era anche un fatto generazionale. Io e alcune colleghe come Stefania Sandrelli eravamo diverse da Sofia Loren a Gina Lollobrigida, con tutto il rispetto. La seduzione divenne più mentale che fisica».

Il suo modello?

«Ammiravo Audrey Hepburn. Quando la cito gli uomini storcono la bocca».

Cosa pensa dello scandalo delle molestie sessuali?

«Che doveva capitare. È la solita storia: tutti lo sanno e nessuno lo dice. Io ne parlai molti anni fa, ma molte colleghe dissero che a loro non era mai successo. Forse era solo troppo presto».

Il movimento Metoo?

«Ci sono tante sfaccettature, anche donne che approfittano di certe situazioni o che hanno delle responsabilità. Tuttavia, penso che la maggior parte abbia aderito perché ha subito situazioni spiacevoli. Il femminicidio è il risultato di un comportamento maschile sbagliato».

Catherine Deneuve ha difeso la libertà degli uomini di importunare.

«Poi si è scusata. Catherine Deneuve è Catherine Deneuve. Posso solo dire che non sono d’accordo».

Se gli uomini superano il limite non basta ribellarsi?

«Bisogna proteggere le donne molestate e violentate. Ci vuole un’educazione diversa di quella che si dà ai maschi, non solo in Italia. Qualche anno fa se una donna andava in commissariato le ridevano in faccia. Servono leggi severe per gli uomini che si comportano in modo sbagliato».

Lei ha subito molestie?

«Tempo fa, niente di grave, atteggiamenti inadeguati».

Che idea si è fatta della vicenda di Asia Argento?

«Nello studio di Bruno Vespa l’ho difesa dicendo che è assurdo stabilire un lasso di tempo oltre il quale una denuncia non è valida».

Gli ultimi fatti insegnano che lo schema uomini violenti e donne vittime è da rivedere?

«Bisogna sapere bene come sono andate le cose prima di giudicare. Io non lo so».

È ancora interessata alle discipline orientali?

«Pratico la meditazione buddista secondo la tecnica Vipassana».

Cosa le trasmette?

«Mi aiuta a interrogarmi sulle questioni fondamentali della vita. Anche la scuola dovrebbe educare al silenzio. Viviamo in un mondo di rumore, saltando da un posto all’altro. La tecnologia ha grande responsabilità, vedo ragazzi che non vivono senza essere connessi e non sanno stare soli con sé stessi».

Le manca il tempo in cui era «la voglia matta» di Ugo Tognazzi?

«Per carità».

Quando cantava L’esercito del surf?

«Per carità».

E quando ospitava Giulio Andreotti ad Harem?

«Nooo. Non vorrei avere né 30 né 40 né 50 anni oggi, sarei in difficoltà. Ero così anche a vent’anni».

Così come, un filo snob?

«L’hanno detto in tanti».

Si definisca.

«Non saprei… Sto bene con me stessa».

L’hanno mai invitata alla Mostra del cinema, a due passi da qui?

«Due anni fa hanno proiettato L’uomo dei cinque palloni di Marco Ferreri con Marcello Mastroianni. Mi hanno invitata, ma ho declinato. Non ho voglia di presenziare…».

Se le chiedessero di consegnare un premio?

«Mah… Vivo lontano dal cinema e dal teatro. Anche se l’anno scorso ho recitato un testo scritto da me su Colette. L’abbiamo portato in tournée e replicato diverse settimane al Parioli di Roma».

Perché smise di fare cinema?

«Trovavo banali le parti che mi proponevano. Tutto si è affievolito molto serenamente».

Ci va ancora?

«Da normale spettatrice, anche a teatro. Vado alle mostre, alla Biennale… E dipingo; la pittura mi ha preso molto».

Quando vedremo i suoi quadri?

«A fine anno».

Ci può anticipare qualcosa?

«Devo incontrare un gallerista interessato a quello che faccio, ne parlerò al momento opportuno».

Niente notizie, le piace più intervistare che farsi intervistare.

«Ora nemmeno più quello. Quando ho cominciato a scrivere sospettavano che scrivesse qualcun altro; quando facevo le interviste che le preparasse qualcun altro; ora diranno che i quadri chissà chi li ha dipinti. Ha presente quando si diceva che gli attori di cinema non potevano recitare a teatro? Però questi giudizi non mi hanno impedito di fare quello che ho fatto e che faccio».

Il suo film della vita?

«È difficile… Adoro Momenti di gloria».

Bellissimo.

«Anche E. T. e Jules e Jim. Poi leggo molto, due o tre libri al mese».

L’ultimo?

«La treccia di Laetitia Colombani».

Vive al Lido e va spesso a Roma…

«Ogni tanto, Roma non mi piace più, sto meglio qui. Anche d’inverno».

La Verità, 2 settembre 2017

«Sì, noi rapper siamo diventati mainstream»

Look trasgressivo e concetti tradizionali (quasi). È il contrasto che attira l’attenzione su Luchè, rapper ora biondo pannocchia, piccoli tatuaggi al volto, più grandi sul collo e sulle mani, anelli e orecchino d’ordinanza. Fuori copione sono i suoi interventi a Realiti, seconda serata su Rai2, con Enrico Lucci dal look cangiante: total red, blue, pink. La stranezza è che vicino ad Aurelio Picca e soprattutto ad Asia Argento, il più saggio della giuria dei saggi risulta proprio Luca Imprudente, 38 anni che sembrano parecchi meno.

Allora Luchè, io non la conosco, mio figlio sì… Ma La Verità si rivolge più quelli come me che, vistala spuntare in televisione, si chiedono chi è questo Luchè?

«Sono un artista cresciuto nella periferia nord di Napoli, precisamente a Marianella, un passo da Scampia. Vengo da lì per andare oltre».

Risposta vera o per i media?

«Descriversi da soli non è semplice, si può cadere nella finta umiltà o nel narcisismo. Posso dire di essere sensibile alla creatività, che non s’identifica con il successo. Sono un vulcano emotivo».

