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«Racconto la donna che inventò le cure palliative»

A volte le strade più tortuose sono le più feconde. Come quella di Emmanuel Exitu, bolognese, classe 1971, trapiantato a Roma, copywriter e documentarista. Solo cinquantenne si è scoperto scrittore, pubblicando Di cosa è fatta la speranza (Bompiani), romanzo biografico su Cicely Saunders, infermiera, assistente sociale e medico. Donna tenace che nella seconda metà del Novecento ha deciso di prendersi cura di chi è spacciato, riuscendo a valorizzare la medicina palliativa e a creare gli hospice per malati terminali.

Un libro straordinario. Ma intervistandola mi appello alle sue doti di copywriter più che a quelle di scrittore.

«Proverò ad andare subito al sodo».

Da dove spunta Emmanuel Exitu?

«Non lo so neanch’io».

Mi fa un suo breve identikit?

«Ho frequentato la scuola per odontotecnico, ma non volevo farlo. Ho superato il test di medicina, ma mi sono iscritto a filosofia, gettando i miei nello sconforto. Infine, mi sono laureato in poetica e retorica con una tesi su In Exitu di Giovanni Testori».

La fonte di nome e cognome?

«Emmanuel è il nome di battesimo».

«Dio con noi».

«All’università mi dicevano: Emmanuel come Kant? No, come Dio».

Genitori credenti.

«I miei fratelli si chiamano Samuel e Sara, nomi biblici anche i loro».

Ed Exitu?

«Cognome d’arte. Mi ero iscritto a filosofia con la fissa di capire perché le parole producessero significato».

Cos’è successo?

«Siccome, ero un filo problematico, alcuni amici mi fecero leggere In exitu di Testori. Era il monologo di un drogato che vuole andare a morire nella Stazione centrale di Milano. Un monologo che mischiava varie lingue e, non essendo io un lettore forte, all’inizio ci mettevo un quarto d’ora per decifrare una pagina. Quando ci ho fatto l’orecchio, l’ho riletto tre volte di seguito fino a sentirmi rigenerato da quel libro».

E cos’è cambiato?

«Intanto, il cognome. Per il resto, improvvisavo perché non sapevo cosa volessi fare da grande. A un certo punto, grazie ai miei studi sulle tecniche del racconto, mi hanno assunto alla Lux Vide, dove ho seguito la produzione di una dozzina di film. Poi ne ho scritto uno mio, La stella dei Re, sui Re Magi, che fu prodotto da Edwige Fenech e trasmesso in prima serata su Rai 1, con successo. Sono tuttora grato a Edwige Fenech».

E poi?

«Sono entrato in un’agenzia di digital design ma, giusto per non adagiarsi, sono partito per l’Uganda. Pur da cattolico, ho sempre avuto una questione aperta con la speranza, pensavo che la vita finisse lì dove la vedi. Negli slum di Kampala ho incontrato Rose Busingye».

Chi è?

«Una specie di madre Teresa nera che si occupava di donne malate di Aids. Ne è nato Greater, un documentario che Spike Lee ha premiato al Babelgum film festival. Poi, con i soldi del premio, ho fatto un altro documentario con Mario Melazzini, malato di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica ndr)».

Sempre situazioni estreme?

«Non avendo la speranza valeva la pena guardare a chi ce l’aveva».

Quando si è scoperto scrittore?

«Leggere Vegliate con me (Edb), un libretto di discorsi di Cicely Saunders, è stato un colpo di fulmine».

Cosa l’ha affascinata?

«Cicely era una gran rompicoglioni, una testa dura. Dentro la paura per la morte è andata a vedere che cosa si poteva fare».

Sembra che sia stata lei a trovarla, non il contrario.

«Se un libro funziona è perché quello che l’ha scritto è stato trovato dalla storia. All’inizio volevo farne un film come quello sui Re Magi. Sulla facciata del King’s College di Londra, dove sono andato per le ricerche, c’erano le gigantografie dei grandi britannici, compresa Cicely Saunders».

Una sconosciuta…

«Fuori dai circuiti del fine vita, sì. Quando mi accorsi che nel 2018 sarebbe stato il centenario della sua nascita pensai di essere bruciato. Invece, nessuno ne parlò, neanche in Inghilterra. Così, ho scritto il trattamento del film per poi rendermi conto che nessun produttore avrebbe finanziato uno come me. Allora ho pensato al romanzo. Ma avevo il plot e non la scrittura, la mia voce».

