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«Sono anticlericale, ma non un ateo militante»

L’appuntamento con Marco Bellocchio è in un elegante hotel di Milano. Reduce dal Festival di Cannes privo di riconoscimenti, il regista di Rapito è in tour per presentare il film al pubblico. È un’opera che abbina alla seduzione estetica il taglio anticlericale nel narrare la vicenda di Edgardo Mortara, nono dei dodici figli di una famiglia ebraica della Bologna di metà Ottocento, ancora appartenente allo Stato pontificio. Battezzato di nascosto dalla tata cattolica allorché malato e in pericolo di vita, una volta appreso dell’amministrazione del sacramento, papa Pio IX esercitò l’imperativo previsto dal diritto canonico di educare cristianamente il nuovo affiliato alla Chiesa. Immediatamente il caso esplose con grande clamore, fino ad assumere rilevanza internazionale. Attorno alla vicenda del «bambino rapito dal Papa re», si coagularono le comunità ebraiche mondiali, la massoneria, i sovrani europei da Cavour a Napoleone III, le grandi testate giornalistiche. Una coalizione che s’infranse contro la volontà del bambino. Il quale crebbe in un convitto religioso, si fece prete assumendo il nome di Pio Maria Edgardo per gratitudine verso il Papa suo benefattore e morì a 90 anni nell’abbazia di Bohuay, in Belgio. Anche Pio IX, pronunciando il famoso «Non possumus», non indietreggiò. Ma in qualche modo quella vicenda contribuì ad accelerare la «presa di Roma» e la fine del potere temporale vaticano.

Come ha scelto il titolo del film?

«Prima avevamo pensato a La conversione ma, nonostante il mio entusiasmo, la garbata opposizione della comunità ebraica mi ha fatto recedere. Il secondo titolo era Non possumus, ma in questo caso è stata la distribuzione a dissuadermi perché il latino non lo conosce nessuno. Poco prima di fare i manifesti siamo arrivati a Rapito che, mi pare, entri nell’orecchio».

Qual è l’idea di questo film di cui va più fiero?

«Fin dall’inizio mi ha mosso l’amore per il dramma di questo bambino. Solo ora il film sta suscitando un certo tipo di discussioni e polemiche, ma il mio primo interesse non era fare un’opera contro Pio IX. Questi due elementi si sono integrati, un po’ come nei grandi romanzi dell’Ottocento s’intrecciano la piccola storia e la grande storia. Stiamo parlando di un film di 2 ore e 5 minuti, non di un libro di storia. Né è mia intenzione paragonarmi ad autori come Alessandro Manzoni che, pure, dedica un intero capitolo dei Promessi sposi alla peste».

Ha scritto una lettera a papa Francesco invitandolo a vederlo: risposte.

«Finora nessuna. Naturalmente ha cose ben più importanti di cui occuparsi».

Si aspettava qualche riconoscimento a Cannes?

«I riconoscimenti sono legati ai gusti dei giurati, che hanno scelto diversamente. Inoltre, l’anno scorso avevo già avuto la Palma d’oro alla carriera. Si poteva considerare l’interprete del Papa, del padre o della madre…».

Una straordinaria Barbara Ronchi.

«I grandi attori sono molto padroni del proprio volto e dei propri occhi. Lei ha saputo trovare la giusta misura della madre straziata».

Si può dire che c’è una prima parte del film più provocatoria e una seconda più riflessiva, in cui sembra rispettare le scelte del protagonista?

«Man mano che si procede s’impone la grande storia con la fine del Regno pontificio. Avevamo l’esigenza di trovare delle sintesi, rendendo lo strazio del bambino. E l’impresa impossibile alla quale è chiamato, di conciliare le due religioni, quella della famiglia e quella del suo secondo padre, Pio IX. Qui è nata la scena nella quale schioda il crocifisso…».

Quella iniziale con il padre tentato di lanciarlo dalla finestra ai suoi confratelli per sottrarlo al sequestro è un po’ forzata?

«Non è inventata. Nelle cronache si cita il padre che espone il bambino ai suoi correligionari perché lo portino via. È anche vero che poi non se la sente, come si rendesse conto del rischio di perderlo definitivamente».

Dalle ricostruzioni storiche risulta che il Papa propose di farsi carico dell’educazione di Edgardo fino alla maggiore età quando avrebbe scelto a quale confessione aderire.