Il nome dove l’ha preso?

«È Luca in dialetto napoletano».

Gavetta.

«Abbiamo iniziato da adolescenti, ma il primo disco l’abbiamo pubblicato nel 2005, dieci anni dopo, perché volevamo essere pronti».

Parla al plurale.

«Eravamo io e ’Nto, i Co’Sang».

Prime esibizioni.

«Live in piccoli club, una mazzata in fronte. Mi cagavo sotto perché ci si esibiva davanti a un pubblico composto da altri aspiranti rapper, persone che volevano fare la stessa cosa tua. Una nicchia bella, ma frustrante».

Facevate freestyle?

«Partecipavamo alle jam nelle piazze. C’era chi faceva i graffiti, chi si esibiva nella breakdance, chi rappava. Ma erano occasioni sporadiche».

La svolta?

«Quando è uscito il primo disco dei Co’Sang. Qualche mese dopo Roberto Saviano ci intervistò per XL di Repubblica, poi arrivarono Rolling Stone e Rumore. Eravamo un gruppo cattivo. Dopo qualche anno è arrivato il declino totale».

Declino totale.

«Nel 2012 ci siamo sciolti e ho trascorso alcuni anni davvero bui».

Motivo?

«Lo scioglimento del gruppo. Alcuni giornali diedero la colpa a me. In realtà, il rapporto con il mio socio era molto complicato. Avevamo due modi diversi d’intendere la musica. Siamo scoppiati. L’hip hop non era come adesso che è diventato il genere più mainstream al mondo. Non c’era una strada economica percorribile. Poi c’è anche un altro fatto…».

Sentiamo.

«Il rap è uno sport individuale, i gruppi non durano a lungo. Al massimo ci possono essere delle collaborazioni fra solisti».

Adesso?

«Va bene. Ma ci sono voluti tre dischi da solista per risalire».

A Realiti ha citato i suoi ristoranti a Londra e New York, da Int’o rione ne ha fatta di strada.

«In mezzo ci sono sette anni, il primo locale l’ho aperto nel 2012. In quartiere soffocavo e mi sono trasferito… Ne parlo nel libro che sta per uscire con la riedizione di Potere, il terzo cd. Ho sempre vissuto in periferia guardando oltre, anche oltreoceano. Ho lavorato dieci mesi in un ristorante di Londra, ma non mi pagavano. Poi ho provato con l’abbigliamento. Ho visto alcuni amici aprire dei ristoranti e ho imparato».

Mentalità imprenditoriale.

«Avevo messo in stand by la musica. Portavo i piatti in tavola, ma pensavo ai testi, ai nuovi ritornelli. Facevo la spola tra Napoli e Londra, 15 giorni qui e 15 lì. Il disco dei Co’Sang è nato così. Poi nel 2010, ho iniziato ad andare anche a New York, dove mi dedicavo solo alla musica. In Italia facevo due o tre concerti e con il guadagno stavo a New York due o tre mesi. Dovevamo fare il terzo disco, ma non l’abbiamo mai finito».

Scuola?

«Ho preso la maturità scientifica, poi mi sono fermato».

I suoi genitori?

«Sono l’opposto di me. Si sono laureati, insegnano alle superiori. A 50 anni mia madre ha preso anche la laurea in medicina. Sono cresciuto nella periferia più feroce d’Italia con a casa due intellettuali, persone innocenti. Vedere loro mi ha aiutato a frenare il possibile contagio della cattiveria. Dalla strada ho imparato la furbizia, mentre il cinismo me l’hanno insegnato la musica e le donne. Avevo curiosità per le persone carismatiche».

Tipo?

«Alcuni artisti americani come Jay Z e Tupac Shakur».

Eminem?

«Eminem è un rapper con grandissime doti tecniche, ma i suoi dischi non li sento sulla mia pelle. L’hip hop viene dalla black music, dal blues, dal soul, dal funk. Eminem è un genio a sé stante».

Cosa vuol dire che a Londra è diventato sé stesso?

«Vuol dire che lì ognuno poteva andare per strada vestito come voleva. È una città con meno pregiudizi e se li hanno, li tengono per sé. A Napoli mi sentivo gli occhi addosso, controllato».

Uno degli aspetti che mi ha sempre stupito in Gomorra è che nessuno di quei ragazzi ipotizza di andarsene per affrancarsi dai clan. Il mondo finisce a Scampia e Secondigliano…

«È una realtà ghettizzata. L’80% delle persone che nasce lì non ha altri input. Il mondo nasce e muore nel vicolo di casa. Mia madre ha insegnato in una scuola serale dei Quartieri spagnoli, c’erano le mogli dei camorristi: “Sono stata a Piazza Plebiscito una volta”. Sconfinare era cambiare quartiere. Se uno parla italiano dicono: “Quello è italiano”».

Avevamo così bisogno d’importare il rap dall’America?

«Tutta la musica contemporanea viene dall’estero. Il rap dall’America, il rock dalla Gran Bretagna, il reggae dall’America latina. In Italia c’è la lirica».

E la melodia.

«Certo. La esportiamo, ma mi sembra senza influenzare gli altri generi. Non credo che Madonna prenda qualcosa da Emma Marrone».

Non vorrei farle ingiallire ulteriormente i capelli, ma si può dire che il rap è di sinistra e i neomelodici di destra?

«Molti rapper, me compreso, potrebbero essere considerati figli di una cultura di destra perché i testi hanno contenuti materialisti, improntati al consumismo. La mia musica non ha niente di politico, al massimo tratta trasversalmente argomenti sociali. Rap di sinistra e neomelodici di destra è uno schema superato».

Perché lo sono destra e sinistra o perché i generi sono trasversali?

