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La squadra che colorò di terra rossa gli anni ’70

È una notevole sorpresa che 46 anni dopo emergano tante curiosità e aneddoti e retroscena dalla memoria dell’unica Coppa Davis vinta nella Santiago del Cile del dittatore Augusto Pinochet. È noto che fu disputata superando le feroci polemiche della vigilia, ottenendo la liberazione di alcuni prigionieri politici, discutendo se danneggiava di più il dittatore il blocco delle esportazioni Fiat o della trasferta della nazionale di tennis. Chi c’era allora ricorda anche il Pci, già partito della fermezza e deciso a imporre il diktat dei migliori anche nel tempio della racchetta, sostenuto perfino da Domenico Modugno che canta contro la frenesia per l’insalatiera e Paolo Bertolucci che, solitamente serafico, si preoccupa: se ci si mette pure lui è finita. Alcune vicende si ricordano, ma Una squadra, la docuserie ideata scritta e diretta da Domenico Procacci, prodotta da Fandango, Sky e Luce Cinecittà (in onda sulla non visibilissima Sky Documentaries) è ugualmente un piccolo grande capolavoro. Una sceneggiatura naturale che l’intero nostro cinema stenta a produrre in anni di sforzi e impegno. Un film ricco di pregi. Il primo è raccontare un’epoca, i controversi Settanta, nella visuale parallela dello sport. È un’alternativa di sentimenti, di priorità e di traguardi rispetto alla memoria ufficiale quella che snocciolano i protagonisti, ottimi narratori, più generosi per indole e abitudine Adriano Panatta e Paolo Bertolucci di Corrado Barazzutti, Tonino Zugarelli e Nicola Pietrangeli, ma tutti ben disposti a ricordare e svelare particolari inediti dell’epopea. Ma è anche una strabiliante differenza cromatica a emergere dagli spezzoni degli archivi, nelle tinte degli anni di piombo, del bianco e nero dei telegiornali prima dell’avvento della tv a colori nel febbraio 1977, appena un mese dopo quella storica impresa. Così, nella ricostruzione dei filmati, il rosso della terra di quelle vittorie (e sconfitte) esplode nella sua brillantezza, diffondendo un sentore di alterità e ribellione al grigiore dell’ideologia imperante. La trasferta nel Sudafrica dell’apartheid per la semifinale persa del 1974 – allora, curiosamente nessuno protestò – con la scoperta che la camera dell’hotel non aveva la televisione perché non c’era in tutto il Paese, per evitare che i neri s’informassero e continuassero a restare segregati. O la storia di un’altra amara sconfitta nella finale in Cecoslovacchia del 1980, disputata tra le manifestazioni e i pugni chiusi e con arbitri che favorirono la squadra della nazione ospitante.

Chi ha avuto vent’anni in quel decennio deve evitare la trappola della nostalgia e del confronto con i sogni e le promesse di allora, di com’è andata e di come siamo oggi, anche tennisticamente parlando. Un altro dei pregi della serie è rammentarci che quella nazionale era composta dal numero 4, 7, 12 e 24 del mondo (nell’ordine, Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli): classifiche che neppure oggi, in una delle nostre migliori stagioni, possiamo vantare. E che, sempre loro, in cinque anni arrivarono quattro volte a disputarsi la famosa insalatiera.

Nessun Eden però, nessun idillio o magica armonia avvolge lo spogliatoio, attraversato invece da rivalità, mutismi, attriti. Anche di Panatta con Pietrangeli, il campione dal quale eredita il testimone, e che la prima volta che lo vede giocare gli fa: «A regazzì, guarda che la palla corta l’ho inventata io». Battibeccheranno diverse altre volte sebbene Pietrangeli venga accolto come un salvatore dopo la gestione di Orlando Sirola che, come condizione per convocarlo, chiede a Panatta di tagliarsi i capelli. Figurarsi: niente Davis. Sei sicuro?, gli chiede suo padre. «Sì, gioco a tennis con i capelli o con la racchetta?». «E quindi, niente Davis?». «No, niente… Mio padre era uno che faceva le pause e pesava le parole. Dopo un po’ disse: “E se te lo chiedo io?”. Se me lo chiedi tu, va bene».