Non male come scoperta.

«Per due anni ho scritto e buttato. Finché l’ho trovata. Da quel momento è cominciata la vera fatica. Scrivere dopo che sei stato trovato dalla storia è qualcosa che ti sbudella, che ti scombussola. Per un periodo ho seguito una terapia».

Il lettore apprezza la scrittura disinvolta.

«Frutto di molto lavoro. Succede che in quattro ore scrivi tre frasi e ne sei entusiasta. Vai a mangiare, torni, rileggi e butti tutto. I maestri della letteratura avvertono di questa maledizione. Ero all’inferno, ma sapevo che era la strada giusta».

Ha mai avuto a che fare con malati terminali?

«Marco Maltoni, un palliativista che ha due hospice in Romagna, mi ha introdotto in questo mondo».

La storia di Cicely Saunders, i cui protocolli sono stati riconosciuti dall’Oms, è riassumibile in questa frase: «La speranza è un posto dove puoi morire scoppiando di vita»?

«La speranza è qualcosa che ti sorprende. Non è qualcosa che si possiede, ma una scoperta continua, che toglie il fiato».

Per Charles Péguy è la virtù bambina.

«La speranza fa casino. Invece che stare al suo posto è sempre in movimento, scappa da tutte le parti».

Come un cucciolo di elefante in corsia o il coro di pazienti del St. Christopher’s hospice fondato da Cicely nel 1967?

«Il fatto interessante dei reparti di cure palliative di cui si parla poco ma che fanno tanto, è che uniscono persone diverse. Chi ha fede e chi non ce l’ha. Nella zona del fine vita cadono certezze e sistemi di pensiero ma, come dice Cicely, si apre la possibilità di “condividere il comune terreno della nostra vulnerabile umanità”. Quindi, se un credente e un non credente si incontrano in questo territorio, allora si incontrano e si aiutano davvero. Per me, che sono un“malcattolico”, è sorprendente trovare persone che non hanno la fede, ma mi aiutano con il loro modo di guardare la vita».

Chi non ha fede tende a rimuovere lo scandalo della morte?

«Anche chi ce l’ha».

I non credenti sono portati ad abbreviare il tempo del fine vita?

«Non è quello che ho visto io. Le racconto due storie. Nel suo hospice di Milano, Augusto Caraceni, un amico di Maltoni, riceve la visita di una persona:“Sono un malato terminale, mi dica perché non devo andare in Svizzera”. Senza raccontargli favole, Caraceni gli propone il percorso delle cure palliative, la possibilità di alleviare la sofferenza. “Grazie dottore, mi ha salvato la vita. Mi ha dato una speranza…”. Un altro paziente: “Faccio qualcosa, poi vado in Svizzera…”. “Ok, ma perché non usa di questi giorni per cercare e stare con i suoi figli?”. Alla fine, quella persona ha scelto di rimanere con loro. C’era un’alternativa profondamente umana».

Per i medici la morte è una sconfitta e la malattia terminale un’esperienza d’impotenza?

«La morte fa parte della vita, invece viviamo immersi in una cultura che la rimuove. Quando è morto mio nonno, al quale ero affezionatissimo, non me l’hanno fatto vedere. Eravamo negli anni Ottanta, meglio non mostrare il cadavere a un ragazzino. Ero incazzato nero».

Che differenza c’è tra terapia e cura?

«Quando intervistavo Melazzini per il documentario parlavo di malattia inguaribile… A un certo punto, lui che è un medico e un montanaro incazzoso, mi ha detto: “Di inguaribile io ho solo la mia voglia di vivere”. Se non posso più guarirti, posso prendermi cura di te».

Per i nostri sistemi sanitari sono energie sprecate.

«Qualche giorno fa a Padova Luciano Violante ha provato a tracciare un terreno d’impegno comune: “Il tema del sostegno alla vita deve diventare un valore assoluto”, ha detto. “L’etica della vita deve prendere le mosse dalla dignità in sé della vita, anche a prescindere da valutazioni di ordine religioso”. Difendere la centralità della vita vuol dire superare le gabbie del relativismo».

Non crede che nelle situazioni estreme la carità possa aiutare?