«Innanzitutto perché chi fa musica non si preoccupa di schierarsi. In secondo luogo perché la politica non è credibile né per il pubblico né per chi canta. Per esempio, i miei testi sono materialisti, ma il mio pensiero non è di destra. Poi sì, c’è qualcuno d’insospettabile che simpatizza per Salvini perché lo ritiene una figura necessaria».

Perché questo è il suo momento professionalmente migliore?

«Perché prima ero considerato un artista locale e ora vengo accettato in tutta Italia».

Perché ha cominciato a cantare in italiano.

«Ci è voluto del tempo, prima non ero al massimo delle mie potenzialità».

Che bilancio fa del suo lavoro in televisione?

«Sono orgoglioso di poter esternare le mie idee. Partendo dai social e dal gossip, che non m’interessa, c’è lo spazio per esprimere dei concetti. Il mio obiettivo è essere considerato come una persona che ha un pensiero suo. Quando finirà credo che mi mancherà».

Fedez, J-Ax, Jack LaFuria, Gué Pequeno, Sfera Ebbasta, Luchè: i rapper sono stati adottati dalla televisione?

«Più dalla tv che dalla radio che non passa i singoli di tutti».

Perché siete molto immagine?

«Sì, il look è studiato, attento alle mode. L’urban è diventato dominante nel mondo, oggi i veri influencer sono i rapper».

Anche le catenine con le medagliette devozionali che porta al collo sono una moda?

«Domanda lecita. Io non sono religioso perché credo che la religione con le sue leggi sia un metodo per controllare le masse. Però ho fede. Sono legato al crocifisso come oggetto di fede perché sono cresciuto in una comunità cristiana. La mia famiglia è credente anche se non particolarmente praticante».

Il rap una volta era un genere di rottura.

«Adesso influenza anche il pop, ma può essere ancora di rottura, altrimenti finisce tutto».

Era puro sfogo di rabbia, adesso è mainstream.

«Ci siamo sentiti tutti degli ultimi. Senza soldi e in periferia, cantavamo la voglia di riscatto».

Lei aveva genitori professori.

«Avevo 15 anni quando si sono separati. Certo, non sono mai stato povero, ma ho vissuto il degrado della periferia, un contesto intriso di criminalità. Ho visto il Bronx e Harlem… Scampia e Secondigliano sono attraversate dalla ferocia. Ci sono urla che nessuno ascolta. L’eroina, le siringhe ovunque, i morti ammazzati… Un ragazzo vorrebbe avere una fidanzata, comprarsi qualcosa, invece vive la frustrazione del vuoto».

Perché parlate tanto di credibilità?

«La credibilità viene dalla vita e dalla strada. Il rap non è una recita, una tecnica. La credibilità è tutto anche in altri campi. Per un giornalista, per un politico».

Tra i politici chi sente più vicino alla cultura della strada?

«Nessuno. Ma forse non dovrebbero neanche esserlo».

Vicino ai problemi reali della gente.

«Si parla molto di migranti, ma non è questo il primo problema dell’Italia. Che sono l’ignoranza e un sistema scolastico arretrato. Gran parte della popolazione è disinteressata a tutto ciò che non sia Belen o una partita di calcio. Non vedo qualcuno vicino ai veri problemi italiani».

Cosa significa come canta in Potere: «Tutti amano Saviano ma poi si annoiano quando raccontiamo come viviamo»?

«Che quando si tratta di film e di romanzi sono tutti compresi e desiderosi d’impossessarsi dello slang. Ora è cool usare le espressioni di Gomorra. Ma se faccio un pezzo che racconta le cose vere non ha lo stesso riscontro della finzione».

Chiudiamo con alcuni profili di napoletani o persone che c’entrano con Napoli. Luigi Di Maio.

«Non è male, ma mi arriva un po’ debole, poco incisivo».

Roberto Saviano.

«Furbo, ma anche necessario».

Marco D’Amore.

«Un talento che sarà ricordato come eccellenza napoletana da qui a vent’anni».

Maurizio Sarri.

«Il calcio è roba del popolo. Scegliere la Juventus è stato uno schiaffo a chi lo ha amato tanto».

 

La Verità, 23 giugno 2019

Freccero: «Massì, sono un direttore controcorrente»

Carlo Freccero – Il ritorno». Potrebbe intitolarsi così il film ora in prima visione sugli schermi di Mazzini. Un sequel 16 anni e mezzo dopo l’editto bulgaro, 18 aprile 2002. Per qualcuno, infatti, il sottotitolo è «Il controeditto». Per altri «La rivincita». Un fantasy; un giallo. O, visti i colpi di scena, un thriller. Mentre la rivoluzione di Rai 2 avanza, Freccero colleziona nemici. Ogni giorno un casino. Quotidiani e riviste lo dipingono censore, venditore di fumo, cialtrone. Lui si diverte come un bambino. «Eccole dieci euro», dice alla segretaria.

Come sta andando la rivincita?

All’inizio il risentimento è stato la motivazione per accettare di lavorare gratis. Inconsciamente ho adottato il pensiero di Enzo Tortora quando tornò a Portobello: «Dov’eravamo rimasti?». E l’idea di richiamare Daniele Luttazzi può avere un sapore di rivincita. Ma poi, un po’ alla volta, la televisione ha preso il sopravvento sui miei sentimenti. Perché, lei lo sa: noi siamo parlati dalla televisione…

La stanza da direttore è la stessa di 16 anni fa?

La stessa, ma rifatta.

Altra èra.

Totalmente. Oggi la sfida è dare identità a una rete generalista complementare a Rai 1 nell’epoca dell’over the top, le piattaforme multinazionali digitali.

In parole povere?

La tv generalista deve imparare a rispettare i tempi sociali dello spettatore. Fino a qualche anno fa c’era solo lei; oggi, nell’epoca dei tempi liquidi, il pubblico sceglie la tv generalista solo in prima serata. Questo va tenuto presente quando si fa il palinsesto. Io mi concentrerò sulla fascia dalle 19 a mezzanotte.

Rivincita senza vendette?