«È vero. Il bambino mostrò sempre gratitudine verso il Papa per l’educazione ricevuta».

Frequentando una scuola cattolica a Bologna si voleva garantire ai genitori la possibilità di vederlo.

«Questo non lo so. So che il Papa dispose una pensione cospicua affinché il bambino potesse studiare. Poi lui chiese di continuare gli studi come missionario e di chiamarsi Pio. La sorpresa maggiore si ebbe quando, con la liberazione di Roma, il fratello entrò in seminario per riportarlo in famiglia, ma lui si oppose, scegliendo di rimanere lì».

Tornando al battesimo clandestino, la legge vietava che le famiglie ebraiche avessero personale cattolico proprio per evitare queste situazioni.

«Era un divieto blando e poco rispettato. Alle famiglie ebraiche faceva comodo avere personale cattolico nei giorni del shabbat, quand’è proibito lavorare».

Risulta anche che la massoneria favorì l’irrigidimento della famiglia.

«Il padre era massone, tuttavia era anche il più disponibile a un’apertura. La madre lo rimproverava perché lo riteneva troppo morbido. A un certo punto il permesso di visitare il bambino fu sospeso perché lei continuava a opporsi e rifiutava che venisse educato cristianamente».

Un dei meriti del film è mostrare che Edgardo aderì presto ai nuovi insegnamenti impartiti: quindi non fu un’educazione forzata?

«Nella sua autobiografia scrive di essere sempre stato trattato con estrema umanità. Ma se pensiamo a un bambino prelevato dalla sua famiglia non possiamo escludere che cercasse la migliore sopravvivenza. In un luogo sconosciuto, anche un bambino si adatta alla situazione. L’amico gli dice: “Tocca farse furbi”… Penso che non abbia fatto molti ragionamenti, in un ambiente gentile ma ostile trovò la sua strada».

Quando i genitori vanno a Roma il rabbino dice al padre che ha sbagliato a creare troppo clamore e che il bambino sta bene, «una brutta notizia per voi».

«Non cercava di scappare, si era adattato. Ma era un adattamento superficiale come evidenziò la visita della madre che riuscì a spezzarne le difese, provocandone la crisi e la richiesta di tornare dai fratelli».

Nella scena in cui sogna di schiodare Cristo crocifisso compie un atto di riparazione per conto del popolo ebraico?

«Gli dicono che il suo popolo è responsabile dell’uccisione di Dio, un’accusa che ora la Chiesa ha cancellato. E lui vedendo e rivedendo questo crocifisso immagina che, liberandolo dai chiodi, può aiutare una riconciliazione che gli permetta di non rinnegare la nuova religione e di riconciliarsi con la vecchia».

Nel dipingere un Pio IX mellifluo e geloso del proprio potere non si risparmia.

«Senz’altro. All’inizio era un papa liberale, poi diventa quasi reazionario. Tenersi il bambino è il simbolo di una battaglia disperata. Che invece perde e, con essa, perde anche il suo regno e ne mostra il dolore. È una figura più tragica che caricaturale».

Tiene fede al principio del battesimo cristiano e da una posizione di debolezza si scontra con i poteri forti dell’epoca.

«Gli rimane il potere spirituale, ma non vuole perdere quello temporale. In Francia i cattolici si dividono, alcuni suggeriscono la restituzione. Rischia di inimicarsi Napoleone III che lo difendeva in nome del principio del battesimo che fa di chi lo riceve un cristiano per sempre. E in nome del quale perde numerose alleanze. Wojtyla lo beatificò proprio in quanto simbolo della difesa della fede in un mondo che si laicizza».

Perché si è basato sulla ricostruzione di Daniele Scalise piuttosto che sull’autobiografia dello stesso Edgardo Mortara?

«Ho letto anche l’autobiografia, certo. Scalise è la fonte principale, ma ho attinto anche a un libriccino di Gemma Volli dove ho trovato la scena della madre disperata. Poi a quello di David Kertzer e ai documenti del processo all’inquisitore».

Che cos’è per lei l’ateismo?