«Lo credo. Se ti appoggi ai valori, i valori si piegano. C’è una zona nella quale non bastano. Cito Violante perché è l’esempio di una persona che sta cercando, con la forza intellettuale che lo contraddistingue, il terreno comune “della nostra vulnerabile umanità”».

Ha seguito il caso di Indi Gregory?

«In queste faccende bisogna essere precisi. Indi sarebbe morta in breve tempo. In Inghilterra la sua vicenda non era una notizia, lo era il fatto che gli Italiani si agitavano per lei».

Com’è possibile che il Paese di Cicely Saunders sia così spietato con i malati inguaribili?

«È un sistema agghiacciante: se un paziente non può guarire deve morire perché è un costo. Tuttavia, pur non essendo un medico, non credo che al Bambin Gesù sarebbe sopravvissuta a lungo».

Avrebbe avuto un tempo di vita maggiore.

«Stiamo parlando di una faccenda potentemente umana. Sfruttarla politicamente non mi è piaciuto».

Fortunatamente qualcuno ne ha parlato.

«Sarebbe stato giusto dare il tempo a quella bambina e ai suoi genitori, inevitabilmente scioccati, di entrare nell’idea della morte della propria figlia. Farsi carico del dolore di tutta la famiglia è una cura palliativa».

Una comunità di giudici, medici, psicologi e funzionari che decide quando un malato deve morire togliendogli i sostegni vitali fa pensare a una distopia.

«Non voglio negare questa deriva. Ma lo dico in modo provocatorio, non me ne frega un cavolo di fermarla. Il mio interesse è incontrare le persone sul terreno della comune vulnerabile umanità. Quando faceva i colloqui per le assunzioni, Cicely tagliava chi aveva le risposte pronte della fede entusiasta o dell’ateismo entusiasta. “Ho bisogno di gente che si faccia delle domande”, diceva. Quindi la soluzione è l’alleanza terapeutica tra il medico e il paziente nella quale si decide insieme».

C’è una medicina come servizio all’uomo e ai deboli e una medicina come pretesa di controllo?

«Se rispettano la loro natura, scienza e fede, ognuna seguendo il proprio percorso, non possono non andare all’interiorità della persona, del malato. Davanti alla soglia finale non si può barare. È questo che può rompere il meccanismo della rimozione. I granellini della condivisione di cui parlavo prima fermeranno la deriva».

Intanto, la comunicazione è orientata verso prospettive eutanasiche.

«La comunicazione non è tutto il mondo, ma una piccola parte».

Determinante, però: nemmeno Londra ha ricordato il centenario di Cicely Saunders.

«Quando entravo in libreria, su questi temi trovavo solo un certo tipo di proposte. Al massimo, qualche pippone religioso che non risponde alla reale drammaticità delle situazioni. Così, mi sono messo a cercare un’altra storia».

 

La Verità, 6 gennaio 2023

Bompiani: «Ci siamo abituati al monopensiero»

Impaesamento. È la parola con la quale Ginevra Bompiani inizia La penultima illusione, appena pubblicato da Feltrinelli. «Un viaggio fra molte vite». La sua, innanzitutto: di scrittrice, editrice, traduttrice, docente, donna attiva nel sociale. Poi quella del padre Valentino, fondatore della casa omonima, uno dei maggiori editori e scopritori di talenti del secolo scorso. Dell’ex marito, il filosofo Giorgio Agamben. Degli amici Umberto Eco, Elsa Morante, Italo Calvino, Giorgio Manganelli. E infine, ma forse prima di tutte, quella di N, la ragazza somala di 17 anni che ha accolto nella sua casa romana, diventandone tutrice legale, prima che scoppiasse la pandemia.

L’impaesamento di N è andato a buon fine?

Non esattamente. L’impaesamento si contrappone allo spaesamento, all’estraneità che deriva dalla diversità. Pensavo che mostrare la bellezza e l’arte di una civiltà potesse aiutarla a superare questa estraneità. Non è stato e non è facile. Anche perché sono arrivati il Covid e i lockdown che hanno prodotto un azzeramento della cultura. Quando andammo alla mostra di Raffaello prima di entrare in ogni stanza dovevamo attendere sulla soglia il suono di una campanella…

Che cos’è la diversità?