Certo. Fu Celentano a farmi lavorare a Rockpolitik, quando ero in punizione. Ma non covo risentimento. Non c’è il conte di Montecristo. Questo ritorno è un dottorato post universitario.

È un ritorno contro? Controeditto, controprogrammazione, controinformazione.

Controeditto un po’ sì. Disturbavo troppo e sia Berlusconi che Renzi non mi hanno mai preso in considerazione. Nel Cda Rai mi hanno eletto i 5 stelle e Sinistra ecologia.

Mentre il Pd l’ha mandato sul satellite.

I Ds per l’esattezza, segretario Piero Fassino, responsabile della comunicazione Carlo Rognoni.

La segretaria ricompare con una Coca zero. È dovuta uscire dal palazzone di Viale Mazzini per comprarla al bar.

«Ne vuole un po’?», chiede Freccero.

No, grazie.

(Agitandosi) Forza, forza con le domande!

È un’altra èra anche politicamente. Che rapporti ha con i 5 stelle?

Un rapporto di amicizia con Alessandro Di Battista e Gianluigi Paragone, che ho difeso quando conduceva La Gabbia.

Che cosa vi siete detti in trattoria con Di Battista?

Ho fatto apposta a farmi vedere con lui per festeggiare il suo ritorno in Italia.

Molti sono scandalizzati perché anche questo governo aveva giurato: fuori i partiti dalla Rai.

Naturalmente sono io che parlo di televisione, mentre lui mi parla del Paese.

Ha mai incontrato Matteo Salvini?

No. Mi piacerebbe incontrare lui e anche Steve Bannon. Comprenderli è necessario.

Perché?

Sono sull’onda del successo. Questo è il grande insegnamento che ho tratto dalla tv commerciale. Tutto ciò che ha successo va preso in considerazione. È l’umiltà l’insegnamento. Non possiamo pensare che il nostro io valga più di quello degli altri. Se una cosa è popolare bisogna rispettarla.

Ha più sentito Berlusconi?

Mai dal 2 maggio 1992 quando mi licenziò. Mi piacerebbe molto rivederlo e litigare con lui.

Perché la licenziò?

La mia Italia 1 disturbava il Caf, Craxi Andreotti Forlani.

Segnali dal suo mondo?

Conservo ottimi rapporti professionali. Scrivo sulla rivista Link che ritengo la migliore rivista in assoluto di televisione.

Quanto durerà questo governo?

Mi auguro tanto perché è senz’altro migliore di quello precedente.

Nonostante le frequenti gaffe mediatiche?

Le gaffe mediatiche sono meno rilevanti della crisi economica creata da chi c’era prima.

Come sono i suoi rapporti con i vertici aziendali?

Ottimi. Con l’ad Fabrizio Salini c’è una vecchia sintonia. Ancora oggi lo ringrazio per l’aiuto che mi diede al Festival della Fiction di Roma quand’era capo della Fox. Organizzammo un master class con Alicia Witt, la sceneggiatrice di Walking dead. Con il presidente Marcello Foa mi unisce l’attenzione critica verso l’informazione.

L’accusano di fare controprogrammazione e Salini sarebbe preoccupato.

La controprogrammazione è una regola che fa parte del lavoro televisivo quando si tiene presente lo scenario competitivo. Non è un dispetto contro qualcuno.

Rai 1 ha cancellato la conferenza stampa di Superbrain, lo show di Paola Perego, contro il quale ha programmato la serie The Good Doctor.

Con Lucio Presta ho sempre avuto un rapporto tempestoso. Però lo ammiro perché l’amore per sua moglie è così struggente che vorrebbe che tutte le reti si spegnessero in concomitanza dello show di lei. È come il protagonista di Adele H di Francois Truffaut, travolto dall’amour fou. Mi commuove e lo apprezzo.

Fa anche controinformazione.

È necessaria, detesto il pensiero unico politicamente corretto che nasconde le notizie sgradite. In questi anni la Rai ha perso il primato dell’informazione. Basta vedere che La7 ha Otto e mezzo e Rete 4 ha Stasera Italia. La Rai nulla. Deve coprire questa lacuna. Per me la conduttrice ideale dell’approfondimento dopo il Tg2 serale è una come Federica Sciarelli.

Ma ha già Chi l’ha visto?

Infatti, è un pio desiderio.

Ha dato dell’imbecille a una giornalista della Stampa.

Chiedo scusa per l’imbecille, ma bisogna ammettere che certi articoli sono molto fantasiosi. Ho trasceso usando il mio impatto mediatico per ridare centralità a Rai 2. Mai come adesso si avverte il conformismo dei media. Non a caso le vendite dei giornali precipitano.

Come si spiega che quasi tutta la stampa la attacca?

(Sorride) Chi mi attacca mi fa un favore. Vuol dire che sono davvero disturbante. Squadrato, come diceva Celentano.

Alla prima uscita si è fatto una valanga di nemici.

Ci sono stati tre tipi di reazione alla mia presentazione del palinsesto.

Addirittura.

La prima, sotto forma di depistaggio. Allontanare l’attenzione dai programmi più problematici e concentrarla su quelli più popolari come I fatti vostri e Quelli che dopo il tg. Per Repubblica il mio unico problema era mettere a tacere queste voci dissenzienti. Un po’ come censurare Stanlio e Ollio.

La seconda?

Rovesciare la focaccia. Cosa si oppone a un direttore di rete che si propone l’obiettivo di abolire la censura? Di essere un noto censore, incaricato dalla maggioranza di tacitare l’opposizione e la libertà di espressione.

E la terza reazione?