In realtà, il quartetto è composto da «una doppia coppia». «Io e Corrado, finito di allenarci, andavamo a casa, in famiglia» (Zugarelli), «Si erano sposati a ventun anni, peggio per loro» (Panatta). Erano stili e filosofie di vita opposte. Dopo un torneo di esibizione in Argentina, si deve tornare in Italia. Corrado sceglie un volo di linea, Panatta e Bertolucci passano da Parigi a salutare delle amiche e scialacquano il lauto premio per i biglietti del Concorde che però parte da Rio de Janeiro, giusto il tempo di rinforzare l’abbronzatura a Copacabana. Paolo e Adriano vivono insieme come Sandra e Raimondo, uno è lo chef l’altro rassetta. Invece, sul campo Paolo prepara il punto e Adriano lo chiude, prendendosi gli elogi del pubblico meno competente. Quando Panatta eccede con il suo egocentrismo, Bertolucci gli oppone un distacco che lo manda in tilt. Come durante una finale a Buenos Aires contro Guillermo Vilas, in uno stadio tutto per l’argentino, quando Paolo, l’unico che può sostenerlo, si becca gli insulti dell’amico che lo coglie distratto.

La sceneggiatura naturale è la storia dei viveur campioni. Criticato dal pubblico per quanto avrebbe potuto dare se si fosse concentrato sullo sport, Adriano prende il centro del film. Una sera è al cinema seduto vicino a Loredana Bertè in minigonna inguinale e ginocchia piantate sullo schienale della poltrona davanti. Si accendono le luci dopo il primo tempo e dalla galleria si alza una voce: «A Panà, e grazie ar cazzo che non vinci mai». Invece, si sposa e comincia a vincere. Agli Internazionali di Roma batte il solito Vilas («Salvare al primo turno 11 match point per l’avversario e poi vincere il torneo non so se capiterà ancora»), mentre tra un set e l’altro Gianni Minà lo interroga su tattica e stato emotivo. A seguire conquista Parigi dopo aver sconfitto Bjorn Borg. La mattina della finale, però, in spogliatoio non si trovano le scarpe. Mancano poche ore all’inizio del match e in Francia non vendono le Superga. Telefonata all’amico di Roma, apertura del negozio, corsa a Fiumicino, consegna delle scarpe al caposcalo che le passa a un pilota in partenza… Alla fine, dopo un’altra sbruffonata, Panatta sconfigge Harold Solomon e sale al numero 4 della classifica mondiale. «Il giorno dopo», confida, «avevo una strana malinconia, perché l’appagamento dura poco e si pensa subito a un nuovo traguardo». Nel dicembre di quell’anno si va a Santiago del Cile… Panatta convince Bertolucci a indossare le magliette rosse per mandare un segnale. Vincono e tornano in Italia, ma dopo le feroci polemiche l’accoglienza è tiepida. Ricorda Barazzutti: «Sembrava avessimo sparato al gatto invece di aver vinto una Coppa Davis».

 

La Verità, 18 maggio 2022

«Contro la noia insegnerò il tennis di Federer»

Ripartire dalla provincia. Anche se si è uomini di mondo. Anzi, forse proprio per questo. Adriano Panatta ha girato il pianeta, è conosciuto e stimato ovunque. Eppure ha voglia di ricominciare da un maxicentro sportivo a Treviso, dove vive da qualche anno con la sua compagna, l’avvocato Anna Bonamigo. Il suo progetto imprenditoriale è decollato con l’asta pubblica nella quale ha rilevato il vecchio Tennis club di Bepi Zambon, pianificando un investimento di 3 milioni per il suo rilancio insieme con l’amico Philippe Donnet, Ceo del Gruppo Generali. E siccome, perdonate la nota personale, sono originario di Treviso e Bepi Zambon è stato il mio maestro di tennis, incontrare ora Panatta, idolo di gioventù, è chiudere un cerchio.

Dunque, si ricomincia a 69 anni?

«Inizio un’attività imprenditoriale che per tanti anni non ho preso in considerazione: avere una struttura sportiva e dirigerla. Da qualche tempo vivo a Treviso e questo è un modo per radicarmi di più nel territorio».

Lo chiamerà Tennis pof pof, dal celebre cameo nel film La profezia dell’armadillo?

(Ride) «No… ci sto pensando. Ho ancora un po’ di tempo per scegliere il nome».

Qual è stata la molla di questa decisione?

«Desideravo un’attività più stanziale, per non essere sempre in giro. Viene il momento in cui si ha voglia di fermarsi. A me piace molto lavorare e con gli anni alcune attività sono cambiate. Ma mi sento pieno di energie e ho trovato come partner una persona che mi tranquillizza in tutti i sensi. Philippe Donnet, Ceo mondiale del Gruppo Generali, è un grande amico, gli ho raccontato il mio progetto e la sua risposta è stata: “Se lo vuoi fare sto con te”. È stata la molla decisiva».