In Bellezza variegata Gerard Manley Hopkins scrive: «Gloria sia a Dio per le cose screziate». La diversità è un regalo, anche se è infinita. Anzi, forse proprio per questo. Ogni volta che getti un ponte che unisce segmenti diversi, ne spuntano altri di nuovi.

Essere una persona vissuta in mezzo ai libri e faticare a persuadere alla lettura una ragazza di 17 anni è uno scacco della realtà?

È uno scacco dell’immaginazione. Ognuno ha la propria: la nostra è nutrita dai libri, altre sono alimentate dal paesaggio, dalla magia, dalla religione… dalle botte prese. È l’immaginazione la vera diversità.

Produrre libri e promuovere autori e scrittori è stato il suo lessico familiare: quando è diventata una scelta personale?

La prima esperienza è stata quando, tornando da Parigi, io e Giorgio Agamben abbiamo proposto a mio padre la collana di letteratura fantastica il Pesanervi. In Italia era considerata di destra e quindi era snobbata. Noi, avendo vissuto a Parigi, avevamo uno sguardo diverso. L’idea era di Agamben e io l’ho sposata e realizzata minuziosamente.

Prima c’era stato il periodo degli «incantatori» Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia: gli scrittori della sua formazione?

Li conobbi la prima volta durante una vacanza romana con la mia famiglia. Frequentavamo Adriana Asti, moglie di mio cugino Fabio Mauri e amica di Elsa Morante. In quel mese fatato conoscemmo lei, suo marito e Pasolini. Avevo 17 anni e fu una folgorazione. Anche Agamben era amico della Morante e di Pasolini, perciò in anni successivi tornai a incontrarli, in modo corale. Poi conobbi e frequentai a lungo Italo Calvino, Giorgio Manganelli…

Tra gli scrittori di oggi vede qualcuno che possa reggere il confronto con loro?

Direi di no. Ma questo non vuol dire che non ci siano grandi scrittori. Credo che oggi la scrittura non sia più lacrime e sangue com’era allora. Qualcosa a cui lo scrittore si dava totalmente, in una dedizione di ricerca della verità e passione. Adesso vedo maggiore disinvoltura, un lavoro collettivo in cui contano molto i consigli degli editor. Allora era impensabile che qualcuno cambiasse una virgola di Elsa Morante.

Nessuno può confrontarsi con gli incantatori?

Uno scrittore lacrime e sangue di oggi è Daniele Mencarelli, che peraltro è nato come poeta a «nottetempo». Poi purtroppo non c’ero più e se lo sono lasciati sfuggire.

La velocità della posta elettronica al posto di quella cartacea e gli agenti che decidono invece degli editori riducono la qualità della letteratura?

Sono uno svantaggio per la qualità e un vantaggio per la funzionalità. In Bompiani si leggevano i cataloghi, si scriveva una lettera, la risposta arrivava dopo 15 giorni e avevi un’opzione di due mesi. Dopodiché facevi un’offerta. Nel 2002, quando è nata «nottetempo», tutto era diventato fulmineo. Facevi la tua richiesta di lettura, ti rispondevano in cinque minuti e passavi la notte sul libro. Se la mattina dopo presentavi la prima offerta eri fregato perché partiva l’asta.

Con gli agenti letterari cos’è cambiato?

Nel 2002 andai alla Fiera di Londra, memore di quella di Francoforte degli anni Sessanta. Dopo aver cercato invano gli editori, ho capito che dovevo salire al piano di sopra. Dove non c’erano libri, ma tanti tavolini con una bandierina ai quali si incontrava un agente che, se non aveva già venduto il libro, ti dava la possibilità di acquistarlo offrendo più dei concorrenti. Tutto senza leggerlo. Il rapporto affettivo e intellettuale che aveva mio padre con i suoi autori era preistoria. Con chi aveva un agente nasceva un ménage à trois. Come editore l’ho sofferto, ora come autore me lo godo.

Qual è stata l’originalità di «nottetempo»?

Nel 2002 mi ricordai di una conversazione con mio padre che, dopo aver ceduto la Bompiani, voleva creare una nuova casa editrice, ma non sapeva se farla per i giovani o per i vecchi. Ci pensai e decisi di farla per i sessantenni come me. Persone che leggono semisdraiate, magari di notte, senza tanta luce. Pensai a libri comodi, con caratteri grandi, margini ampi, libri leggibili e leggeri non nel senso della facilità, ma nel senso di Robert Louis Stevenson che, non a caso, fu il primo autore pubblicato. Anche nella saggistica, pubblicammo filosofi e scienziati che con una buona conoscenza dell’italiano si potevano capire.