L’abbiamo vista all’opera a proposito dell’Ottavo blog: demonizzazione delle fonti. Ho letto sulla Stampa che i blog da me citati avrebbero molti scheletri nell’armadio. Non sono in grado di dibattere sullo specifico. Non m’interessa l’attendibilità di chi presenta l’informazione, ma l’attendibilità dell’informazione stessa. Saddam Hussein era il più cattivo di tutti, ma ahimè sulle armi di distruzione di massa era l’unico a dire il vero. Assad è stato prima buono poi cattivo. Ricevuto in pompa magna dal presidente Napolitano come baluardo dei valori occidentali contro l’integralismo islamico, si è trasformato in breve tempo in un mostro che non esita a gasare il suo popolo per impedirne la libertà di espressione. Potrei continuare.

Meglio di no.

Il giornalismo dovrebbe sempre tener presente la corrispondenza tra la notizia e la realtà dei fatti. La verità non guarda in faccia buoni e cattivi, ma ha a che fare con l’oggettività, non con presunte considerazioni morali.

Ha fatto incazzare anche gli juventini con quella battuta sull’occupazione dei Var.

(Ride) Quella battuta mi è piaciuta da pazzi. Io ho fatto L’Appello del martedì e considero il calcio materia di scherzo. Invece ho capito che è roba serissima. Infatti: il rigore contro la Sampdoria non c’era, mentre c’erano quelli non dati al Torino nel derby. Gli juventini sono belli, ricchi e famosi; sopportino qualche malignità. Sopportatela! Il potere esige il buffone di corte. Noi che non siamo juventini siamo una moltitudine di buffoni.

Magalli non la adora.

Invece mi è simpatico. È il più grande battutista rimasto della vecchia tv. Era amico di Gianni Boncompagni, di Luciano Salce e di tutti i grandi autori comici, per cui lui può dire quello che vuole e io lo esalto.

Chiudendo I fatti vostri?

No, dev’essere solo ridotto nei costi. Michele Guardì è uno degli uomini più ricchi d’Italia. Non può pretendere la Siae, faccia un sacrificio…

Quante cose può fare in un anno?

Pensi quante ne ho fatte in un mese… Il piano editoriale, lo speciale su Celentano, ho inventato un programma di approfondimento. Il 18 febbraio Enrico Lucci incontrerà Gianfranco Funari in Paradiso. Poi Bernardo Bertolucci sarà vendicato dei magistrati oscurantisti. Il 4 febbraio, per i 30 anni di Crêuza de mä, darò il concerto di Fabrizio De André con la presentazione di Dori Ghezzi. Il 25 febbraio ripartirà Made in sud con Stefano De Martino. Ho ridotto Ncis per riproporre le serie italiane. Arbore farà una serata dedicata a Gianni Boncompagni. Night tabloid diventerà Povera patria con la sigla di Battiato preceduta da una comica imitatrice. Poi c’è la trasformazione di Nemo con il ritorno alla conduzione di Alessandro Sortino. Ho messo a punto The Voice con Simona Ventura che partirà il 16 aprile e dove spero di avere in giuria Asia Argento e Morgan.

Non verranno mai.

Lo spero, è un sogno. Non si può sognare? (alzando il tono)

È vero che ha bocciato la seconda stagione del Supplente prodotto da Carlo Degli Esposti?

Vero, non mi piace. Mi aspetto proposte più interessanti e geniali, come Degli Esposti sa essere.

Resterà solo un anno o spera in una proroga?

Niente proroghe. Già arrivare a fine novembre 2019 sarà una fatica enorme. Chissà se questo entusiasmo creativo durerà fino allora.

È una specie di servizio civile gratuito?

Esatto. Come quello che faccio in carcere.

Cosa fa in carcere?

Tengo un corso di televisione nel carcere di Marassi sulle serie americane per la facoltà di Scienze dell’informazione. Ho cominciato lunedì scorso con The Wire. Naturalmente, con tutti questi impegni gratuiti, spero che il 2 giugno il presidente Sergio Mattarella mi conferisca il cavalierato.

Per avvicinarsi a Berlusconi?

Purtroppo non sono diventato come Urbano Cairo. Lui sì che è riuscito a imitarlo quasi in tutto.

Gli manca la discesa in campo.

Sì, ma avverrà in tempi relativamente brevi. Alle prossime elezioni politiche, quando saranno.

Lo suppone o lo sa?

Lo suppongo. Per la carenza di leader, per la tv che fa e per la voglia di rifare il percorso berlusconiano. Manca solo la politica.

Quanti detenuti seguono il suo corso?

Una trentina. Ma non parliamone troppo perché non vorrei che Presta, i giornalisti mainstream e i concorrenti delle altre reti convincessero la direttrice Maria Milano a tenermi dentro.

Tornare qui è chiudere un cerchio?

Certo, si chiude una stagione. Ma magari poi se ne apre un’altra… Devo dire che la vecchiaia dà una grande libertà. E anche la capacità di non avere paura di rischiare.

Per esempio richiamando Luttazzi? Qualche dettaglio?

L’ho sentito tre o quattro volte al telefono e lo incontrerò in Spagna in febbraio.

Probabilità di rivederlo davvero?

Dipende da lui, da quello che vuol fare.

Attaccare Salvini e Di Maio?

Molto probabile.

Glielo lasceranno fare?

Io vado via a novembre, lui dovrebbe iniziare a ottobre. Per due mesi…

Copiava le battute dai comici americani.

Vuol dire che sapeva copiare bene, altri copiano i format e molte volte male. Copiare una battuta è diffondere intelligenza.

Altri ritorni a Rai 2, magari Santoro?

Vorrei tanto incontrare lui, Piero Chiambretti e anche altri. Ma in un mese non sono riuscito a far tutto.

Ha detto che farà tornare la satira perché è finita l’èra di Berlusconi e Renzi. Perché li accomuna?

Perché appartengono allo stesso discorso politico. Siamo nell’epoca dei gilet jaunes non in quella degli azzimati e dei millennials, di Publitalia e della Leopolda. Siamo una moltitudine di gilet jaunes alla ricerca di un nuovo discorso economico e politico.

Condivide il pensiero di Alain de Benoist secondo il quale all’asse orizzontale destra-sinistra si è sostituita una prospettiva verticale élite-popolo?