«Ha in sé qualcosa di militante contro la religione che non è in me. Sono non credente, ma non ho bisogno di affermarlo. Anzi, in questi tempi più che complicati, laddove si trovassero momenti di dialogo senza pretendere che un credente rinunci alla fede o, al contrario, che voglia convertirmi, il mondo troverebbe nuove risorse. Nell’Ottocento esisteva il partito degli atei, io non sento questa forma di revanscismo. Certamente vengo da un’educazione cattolica da cui mi sono progressivamente separato».

È incuriosito dal cristianesimo, ma ostile alla Chiesa?

«Se vedo un credente non è che sia attratto, ma lo ascolto. Capita che mi chieda: lui crede e io no, com’è possibile? A volte, quando vedo rappresentata la fede nell’arte e nel grande cinema, come quello di Dreyer, succede che mi commuovo».

Cos’è l’anticlericalismo?

«Nel mio caso può derivare dall’educazione che ho ricevuto fatta di messaggi violenti: “Devi essere sempre in grazia di Dio, perché se muori vai all’inferno per sempre”. Sono stato educato con questi principi. Oggi un prete aperto non userebbe queste espressioni. Ma a me è andata così, infatti per molti anni ho avuto paura. Poi, con l’adolescenza, mi sono emancipato».

In Italia, nel cinema e nella letteratura, c’è l’egemonia della sinistra?

«Si diceva che così fosse. Però ormai le carte si sono mescolate. In un periodo in cui la sinistra era fortemente egemone, non sono mai stato iscritto al Pci. Anche il liberalismo progressista aveva il suo peso, poi c’erano distinzioni tra socialisti e comunisti. Comunque la sinistra era dominante».

Ha seguito le polemiche del Salone del libro per la presentazione di Una famiglia radicale di Eugenia Roccella?

«Penso che se si invita una persona a presentare il suo libro, ministro o non ministro, non si può impedirle di parlare. Poi, certo, c’è l’esuberanza dei giovani… Ma anche l’avversario ha diritto di parlare: impedirglielo è sbagliato».

Sta già pensando al nuovo film?

«L’idea è lavorare su Enzo Tortora. Non so se un film, una serie o altro. Mi prendo qualche settimana per decidere».

Rapito può voler dire anche rimanere affascinati da un fatto, un avvenimento. È quello che può essere accaduto a Mortara?

«Il significato primario è che è stato rapito, non volente. Un film può raccontare le estasi di Mortara come quelle di Santa Teresa. Ma penso che non lo farò io. Anche se non lo nego».

 

La Verità, 31 maggio 2023

«In quella fiction quanto fango contro mio padre»

Tale padre tale figlio, anche Stefano Andreotti conserva una discreta ironia capace di sdrammatizzare le situazioni più scabrose. Nella serie Esterno notte trasmessa in questi giorni da Rai 1 suo padre Giulio è dipinto come l’anima nera della Democrazia cristiana, l’uomo che più perseguì la strategia della «fermezza» e addirittura ostacolò i tentativi di salvare Aldo Moro. Eppure, il settantenne terzogenito dell’ex presidente del Consiglio democristiano morto nel 2013, conserva il distacco per sfoderare un particolare illuminante: «Ha presente nella fiction quando, la mattina dell’agguato in Via Fani, si vede Moro leggere La Repubblica?». Sì, certo. «Quella mattina il vero titolo di Repubblica era: “Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro”. Questo per dire la sciatteria o, peggio, la volontà di distorcere i fatti». Mentre il pubblico si è mostrato tiepido, la critica ha curiosamente elogiato l’opera di Marco Bellocchio, a dispetto del fatto che la ricostruzione contenuta nei sei episodi, nonostante la consulenza storica di Miguel Gotor e giudiziaria di Giovanni Bianconi, o forse proprio a causa di queste, sia distante dalla verità.

Alla fine ha ceduto e ha visto Esterno notte, contrariamente a quanto aveva dichiarato dopo la presentazione al Festival di Cannes.

«Qualcuno mi ha convinto in modo educato a farlo».

Qual è stata la sua prima reazione?

«Mi è venuta subito in mente l’intervista che mio padre concesse al Giornale nel 2003, subito dopo l’uscita di Buongiorno, notte, il precedente film di Bellocchio. In quell’intervista si rammaricava che la produzione fosse della Rai. E si lamentava che ci fossero grandi inesattezze nella ricostruzione degli eventi. In particolare, riguardo alla sua forte pressione su papa Paolo VI affinché nell’appello, che poi fece pubblicamente in Piazza San Pietro, aggiungesse la famosa frase per il rilascio dell’ostaggio “senza condizioni”».