L’occasione è venuta dall’asta del vecchio Tennis Zambon.

«È andata deserta quattro volte. Bepi Zambon lo conosco dalla fine degli anni Settanta, quando organizzò l’esibizione con Borg al Palaverde. Un paio d’anni fa mi aveva detto: “C’è il mio circolo da rilanciare, facciamo una cordata”. Ma in quel momento avevo altri interessi. Poi ho visto che è una struttura che, con adeguati investimenti, può diventare molto bella».

Sarà un circolo nel quale insegnerà il tennis di una volta: stanco del troppo agonismo e della poca armonia che si vedono oggi?

«Stanco di una certa esasperazione. Non approvo l’insegnamento ai bambini concepito in modo estremo, parlo di impugnature e impostazione tecnica. Un conto sono i professionisti, un altro i ragazzini. La mia idea è promuovere il tennis classico, non vecchio di mezzo secolo. Più Federer e meno Nadal. Oggi il gioco è improntato sulle grandi rotazioni, solo se uno è forte fisicamente e mentalmente può andare avanti. Ma chi ha imparato e praticato il tennis così esasperato, molto spesso con l’avanzare dell’età, smette».

Mentre il tennis più classico è compatibile anche con over 50 e 60?

«Ho tanti amici che giocavano con me a livello di club e, anche se non hanno fatto la mia carriera, ancora oggi si divertono e non fanno solo fatica. Questo è il concetto. Le scuole di tennis vengono concepite come fabbriche di campioni, ma ne nasce uno ogni morte di Papa. I genitori li iscrivono perché pratichino uno sport e si divertano. Poi, certo, se si vedono doti di un certo tipo, allora si può e si deve intervenire in modo più specifico».

È vero che vieterà il rovescio a due mani?

«Nessun divieto. Certo, io preferisco quello a una mano. E, se devo dirla tutta, mi pare che nel circuito i rovesci migliori siano quelli di Stan Wavrinka, Richard Gasquet, Grigor Dimitrov e ovviamente Federer. Ma se ci sarà qualche ragazzino che non riesce a portarlo, gli insegneremo tranquillamente il rovescio a due mani».

Allevare dei campioni non sarà il suo obiettivo?

«Non principalmente. Vorrei che questo circolo diventasse una casa dello sport per le famiglie, per i quarantenni e cinquantenni, per le donne. Ci saranno i campi da tennis, ma anche di paddle, una grande piscina, il centro benessere, la palestra, un ristorante vero, una club house molto accogliente dove ritrovarsi con gli amici, per incontri di lavoro o semplicemente per trascorrerci una giornata».

Il circolo tradizionale è adatto ai ritmi della società contemporanea? Nelle grandi città si prenota il campo con le app, si va, si gioca, ci si fa la doccia e saluti…

«A lei piace? A me no. Io penso a un posto dove ci si possa rilassare e interrompere quella velocità. Mentre i figli frequentano i corsi, le mamme potranno fare pilates, andare al centro estetico, bere un caffè e leggere il giornale…».

Avrete anche attenzione all’aspetto educativo dello sport?

«Quello spetta innanzitutto ai genitori e alla scuola. Nel nostro piccolo faremo capire ai genitori e ai nonni che i ragazzini di 10 o 12 anni che cominciano a giocare benino non devono subito pensare alla prestazione e a diventare campioni. Intanto è importante praticare un’attività fisica e divertirsi, prima di crearsi false illusioni e inseguire la chimera del professionismo. Perché il 99% non diventano campioni, ma ingegneri, imprenditori, professori; e non c’è niente di male, anzi».

Una cittadina come Treviso è il posto giusto per un circolo tradizionale?

«Spero di sì».

Non le sta stretta?

«Per niente».

Roma non le manca per merito dell’amministrazione Raggi?

«Non mi manca perché ci vado quasi tutte le settimane. Certo, mi spiace vederla sporca, con le buche, in preda alla confusione del traffico. Con l’età non si ha più voglia, si è meno tolleranti… Per Roma nutro un amore sconfinato, è talmente bella che ti fa dimenticare il peggio, ma non sempre. Stamattina sono uscito per andare in un ufficio pubblico, ho trovato persone gentili e in mezz’ora ero di ritorno. Avessi dovuto andare all’Eur sarebbe servita mezza giornata».

Il tennis è lo sport individuale più complesso, drammatico e totalizzante che esista?