Cosa pensa del fatto che con la pandemia si legge di più e che, secondo alcuni, Amazon favorisce i piccoli editori che faticano nella distribuzione?

Temo che siano miglioramenti provvisori. Con l’espansione di Amazon la dimensione vincente è il grandissimo, non il grande. Rizzoli, Mondadori e Giunti boccheggiano, progredisce solo Amazon. Insieme con i piccoli editori ci siamo battuti contro gli sconti librari che la sinistra pensava o fingeva di pensare fossero a favore del popolo dei lettori. Invece favorivano solo le grandi catene editoriali, perché gli editori e le piccole librerie indipendenti non potevano farcela a prezzi ribassati.

Come per gli scrittori, mi dica il nome di un editore che le piace.

Tra i tanti che lavorano bene citerei Iperborea, nata dall’idea di Emilia Lodigiani che ha pensato di pubblicare la letteratura del nord e per farlo ha imparato le lingue scandinave. Dopo di lei suo figlio: hanno scoperto e portato in Italia una letteratura che era sconosciuta.

Invece con il Manifesto che non pubblica più né Agamben né lei per le posizioni sul Covid ha litigato.

E me ne duole perché era un rapporto che durava da tanto tempo. Il Manifesto era considerata la casa editrice di sinistra. È stata una grande delusione vedere che di fronte al Covid si è appecoronato esattamente come tutti gli altri giornali e se c’è qualche eccezione non è lui, ma il Domani o magari Avvenire.

Avrei in mente anche un’altra testata.

Parlo dei giornali di sinistra, anche se forse non c’è più. Mentre la destra c’è, ma io non la amo per niente.

Nel libro scrive che viviamo in una «imitazione di dittatura che fa contrapporre ai cori sui balconi la diffidenza a tu per tu e una rabbia ottimista».

È stato instaurato il monopensiero e tutti si sono adattati. Salvo un esiguo numero di persone, grandi filosofi, scienziati e medici premi Nobel, che vengono trattati come mentecatti perché non si allineano. Il monopensiero si adopera alla creazione del nemico, quel disgraziato che non si vuole vaccinare. Sono vaccinata e qualcuno cerco di convincerlo perché non si condanni alla non vita alla quale costringono chi non possiede il green pass. Senza il quale ora non si può più neanche entrare sotto gli archi della Stazione Termini.

Cosa vuol dire che guariremo della malattia, ma non della cura?

A parte che bisogna vedere se guariremo… La virologa Maria Rita Gismondo diceva pochi giorni fa che se una persona si ammala e non vuole andare in ospedale deve morire a casa perché non può procurarsi le medicine. Pensare di non curare i no vax giustifica il confronto con il nazismo.

Cosa significa, come scrive, che «pensare è diventato sinonimo di negare: negare la verità comune, consensuale e consentita. Negare la fiducia alle disposizioni rinfuse diventa subito negare l’esistenza della malattia»?

È chiaro che la malattia c’è e le epidemie sono pericolose, non solo perché fanno ammalare e morire le persone. La spagnola durò dal 1918 al 1922: ricordiamoci cosa successe nel 1922 in Italia e in Russia e quando datano i primi tentativi di Hitler in Germania. Lo spavento dell’epidemia e la ricerca di una gestione autoritaria generarono le dittature. Perciò facciamo attenzione ai troppi unanimismi.

Che cos’è la penultima illusione?

L’ultima dovrei raccontarla dopo morta. Qualunque illusione è penultima perché ha davanti a sé una possibile caduta e una possibile nuova illusione. Mi illudo su ciò che faccio, che non è mai così fantastico come avrei voluto. Ma: sempre meglio qualcosa che niente.

 

Panorama, 26 gennaio 2022

Sgarbi: «Ma l’Europa è vivace e propositiva»

Elisabetta Sgarbi è regista e scrittrice, ma soprattutto editrice. Dopo essere stata per anni direttrice editoriale di Bompiani, a fine 2015, dopo l’annuncio della vendita di Rcs libri ha fondato con altri autori La Nave di Teseo.