Anche in questa serie il regista ripropone il biglietto fatto pervenire al Papa prima dell’appello.

«Nel film era su carta intestata della presidenza del Consiglio, nella serie questo dettaglio non è specificato, ma è chiaro che l’estensore è lo stesso. Quando certe circostanze sono accreditate una volta, poi vengono ripetute. Anche altri hanno ripetuto l’assoluta falsità che mio padre avrebbe imbeccato Palo VI. Nei suoi diari c’è la ricostruzione di quei giorni. C’è il memoriale scritto da monsignor Angelo Macchi, segretario particolare del Papa, che veniva quasi tutte le sere a casa nostra per un reciproco aggiornamento. Quel memoriale credo non sia mai stato visto da nessuno, eppure racconta bene che il discorso di Montini è nato senza condizionamento alcuno. Fu scritto, riscritto e corretto prima di pronunciare la versione definitiva».

Condivide il pensiero di Maria Fida Moro quando dice che «o si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace»?

«Lo condivido appieno. Credo non sia giusto entrare nella sfera del dolore soprattutto della sua famiglia. Se si vuole parlare di Moro se ne parli come personaggio storico e non si approfitti di altre situazioni per entrare in casa loro in quel modo. Sono passati 45 anni: non ritengo giusta questa insistenza».

Come dimostra la lettura della lettera nella quale Moro ringrazia le Br per l’avvenuta liberazione che a un certo punto sembrava probabile, Bellocchio sembra abbracciare la tesi di Leonardo Sciascia per il quale alla Dc, al Pci e ai corpi dello Stato faceva comodo che Moro fosse lasciato morire.

«Bellocchio sposa la tesi che non è stato fatto nulla per liberarlo, anzi, si è remato contro. Perciò, si mostra l’episodio in cui il capo della Digos Domenico Spinella dice di non sfondare quello che era un covo dei terroristi. Sono ricostruzioni decontestualizzate, che seguono dietrologie contenute in tante pubblicazioni o negli atti di commissioni politiche successive. Magari si poteva anche dare un’occhiata ai Diari degli anni di piombo relativi al periodo 1976-1979 pubblicati già allora. E che di recente abbiamo integrato con altre carte che, all’epoca, mio padre aveva preferito non divulgare. I Diari erano scritti giorno per giorno, mentre i fatti accadevano, non sono ricostruzioni a posteriori. Forse confrontarsi con questo materiale non era nelle corde degli autori della serie tv».

Miguel Gotor, storico e consulente del regista, dice che la «libertà artistica è un bene supremo».

«Concordo e per fortuna in Italia non è mai mancata. Ma credo che ci sia un’ambiguità: si fa una fiction con l’ambizione di una ricostruzione storica. Se questo è lo scopo ci si dovrebbe basare su dati sicuri effettivamente riscontrati».

Eppure la critica ufficiale elogia «il rigore di Bellocchio».

«Non so… Non ho ancora visto le ultime due puntate. Se tutto il negativo di quei giorni è ascrivibile alla Democrazia cristiana e ai suoi componenti mentre il Pci di Enrico Berlinguer e gli altri leader allineati sulle stesse posizioni sono sgravati di ogni responsabilità, non mi sembra un gran rigore».

Anche Eugenio Scalfari e Repubblica erano in prima linea nella scelta della fermezza.

«Esatto. Mi sono annotato un particolare divertente: nella scena del tragitto in auto verso Via Fani si vede Moro leggere Repubblica. Sa qual era il titolo del giornale del 16 marzo 1978? “Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro”. Questo dice la sciatteria o peggio la mistificazione in atto».

Suo padre esce come la vera anima nera di quei giorni.

«Che si doveva fare meglio è evidente, ma l’apparato dello Stato e dei suoi corpi mostrò tutta la sua arretratezza. Uno dei passaggi più verosimili della fiction è quando Cossiga dialoga con il consulente statunitense che gli dice che mentre per gli americani dietro le Brigate rosse ci sono solo le Brigate rosse, per gli italiani ci sono sempre altre realtà, altri burattinai. Siamo malati di dietrologia. Al di là dei processi subiti negli anni Novanta, il più grande dolore della vita politica di mio padre è stato che qualcuno ha insinuato non solo che non ha fatto nulla, ma addirittura che abbia ostacolato la possibilità di salvare Moro».