Bene. Allora… I gilet jaunes sono nati per opporsi al potere. Già nel dopoguerra in Francia ci fu una strana mescolanza tra pensiero di destra e frange di sinistra contro il parassitismo delle classi rentiers (che vivono di rendita ndr). Ha ragione de Benoist, oggi il conflitto è verticale. Perché questo cambiamento? Molto semplice: perché il mondo del lavoro combatte il mondo della finanza, produzione contro speculazione. Il fronte della resistenza oggi va dal padrùn delle brache bianche al proletariato e sottoproletariato. È un fronte unico contro il vampirismo della finanza.

Dice che Trump si poteva prevedere, ma è un bene o un male con quei muri?

Si poteva prevedere perché la Clinton era ancora peggio di Trump.

 

Panorama, 16 gennaio 2019

 

Asia e Fabrizio, propellente per tv di plastica

«Andiamoci piano, io Fabrizio l’ho visto due volte. Dico: due volte». Asia Argento vorrebbe tenerla bassa, ma risulta difficile da ospite d’onore di CR4 – La Repubblica delle donne, il talk tempio del gossip di Piero Chiambretti che su queste cose ci si tuffa e, insieme ad Alfonso Signorini, ci ha costruito l’ultima tranche di carriera (Rete 4, mercoledì, ore 21.25, share del 4.36%). Fabrizio, non tutti son tenuti a saperlo, è Corona: tra lui e Asia è scoccata indomita passione, come documenta la cover di Chi in edicola. I due si sono incontrati e trovati, uniti dalle ingiustizie che hanno subito, affinità vedremo quanto elettive. Argento, per esempio, non ha ancora metabolizzato il licenziamento «via mail» dalla giuria di X Factor per una cosa che assicura di non aver fatto.

Sebbene i neoamanti si siano visti appena due volte, la serata di Rete 4 veleggia su retroscena della relazione, estremi che si attraggono, tecnica dello scoop e messaggi social commentati dalle «ministre» del governo Chiambretti, in verità eterogeneo assai, oltre che dall’immancabile Cristiano Malgioglio. Ci sono molteplici aspetti da sviscerare e angoli dark da illuminare. Il Fabrizio che ha conosciuto Asia è una persona così diversa da quella vista al Grande Fratello Vip, «qualcosa l’avrà fatto arrabbiare». E allora, per difendere l’idea verificata di persona di «un uomo intelligente e profondo e che ha sofferto», meglio cambiare canale imbattendosi proprio in quel X Factor da cui è appena stata licenziata. Che disdetta. La story però è succulenta e ricca di connessioni, a cominciare da quella con il movimento Me too, per proseguire con il ricatto dell’ex attore prodigio Tommy Bennett e il rapporto con il masterchef suicida Anthony Bourdain… Sulla faccenda si pronunciano anche padre e madre. Comprensivo Dario Argento, caustica Daria Nicolodi, di cui viene mostrato il pungente tweet, omettendo però la replica della figlia che dal cristallino pulpito impartisce lezioni di buona condotta, prima di trincerarsi nella privacy.

Insomma, il prodotto da supergossip è rifinito con i fiocchi e ci sarà tanto da scrivere. Asia e Fabrizio sono una manna, il contraltare di Albano e Romina Power. Ora che anche la liason tra Matteo Salvini e Elisa Isoardi è svanita ce n’è più che mai necessità e un’accoppiata più propellente, apoteosi del maledettismo patinato, era difficile immaginarla. Per Signorini e Chiambretti è un invito a nozze irrinunciabile. Ma il risultato è una televisione prevedibile e carnevalesca, più rivolta verso ieri che proiettata al domani.

La Verità, 9 novembre 2018

Giletti, Bennett e i dubbi sul romanzo d’appendice

Come scoop era stato presentato e scoop è stato. Per la puntata d’esordio della seconda stagione di Non è l’Arena su La7, Massimo Giletti ha intervistato Jimmy Bennett, l’accusatore di Asia Argento, che ha scelto di fornire la sua versione dei fatti in Italia (domenica ore 20,30, share del 7.1%). Quando aveva poco più di 17 anni, Bennett sarebbe stato violentato nella camera di un hotel vicino a Los Angeles. In California i rapporti sessuali con un minore di 18 anni sono reato ma, quattro anni dopo, anziché sporgere denuncia, la presunta vittima chiede un risarcimento milionario per i danni alla carriera causati dalla violenza. La vicenda ha elementi controversi. Dieci anni prima l’accusatore aveva recitato il ruolo del figlio in un film diretto e interpretato dall’accusata, a sua volta madre degenere. Anche fuori dal set lui la chiama mamma. Quando si rivedono, trascorsi dieci anni, si verifica la presunta violenza sessuale. Allorché lei diventa paladina del movimento Me too lui chiede il risarcimento. Il compagno di lei, chef di fama mondiale, paga una prima tranche per togliersi la seccatura, ma dopo qualche mese si suicida. In agosto il New York Times pubblica tutta la storia.

Con Bennett in studio, Giletti ha allestito una ricostruzione perfetta, senza cedimenti voyeuristici, ma ponendo le domande giuste. Capelli biondo platino spruzzati di rosa, giacca, jeans e sneakers, l’efebico accusatore ha risposto incrociando spesso lo sguardo con il suo avvocato, Gordon Sattro. Giletti si è confrontato con l’inattaccabilità della vittima, uno dei dogmi della società moderna, disseminando l’intervista di dubbi. A cominciare da come possa dispiegarsi la violenza di una donna se l’uomo non è consenziente, per proseguire con la richiesta tardiva del risarcimento, le foto successive al rapporto in cui Jimmy e Asia sono in atteggiamento confidenziale, la cena insieme che ha concluso la giornata. L’elemento nuovo del racconto è il fatto che la violenza sarebbe avvenuta dopo che Argento avrebbe prospettato a Bennett la partecipazione a un nuovo film. Motivo per cui, paragonandola a Harwey Weinstein, l’accusatore ha parlato di «abuso di potere». Ma anche su questo Giletti ha eccepito: da una parte c’è un produttore capo di una potente società, dall’altra un’attrice-regista molto meno accreditata. Restano dunque ancora alcuni lati oscuri in questa sorta di romanzo d’appendice moderno. In ballo ci sono l’attendibilità del ragazzo, la reputazione di un’attrice e la monoliticità di un movimento planetario. Vedremo se e come Argento replicherà.