Elisabetta Sgarbi ha lasciato Bompiani e fondato La Nave di Teseo

Elisabetta Sgarbi ha lasciato Bompiani e fondato La Nave di Teseo

Elisabetta Sgarbi, che cosa pensa del servizio di acquisti online di Amazon? Perché in questo caso si vedono solo i lati positivi della globalizzazione?

«Ne penso benissimo, sono cliente di Amazon di Ibs e delle librerie tradizionali. Lo sono in veste di autore, editore, lettrice. Proprio per questo conosco bene i punti di forza dell’e-commerce: senza entrare negli aspetti più tecnici, basta pensare alla disponibilità di una piattaforma logistica comune a diversi paesi, e l’accesso a una vetrina virtuale di milioni di clienti. Le librerie online hanno un catalogo infinito e sono aperte 24 ore su 24, le librerie di quartiere hanno un assortimento più personale e forniscono il supporto del libraio, che è una figura insostituibile. Per questo credo fermamente che i due canali non siano alternativi, ma complementari, perché offrono servizi e opportunità diversi, e un buon lettore ha bisogno di entrambi».

Di fronte alla forza dei grandi marchi digitali non sono un po’ anacronistiche le nostre diatribe interne sulle fusioni editoriali?

«Non penso. Sono discussioni mosse da principi importanti, per entrambe le parti».

Perché in Europa non nasce e non si afferma un Bill Gates o un Mark Zuckerberg? Siamo limitati dal punto di vista del talento o della legislazione?

«Abbiamo avuto tanti Gates e Zuckerberg. Pensi ad Alberto Mantovani e a quello che il suo gruppo di ricerca ha fatto».

L’Europa sembra aver culturalmente abdicato. Si può dire che sia in atto una sorta di colonizzazione al contrario?

«Mi sembra una semplificazione. La situazione non è esattamente così, anzi, vedo in Europa i segni di una grande vivacità intellettuale. Non sono io a dirlo, ma citerò due autori pubblicati dalla Nave di Teseo. Nicola Porro, nel suo libro La disuguaglianza fa bene, ricorda il fondamentale contributo dato al pensiero economico dagli studiosi europei: dalla Scuola di Francoforte, agli austriaci, ai ricercatori italiani. L’ex ministro delle finanze greco Yanis Vaorufakis, di cui pubblicheremo il 27 ottobre il nuovo atteso libro, che pure è molto critico nei confronti delle istituzioni europee, è altrettanto fermo nel segnalare i pericoli di inseguire ciecamente le politiche economiche americane, rivalutando un’alternativa europea».

La Verità, 1 ottobre 2016

Concentrazioni contro spacchettamenti, vince l’America

Spacchettamento: è uno dei vocaboli più alla moda nel milieu culturale di tendenza nel nostro Paese. Si contrappone al termine nemico: posizione dominante. O all’altra parolona tabù: concentrazione. Vade retro. Antitrust e authority vigilano, accigliate. Guai a favorire posizioni dominanti, concentrazioni, accorpamenti editoriali. Ordunque, in questi giorni si è realizzato l’auspicato spacchettamento: nella fusione in atto tra Mondadori e Rizzoli è stata scorporata la Bompiani che non poteva confluire anch’essa nella casa di Segrate. Ceduta alla Giunti per 16,5 milioni e quasi tutti contenti. Com’è noto, nel frattempo, Elisabetta Sgarbi ha ulteriormente spacchettato, creando La Nave di Teseo, portandosi dietro buona parte degli autori. Anche Marsilio è uscita dalla concentrazione ed è rimasta ai suoi fondatori, la famiglia De Michelis. Il caso di Bompiani, però, è particolarmente significativo perché sul marchio aveva allungato le sue mire nientemeno che Amazon. Invece, spacchettamento è compiuto e almeno il pericolo di vedere una sigla tra le più prestigiose della narrativa confluire sotto l’ombrello del gigante del web è scongiurato. Sarebbe stata una beffa se la preoccupazione di evitare concentrazioni domestiche ne avesse favorita una internazionale a scàpito della nostra storia.