La fermezza era compatibile con percorsi di trattativa ufficiosi?

«Certo. Mio padre si era attivato con varie associazioni umanitarie e anche con Gheddafi, Tito, persino Fidel Castro. Soprattutto c’è stato il tentativo di pagare un riscatto di 10 miliardi di lire, non di 20 come si vede nella fiction. È tutto scritto nei Diari. Un’altra differenza è che il Vaticano si tira indietro perché ritiene che sia una truffa. In realtà, l’ipotesi del riscatto resse fino all’ultimo ed era concordata con Berlinguer, tramite il suo segretario Tonino Tatò, e Franco Rodano, che era un cattolico nel Pci».

Eleonora Moro dice a Paolo VI che l’unico a non andarla a trovare è Andreotti.

«Mio padre era presidente del Consiglio, la sentiva spesso telefonicamente. Non si è mai voluto mostrare. Conosceva Moro dalla guerra e anche lei dal tempo della Fuci. Moro aveva scelto mio padre come capo del governo della “non sfiducia” del 1976 e poi l’aveva nuovamente scelto per quello che giurava quella mattina con l’appoggio esterno del Pci. Che da una parte della famiglia ci sia stato risentimento lo capisco. Il rapporto con Maria Fida invece è sempre stato ottimo anche dopo la tragedia finale».

In casa parlavate di come comportarvi se al posto di Moro ci fosse stato suo padre?

«In quel periodo lo vedevamo molto poco. Ricordo benissimo che in più di un’occasione, anche alla presenza di monsignor Macchi, ci disse che se fosse accaduto qualcosa a lui dovevamo accettare la stessa linea scelta in quel momento dallo Stato. Mio padre è stato un obiettivo delle Br. Alberto Franceschini ha raccontato di averlo pedinato e di averlo urtato una mattina quando scendeva dalla macchina per vedere la reazione della scorta».

Da Bellocchio al Divo di Paolo Sorrentino che risposta si dà a proposito del fatto che il cinema tratteggia suo padre sempre in una luce negativa?

«Si continua a coprire di fango una persona e il partito cui apparteneva. Non è solo il cinema a descriverlo così. Per capire perché questo accade dobbiamo ricordarci di ciò che è accaduto in Italia all’inizio dei Novanta con la demonizzazione di tutti i rappresentanti dei partiti di governo, con l’incredibile eccezione dei perdenti della storia. Eppure, come dice Paolo Cirino Pomicino, gli sconfitti della storia sono proprio quelli che vogliono continuare a scriverla. A modo loro».

 

La Verità, 18 novembre 2022

Il Moro di Esterno notte è vittima di Bellocchio

Potente, livida e rituale, alla maniera di tutta la sua cinematografia (L’ora di religione, Vincere, Bella addormentata), in particolare di Buongiorno, notte di cui è l’ideale prosecuzione, è iniziata su Rai 1 con i primi due episodi, dei sei previsti in tre serate-evento ravvicinate, Esterno notte di Marco Bellocchio, la serie già presentata al Festival di Cannes e premiata dagli Efa, gli Oscar europei, per il suo carattere innovativo. Nella scena finale di quel film ambientato tutto all’«interno» del covo, in una prospettiva onirica che echeggiava l’idea del buon esito della trattativa, Aldo Moro veniva dissequestrato dai terroristi e lo si vedeva camminare per le vie di Roma. Qui, interpretato da un somigliantissimo Fabrizio Gifuni, lo ritroviamo sotto choc dopo la liberazione in un ospedale dove, mentre gli fa visita lo stato maggiore del partito, si ascoltano le parole di una lettera da lui indirizzata ai terroristi: «Io desidero dare atto che alla generosità delle Brigate rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà. Per quanto riguarda il resto, dopo quello che è accaduto, non mi resta che constatare la mia completa incompatibilità con il partito della Democrazia cristiana». La lettera, trovata nel memoriale, risale ai giorni che precedono l’uccisione quando, anche dopo l’accorato appello di Paolo VI «agli uomini delle Brigate rosse», sembrava che una speranza di liberazione fosse ancora viva e lo stesso prigioniero se n’era drammaticamente illuso, sentendosi al contempo abbandonato dal partito.