 

La Verità, 25 settembre 2018

«Vivo al Lido, ma niente Mostra: ora dipingo»

Ripropongo la mia intervista a Catherine Spaak (pubblicata dalla Verità nel settembre 2017) perché, pur dissonante nel coro generale degli osanna, ne fa ugualmente trasparire l’intelligenza e lo spirito indomito.

«Eravamo in barca…». Catherine Spaak arriva al bar del Lido di Venezia scortata da una barboncina. Camicia e bermuda, capelli raccolti, abbronzatura da esposizione senza creme protettive. Il fascino resiste.

In barca con suo marito?

«Sì, è pilota di porto, ma ha una barca sua».

Cosa fanno i piloti di porto?

«Salgono a bordo delle navi da trasporto e da crociera e le guidano insieme ai comandanti fino all’ormeggio».

Sulle grandi navi in laguna…

«Dice che non danneggiano l’ambiente: sotto, nei canali, c’è la melma».

Da quanto vive al Lido?

«Da due anni. Prima mio marito stava a Trapani».

E vi siete sposati sposati a Erice.

«Mio marito ha avuto un incidente a una spalla ed è rimasto fermo per un po’. Quando è rientrato ha potuto scegliere la nuova destinazione e ha scelto Venezia, che piaceva anche a me».

È più giovane di 18 anni: pesa la differenza d’età?

«Le cose che facevo con facilità a 40 o 50 anni ora mi costano. Andare in bicicletta, per esempio. Le cene e la mondanità invece non mi sono mai piaciute».

Capisco. La differenza di età rispetto al marito?

«Non credo sia rilevante».

Perché ha molte energie?

«Mi posso accontentare».

O perché crede nell’amore?

«Qualcuno ci riesce, ma penso che vivere senza amare sia una condanna».

Tra Emmanuel Macron e sua moglie ci sono 24 anni di differenza.

«Non m’interessa. Ho perso il vizio di giudicare: è troppo faticoso».

Sbaglio se dico che bisogna avere tante risorse per non farsi scoraggiare dagli amori finiti e risposarsi la quarta volta?

«A Maurizio Costanzo non farebbe questa domanda».

Magari sì.

«Ne dubito, è una domanda che si fa alle donne. Ci sono donne che hanno avuto mille uomini, ma essendosi sposate una sola volta sono stimate. Lo so, i matrimoni fanno effetto; io credo possa essere una brava donna anche chi è arrivata al quarto».

L’ultima volta che il grande pubblico l’ha registrata è stata all’Isola dei famosi

«Che cosa significa registrata?».

Cosa non ha funzionato all’Isola?

«Accadevano cose diverse da quelle prestabilite e me ne sono andata».

Per esempio?

«Non ne parlo volentieri, sono state scritte cose pessime. L’Honduras è violento. All’ingresso degli alberghi c’erano cartelli che invitavano a lasciare le pistole in macchina. A causa di un tornado siamo rimasti in hotel una settimana. Mi è capitato di vedere un servizio in tv sui soldati dell’esercito che, siccome si annoiavano, sparavano alle gambe dei cani per esercitarsi».

Ne fu turbata.

«Era parte di una situazione per me insostenibile».

In televisione iniziò come conduttrice di Forum su Canale 5, ma dopo due anni smise…

«Come giornalista sì, ma durò di più…».

Perché finì?

«Non ne voglio parlare».

Ad Harem invece si è divertita molto.

«Per 15 anni. Autori e direttori di Rai 3 mi hanno lasciato piena libertà. Credo che anche il pubblico si sia divertito».

L’ospite più divertente?

«È difficile, tre persone a settimana per 15 anni… Una è Kuki Gallmann, l’ambientalista autrice di Sognavo l’Africa. E Paola Borboni, piena di vita».

La sua dote era la malizia?

«La capacità di ascoltare. I giornalisti hanno paura del silenzio. In tv, poi, vanno nel panico. Ero intuitiva, accettavo il silenzio, prima che la persona parlasse».

L’ospite che la mise in difficoltà?

«Nessuno».

Perché fu chiuso il programma?

«Dopo Angelo Guglielmi altri cinque direttori l’avevano confermato. Quando arrivò Paolo Ruffini decise che si era detto tutto sulle donne».

Nessuna trattativa?

«Avevo dei progetti, ma non ebbero seguito».

Prima della tv il cinema e un po’ di musica: ha sempre voluto fare l’attrice?

«Volevo fare la ballerina classica, avevo studiato, ma sono diventata troppo alta. Il contatto con il cinema è stato casuale».

Sentiamo.

«Un’amica che doveva fare un provino per un cortometraggio mi chiese di accompagnarla. Il regista disse: “Lei è esattamente la tipologia di persona che cerco”. Solo che ero io. Quello fu il mio inizio, anche se mio padre era un importante sceneggiatore e in casa venivano molti uomini di cinema».

Che rapporti aveva con i suoi?

«Non buoni. Me ne sono andata a 18 anni dopo il primo film, Dolci inganni, di Alberto Lattuada».

Come la pescò Lattuada?

«Aveva già collaborato con mio padre a un film intitolato La spiaggia. Veniva a trovarci e diceva che prima o poi avrei fatto l’attrice. Quando chiese se poteva farmi un provino a Roma non pensavo di fare l’attrice».

Da bambina firmava autografi ai compagni di classe.