Il logo della casa editrice Bompiani, spacchettata dalla fusione tra Mondadori e Rizzoli per decisione dell'Antitrust

Il logo dell’editrice Bompiani, spacchettata dalla fusione Mondadori-Rizzoli per decisione dell’Antitrust

Perché, ormai, il rischio ricorrente è questo. Mentre noi spacchettiamo, i colossi digitali inglobano, assorbono, acquisiscono. Si allargano a tutti i settori, moltiplicano le piattaforme, estendono i territori del business. Per stare alle ultime manovre, Google sta provando a mettere le mani su Twitter, mentre Apple ha appena annunciato l’interesse per la McLaren, storica casa britannica produttrice di prototipi da competizione, ritenuta utile all’avanzamento del progetto di auto senza pilota. Qualche tempo fa, invece, il colosso di Cupertino aveva mosso i primi passi sul fronte televisivo, per la produzione di nuove serie, nell’intenzione dichiarata di far concorrenza alla solita Amazon che sul terreno della fiction era già sbarcata nel 2014.

La faccenda che fa pensare è la seguente. Queste notizie sono quasi universalmente accompagnate da «ooohhh» estasiati, da esclamazioni di meraviglia. I brand della new technology fanno moda, tendenza, contemporaneità. E, dunque, tutto ciò che viene da lì o passa da lì è, per definizione, bello, positivo, cool. Tra qualche giorno a Napoli Lisa Jackson, vice presidente Apple, inaugurerà il centro europeo per lo sviluppo delle app della Mela e, ovviamente, avrà al suo fianco il ministro per l’Università Stefania Giannini. Le cronache che annunciano l’evento trasudano enfasi. Per non parlare della fibrillazione che circonda la prossima visita a sorpresa, dopo quella del gennaio scorso, di Tim Cook, invece assente all’inaugurazione di cui sopra.

Un magazzino Amazon, marchio leader di e-commerce interessato a Bompiani

Un magazzino Amazon, marchio leader di e-commerce interessato a Bompiani

I guru dell’high-tech sono ormai di casa in Europa e in Italia, in particolare. Tutti ricordiamo l’accoglienza regale che ha accompagnato a fine agosto la visita di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, ricevuto anche da papa Francesco. Qui non si tratta di disconoscere i vantaggi e l’enorme miglioramento della qualità della nostra vita determinato dalle innovazioni introdotte dall’era digitale. Né, tantomeno, al netto del rispetto delle leggi fiscali (la Ue ha appena chiesto ad Apple il rimborso di 13 miliardi di tasse non versate per accordi illegali con il governo irlandese), di frenare l’onda anomala della globalizzazione trincerandosi dietro antistorici protezionismi. O di ostacolare lo scambio d’informazioni e di know how tra le sponde dell’Atlantico. Il problema, semmai, è che più che di scambio, dobbiamo parlare di flusso a senso unico, ovvero dagli States all’Europa e non viceversa. Facendola breve, perché in Europa e in Italia non si affermano guru delle tecnologie digitali? Perché, nonostante gli scopritori del web fossero un belga e un britannico e, dunque, all’origine di questa soria ci fosse il Vecchio Continente, Bill Gates, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e Larry Page tanto per citare i soliti nomi, sono tutti americani? Perché un marchio come Nokia, che fino a qualche anno fa era tra i leader mondiali della telefonia, è desaparecido tra nuvole molto poco tecnologiche? Domande, solo per capire, e senza risposte preconfezionate. A naso, però, vien da dire che il ritardo europeo in materia non sia principalmente dovuto a limiti intellettuali o di talento creativo. Forse, la questione è più complessa. E potrebbe aver a che fare con l’assetto legislativo del Vecchio Continente. Con le sue griglie amministrative, gli antitrust e le authority che, a differenza dell’economia digitale d’Oltreoceano, vedono come tabù le joint venture e le fusioni editoriali, rendendoci inevitabilmente più lenti nei movimenti e più scettici rispetto alla possibilità di affermare un’idea, realizzare un progetto, lanciare una app. Così, non resta che rassegnarci e accogliere i Ceo di Apple e di Facebook come nuovi messia. E mentre sui giornali scriviamo la nostra avversione alle concentrazioni e teorizziamo gli spacchettamenti editoriali, con l’iphone ordiniamo su Amazon l’ultimo romanzo di Jonhatan Franzen o la biografia di Zuckerberg.

La Verità, 1 ottobre 2016