«È l’unico sport nel quale sei totalmente solo perché non c’è l’allenatore in campo. Te la devi sbrigare, devi trovare le soluzioni, venir fuori da situazioni complesse. Sai quando cominci, ma non quando finisci, fino all’ultima palla può succedere di tutto, anche se stai sotto 6-0 5-0. Ci sono la tensione, la tenuta nervosa… Ho visto tanti ragazzini giocare benissimo, ma non riuscire a sfondare perché non abbastanza solidi mentalmente».

Oggi per eccellere servono più doti temperamentali che ai suoi tempi?

«Sul piano del talento non credo che le cose siano cambiate molto. I giocatori sono alti due metri e tirano il servizio a 240 all’ora anche con l’aiuto dei nuovi attrezzi. Noi avevamo le racchette di legno, adesso con quelle nuove fanno a cazzotti. Se guardo Federer mi diverto, con altri meno, lo scambio dura finché uno dei due sbaglia. Essendo la palla più veloce, si ha meno tempo per pensare e si va d’istinto».

L’Italia ha due giocatori a ridosso della top ten come Fabio Fognini e Matteo Berrettini.

«A Fognini mancano un po’ di servizio e di tenuta mentale. Se sei in difficoltà, ma hai un servizio potente puoi venirne fuori. Su come gioca bene a tennis nessuno può dirgli niente, ha una mano eccelsa».

Berrettini?

«Ha cominciato da un anno a essere un giocatore forte, diamogli un po’ di tempo. Ma ha tante doti, solidità mentale, sta bene in campo, è un giocatore moderno di due metri e con un gran dritto, è un ragazzo educato. Infine, Vincenzo Santopadre, il suo allenatore, sa come si fa».

Se Fognini avesse maggiore solidità mentale sarebbe ai primissimi posti mondiali?

«Chi gioca di talento esprime un tennis difficile per cui la tenuta mentale è più importante rispetto a un giocatore potente. Fognini deve inventare tennis a ogni colpo. È un po’ quello che accadeva a me con Borg, per dare il massimo devi stare bene con la testa. Chi gioca sul ritmo e sulla regolarità ha un copione magari eccelso, ma più limitato. Non deve fare un ricamo ogni volta. Se mi passa il paragone, è la stessa differenza che c’è tra un programmatore informatico e un art director».

Le passo il paragone ma le faccio una provocazione.

«Facci pure, come diceva il grande Paolo Villaggio».

Questo circolo con il tennis classico è una cosa nostalgica e un po’ vintage?

«No, assolutamente. È una scelta da imprenditore in un campo che credo di conoscere bene perché ci sono nato. E, dal punto di vista affettivo, mi consente di stabilirmi a Treviso e di stare un po’ di più a casa con la mia compagna».

Perché ha scartato l’idea di una scuola competitiva che allevi ragazzi vincenti?

«Perché non m’interessa».

Perché per lei la vittoria non è mai stata tutto?

«Questo è vero, non era tutto. Ma il vero motivo è che voglio creare un posto dove stiano bene anche gli adulti, senza troppi stress. E dove chi gioca a tennis abbia voglia di migliorarsi, ma senza paranoie. Gli adulti vorrebbero migliorare, ma poi col maestro si accontentano di palleggiare. Per esempio, nel golf non è così. Vorrei che anche chi ha cinquant’anni avesse ancora lo stimolo a imparare per battere il collega di lavoro. Mi piacerebbe che le persone arrivassero al circolo con il sorriso perché sanno di entrare in un posto accogliente e ne uscissero con un sorriso ancora più grande. Questa è la mia unica missione. Se poi ci sarà un ragazzino particolarmente dotato, credo che me ne accorgerò e a quel punto vedremo cosa fare».

La vittoria non era tutto perché privilegiava i gesti bianchi o perché anche la conquista di uno slam non la appagava pienamente?

«Quand’ero in campo la vittoria era tutto. Infatti, dicevano che non sorridevo mai, ero “il Cristo dei Parioli”. Nessuno mi ha mai accusato di non lottare. Ma poi, quando avevo vinto, mi dicevo: beh, che avrò fatto mai?».

Ha avuto successo mondiale, popolarità, belle donne, è stato anche campione di motonautica: che cosa le manca per sconfiggere la noia?

«Sconfiggerla del tutto è impossibile. È la cosa che mi fa più paura. Questa nuova avventura è uno stimolo, c’è da pensare all’azienda. Va bene così».