«Era un gioco».

Suo padre le concesse il provino, non era cattivo…

«Lo vedevo poco. A 9 anni sono entrata in collegio e ne sono uscita a 14 per andare a scuola a Parigi. A 16 o 17 ho iniziato a lavorare. Erano rapporti sempre un po’ conflittuali».

Poi risolti?

«Quando si è giovani è difficile comprendere certe cose, ma alla mia età mi sento serena. Non vivo nel passato».

In quegli anni al cinema era spesso oggetto del desiderio di persone adulte.

«Fanno ridere queste parole se si guardano quei film. Interpretavo ruoli di ragazza libera, consapevole. O personaggi letterari come la Cecilia de La noia di Alberto Moravia. Donne autonome».

Proto femministe.

«Non c’era il divorzio, le donne erano sottomesse, tanto più in un mondo maschilista come il cinema. Sul set c’erano 60 uomini e tre donne. La sarta, la segretaria di edizione e l’attrice protagonista; quattro con la parrucchiera. Anche uomini di talento e di cultura erano misogini».

Il suo fascino etereo incrinò il dominio delle maggiorate.

«Era anche un fatto generazionale. Io e alcune colleghe come Stefania Sandrelli eravamo diverse da Sofia Loren a Gina Lollobrigida, con tutto il rispetto. La seduzione divenne più mentale che fisica».

Il suo modello?

«Ammiravo Audrey Hepburn. Quando la cito gli uomini storcono la bocca».

Cosa pensa dello scandalo delle molestie sessuali?

«Che doveva capitare. È la solita storia: tutti lo sanno e nessuno lo dice. Io ne parlai molti anni fa, ma molte colleghe dissero che a loro non era mai successo. Forse era solo troppo presto».

Il movimento metoo?

«Ci sono tante sfaccettature, anche donne che approfittano di certe situazioni o che hanno delle responsabilità. Tuttavia, penso che la maggior parte abbia aderito perché ha subito situazioni spiacevoli. Il femminicidio è il risultato di un comportamento maschile sbagliato».

Catherine Deneuve ha difeso la libertà degli uomini di importunare.

«Poi si è scusata. Catherine Deneuve è Catherine Deneuve. Posso solo dire che non sono d’accordo».

Se gli uomini superano il limite non basta ribellarsi?

«Bisogna proteggere le donne molestate e violentate. Ci vuole un’educazione diversa di quella che si dà ai maschi, non solo in Italia. Qualche anno fa se una donna andava in commissariato le ridevano in faccia. Servono leggi severe per gli uomini che si comportano in modo sbagliato».

Lei ha subito molestie?

«Tempo fa, niente di grave, atteggiamenti inadeguati».

Che idea si è fatta della vicenda di Asia Argento?

«Nello studio di Bruno Vespa l’ho difesa dicendo che è assurdo stabilire un lasso di tempo oltre il quale una denuncia non è valida».

Gli ultimi fatti insegnano che lo schema uomini violenti e donne vittime è da rivedere?

«Bisogna sapere bene come sono andate le cose prima di giudicare. Io non lo so».

È ancora interessata alle discipline orientali?

«Pratico la meditazione buddista secondo la tecnica Vipassana».

Cosa le trasmette?

«Mi aiuta a interrogarmi sulle questioni fondamentali della vita. Anche la scuola dovrebbe educare al silenzio. Viviamo in un mondo di rumore, saltando da un posto all’altro. La tecnologia ha grande responsabilità, vedo ragazzi che non vivono senza essere connessi e non sanno stare soli con sé stessi».

Le manca il tempo in cui era «la voglia matta» di Ugo Tognazzi?

«Per carità».

Quando cantava L’esercito del surf?

«Per carità».

E quando ospitava Giulio Andreotti ad Harem?

«Nooo. Non vorrei avere né 30 né 40 né 50 anni oggi, sarei in difficoltà. Ero così anche a vent’anni».

Così come, un filo snob?

«L’hanno detto in tanti».

Si definisca.

«Non saprei… Sto bene con me stessa».

L’hanno mai invitata alla Mostra del cinema, a due passi da qui?

«Due anni fa hanno proiettato L’uomo dei cinque palloni di Marco Ferreri con Marcello Mastroianni. Mi hanno invitata, ma ho declinato. Non ho voglia di presenziare…».

Se le chiedessero di consegnare un premio?

«Mah… Vivo lontano dal cinema e dal teatro. Anche se l’anno scorso ho recitato un testo scritto da me su Colette. L’abbiamo portato in tournée e replicato diverse settimane al Parioli di Roma».

Perché smise di fare cinema?

«Trovavo banali le parti che mi proponevano. Tutto si è affievolito molto serenamente».

Ci va ancora?

«Da normale spettatrice, anche a teatro. Vado alle mostre, alla Biennale… E dipingo; la pittura mi ha preso molto».

Quando vedremo i suoi quadri?

«A fine anno».

Ci può anticipare qualcosa?

«Devo incontrare un gallerista interessato a quello che faccio, ne parlerò al momento opportuno».

Niente notizie, le piace più intervistare che farsi intervistare.

«Ora nemmeno più quello. Quando ho cominciato a scrivere sospettavano che scrivesse qualcun altro; quando facevo le interviste che le preparasse qualcun altro; ora diranno che i quadri chissà chi li ha dipinti. Ha presente quando si diceva che gli attori di cinema non potevano recitare a teatro? Però questi giudizi non mi hanno impedito di fare quello che ho fatto e che faccio».

Il suo film della vita?

«È difficile… Adoro Momenti di gloria».

Bellissimo.

«Anche E. T. e Jules e Jim. Poi leggo molto, due o tre libri al mese».

L’ultimo?

«La treccia di Laetitia Colombani».

Vive al Lido e va spesso a Roma…

«Ogni tanto, Roma non mi piace più, sto meglio qui. Anche d’inverno».

 

La Verità, 2 settembre 2017