È, in buona sostanza, la tesi dell’Affaire Moro di Leonardo Sciascia, per il quale il governo dell’epoca, il quarto a guida Giulio Andreotti, non ebbe titubanze nel perseguire la linea della «fermezza», attribuita dal regista proprio al presidente del Consiglio. Del resto, tra i contagi cinematografici di Effetto notte ci sono quel Todo modo di Elio Petri, scritto da  Sciascia, e Il divo di Paolo Sorrentino. Ne scaturisce un’opera formalmente curata,  di penombre e primi piani ritratti in una luce depressa che riflette sia l’aria plumbea dell’epoca che la psicologia dello stesso presidente Dc, a sua volta affetto da ansia depressiva (vedi Il Dio disarmato di Andrea Pomella, Einaudi, ndr). Un’opera che Bellocchio, con i consulenti Miguel Gotor e Giovanni Bianconi, dissemina senza controllo di tutte le sue antipatie e idiosincrasie. Per esempio, verso una Dc losca e proteiforme nelle sue diverse anime assetate di potere, in cui si salva solo il mite statista, vittima designata. Gli altri democristiani, chi più chi meno, sono proiettati in una visione parziale ed egoriferita. Appena appresa la notizia del rapimento, quando ministri e sottosegretari stanno giurando, Andreotti fugge a vomitare nel water, mentre Paolo VI intima ai suoi inservienti di stringergli il cilicio. Non tanto perché il pontefice di un compiaciuto Toni Servillo spicchi in ascetismo – risulta politico e ammiccante – quanto perché nell’estetica bellocchiana, se la Dc è ambigua e limacciosa, sua logica dirimpettaia è una Chiesa cupa e oscurantista.

Un Moro dimesso, nonno affettuoso e docente universitario già contestato a lezione dai militanti più radicali, attraversa sulla Fiat 130 i quartieri di Roma dove campeggiano scritte minacciose e si rapinano le armerie. Credibile nelle movenze e nelle titubanze, lo statista lo è meno nel vocabolario «da operazione culturale» quando, in un discorso alla direzione del partito, usa il verbo «includere» per descrivere la ricerca dell’appoggio esterno del Pci al nuovo governo. Il fatto stupisce solo in parte: «includere» e «inclusione» sono vocaboli forzatamente ed esageratamente infilati in tante pellicole e serie mainstream sul passato. Cosicché, in costume nelle scenografie e nelle ambientazioni, esse diventano ultra contemporanee in alcune parole d’ordine.

Per tornare ai protagonisti dell’esterno democristiano, già nelle prime apparizioni Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) si mostra preoccupato della reazione degli «amici americani». Ricorrerà infatti ai consigli di Steve Pieczenick, esperto statunitense di terrorismo, per gestire le indagini e indirizzare la comunicazione. Ha un ruolo notevole accanto al ministro dell’Interno, «Eccellenza» per i collaboratori, anche lo psichiatra Franco Ferracuti, poi trovato nelle liste P2, che lo assiste nella sua umoralità, causata dall’indifferenza della moglie, «per lei sono un fantasma», dalla vitiligine, dai tic e le passioni per i soldatini e le intercettazioni telefoniche, per ascoltare le quali viene allestita una gigantesca centrale. Ancora peggio escono le forze dell’ordine: comandanti dei Carabinieri, della Polizia, della Guardia di finanza, descritti da Cossiga come «tutti massoni iscritti alla loggia P2 (già lo sapeva nel 1978?), ex fascisti o ancora fascisti, ferri vecchi», propongono di dichiarare lo stato di guerra e ripristinare la pena di morte.

Ha grande ragione Maria Fida Moro, primogenita dello statista quando dice che «o si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace». Prodotta da The Apartment, Kavac film, Rai fiction e Arte France cinéma, Esterno notte è un’opera forte e seducente che, per l’apocalitticità dei temi trattati, travalica i confini abituali della serialità, tanto più quella targata Rai. Ma è un’opera che richiede una visione critica e un buon grado di discernimento in possesso del pubblico più stagionato, testimone degli anni narrati. I telespettatori più giovani, invece, rischieranno di lasciarsi irretire dalla confezione, assumendo con essa anche le tesi parziali e orientate del suo autore.

 

La Verità, 15 novembre 2022