 

La Verità, 20 ottobre 2019

 

Perché la rivalità tra i Big Three resterà irripetibile

«La partita del secolo». «La battaglia degli dei». «La finale più lunga della storia». «La prima finale in cui il vincitore annulla due match point all’avversario», il divino Roger Federer. Novak Djokovic stava ancora masticando l’erba del centrale di Wimbledon per fermare la fuga dell’attimo vincente quando il suo caro amico Fiorello aveva già twittato con abbondanza di punti esclamativi: «Contro tutti! Contro @rogerfederer, contro il pubblico, contro l’Inghilterra, e anche contro Godzilla! Grandissimo @DjokerNole! #Wimbledon2019!».

Il giorno dopo, le definizioni sembrano iperboli e invece no. Si discute appassionatamente se siamo dalle parti della storia o già nella leggenda. Si rincorrono i paragoni con altre memorabili finali, sempre sul verde dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, tempio e tradizione: Borg-McEnroe del 1980 e Nadal-Federer del 2008.

Gli appassionati si dividono a colpi di statistiche e numeri. E, giusto per dare un assaggio di quanto la faccenda non sia capziosa ma difficilmente dirimibile, basta dire che domenica ha vinto il giocatore che ha fatto meno punti (213 contro i 218 del campione svizzero) e meno colpi vincenti (54 contro 94, addirittura 40 in meno).

Il tennis è questo: sport matematico e misterioso al contempo. In cui i punti non sono tutti uguali e uno non vale uno. Vince chi gioca meglio quelli determinanti. Nei suoi due match point Federer ha allargato un dritto in corridoio ed è sceso precipitosamente a rete dietro un attacco corto, tradito a un centimetro dal trionfo da un pizzico di emozione. Così ha vinto «l’intruso», il terzo incomodo nella rivalità classica tra Roger e Rafa, «il primo del torneo degli altri». Così si è scritto. Sebbene Novak sia da parecchio tempo il numero uno (4 degli ultimi 5 slam vinti) e nel computo degli scontri diretti svetti sia contro Federer (26 a 22) che contro Nadal (28 a 26), con superiorità ancora più evidenti dal 2011, anno della consacrazione definitiva, in poi.

Oltre le preferenze e le tifoserie, conta riconoscere la fortuna di poter assistere all’epoca più bella ed entusiasmante del tennis (forse tra le più gratificanti dello sport in generale). Più dell’era della leggendaria rivalità tra l’orso svedese Bjorn Borg e il funambolo ribelle John McEnroe. Più della stagione dei duelli fra l’elegante Stefan Edberg e il bombardiere Boris Becker. Più del confronto tra le diverse filosofie di gioco del sublime attaccante Pete Sampras e l’indomito ribattitore Andre Agassi. Quella di cui oggi abbiamo il privilegio di godere è la rivalità tra i Big Three. Duri a morire nonostante l’età non più verdissima, a dispetto dell’erba che calcano elegantemente. La Next Gen è pregata di accomodarsi in sala d’attesa. La scena è occupata da questo inesauribile confronto a tre facce. Fatto di sorpassi e risorpassi. In cui, sebbene l’estetica si è pronunciata con evidenza in favore di uno di loro, risulta sempre difficile decretare chi sia davvero il più forte, il più vincente.

Quando Federer esegue una volée un’eleganza angelica lo accompagna e non a caso si osserva che «così si gioca in Paradiso». Ma il talento e le doti naturali non si esprimono solo con gesti bianchi, la varietà e la fantasia inesauribile dei colpi. Anche la disponibilità a lottare, la capacità di resistere e non arrendersi sono talenti cui dar merito. Nadal basa il suo agonismo principalmente sullo strapotere atletico e fisico. Quello di Djokovic, quasi un Borg 2.0, probabilmente coltivato fin da bambino quando, durante la guerra del Kosovo, si allenava con Jelena Gencic sui campi di Belgrado appena bombardati, è un agonismo più mentale. Tre campioni con temperamenti e filosofie diverse. È una fortuna assistere alla loro rivalità, così ricca di contenuti e di nobile sportività.

Deglutiti i fili d’erba del centrale, Djokovic ha indicato il cielo che gli ha consentito di realizzare il suo sogno. Federer ha risposto all’intervistatrice che sottolineava quanto a lungo verrà ricordato il match appena concluso che lui, invece, spera di «dimenticarlo presto». Lezioni di umiltà e di distacco che andrebbero prese e trapiantate anche in altri campi.

La Verità, 16 luglio 2019