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Eugenio Borgna, grande psichiatra e anima gentile

È morto lo psichiatra Eugenio Borgna. Aveva 94 anni, viveva a Borgomanero, in provincia di Novara, dov’era nato nel 1930. Oltre a essere una delle autorità indiscusse della psichiatria italiana e internazionale, Borgna era una persona di enorme sensibilità d’animo. Umile, disposto all’ascolto, capace di farti sentire importante. Mancherà a tutti coloro che hanno a cuore la ricerca del bello e del vero. Di seguito ripubblico l’ultima intervista che ebbi il privilegio di fargli nel marzo del 2020 (nel sito se ne trova un’altra del 2017) a pandemia appena scoppiata.

«Che situazione». In due parole il professor Eugenio Borgna condensa stupore, tenerezza, partecipazione al dramma che stiamo vivendo. Lo si avverte nella vibrazione della voce. Nella preoccupazione paterna. Psichiatra e primario emerito di Psichiatria all’ospedale di Novara, nonché libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali all’università di Milano, prossimo ai novanta, Borgna mi ha sempre colpito per la sua profondità. L’ho intervistato altre volte. Una, nella casa di Novara, dove accettò di vedermi con brevissimo preavviso, spostando altri appuntamenti. Un’altra a Borgomanero, nella «casa dal grande giardino», come la descrive nell’autobiografia Il fiume della vita (Feltrinelli), l’abitazione storica, dove avremmo dovuto incontrarci anche stavolta, se le direttive del governo non l’avessero sconsigliato. È a persone come lui che ci si rivolge in momenti come questi.

Qual è il primo sentimento che le provoca questa situazione?

È un sentimento legato al fatto che non conosciamo ciò che sta avvenendo. Un moto dell’anima che deriva dall’improvvisa immersione in una vita sconosciuta, causata dal virus portatore di conseguenze imprevedibili. È il confronto con l’ignoto. Camminavamo su autostrade rettilinee e senza ostacoli, ora ci troviamo in un percorso oscuro.

Le è mai capitato di vivere un momento paragonabile a questo?

Avevo 13 anni quando fummo costretti a lasciare questa casa per fuggire in montagna, inseguiti dai tedeschi che avevano minacciato di sequestrarci. Mia madre guidava il gruppo di sei figli, l’ultimo di un anno. Mio padre, che non aveva aderito al partito fascista, era entrato nella Resistenza. Fino a quel momento il sentiero dell’adolescenza mi appariva rettilineo. Improvvisamente, era divenuto buio e tortuoso. Non capivo cosa ci stesse opprimendo. I militari tedeschi erano un nemico oscuro. Tutto poteva concludersi da un momento all’altro. Infine, eravamo soli, perché aiutarci significava esporsi alle minacce dei tedeschi.

C’è analogia con la situazione di oggi?

L’analogia è nell’inconoscibilità delle circostanze. Oggi nulla sappiamo del coronavirus e nulla sapevamo allora di quel nemico comparso, scomparso, incombente. Sono entrambe esperienze d’incertezza profonda, relativamente a ciò che può accadere nelle ore successive. Anche allora, come oggi, fede e speranza si alleavano per offrirci la possibilità di un cammino più sereno. E anche allora le campane della chiesa suonavano per offrire un rifugio alla paura.

La paura è causata dall’avvento dell’ignoto?

È un sentimento ineliminabile. Se non lo avvertissimo saremmo dei robot. Pensare di non provare paura o ansia non è giusto e nemmeno umano. La paura ha un oggetto identificato anche se non lo controlliamo. La proviamo dinanzi a un’entità oscura come questo virus, al quale non sappiamo dare una fisionomia scientifica sufficientemente precisa.

Il sociologo Zygmunt Bauman scrive che la paura più terribile è quella «diffusa, sparsa, indistinta», determinata dalla «minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente». Come si convive con questa paura?

Va rimodulata in un contesto più ampio, anche grazie a un’attività interiore che riconosca le risorse di cui disponiamo. La principale delle quali è la speranza per la vita. Senza speranza la paura ci condurrebbe a reazioni psicologiche e psicosomatiche negative. Non si può cancellare la paura, ma con la ragione si può svuotarla dei suoi eccessi e ricondurla in una dimensione più tollerabile. Per esempio, abbiamo ragione di aver paura quando scaliamo una montagna. Ma la gestiamo entro limiti razionali.

Quando non ci si riesce sfocia in angoscia?

L’angoscia è di qualcosa che non si conosce, mentre la paura riconosce la sua causa anche se non sempre ne controlla le dinamiche. È una distinzione sottile. L’angoscia è dentro di noi, come il timore della morte che non sappiamo quando arriva.

Stiamo vivendo un tempo sospeso, in cui non possiamo e non dobbiamo uscire di casa, non possiamo e non dobbiamo stare in gruppo. È anche un tempo in cui si può rientrare in sé stessi?

Nella vita di tutti i giorni siamo ostaggi del presente, privi di memoria e di speranza. Tutti concentrati sul qui e ora. Questa situazione, paradossalmente, ci permette di perdere tempo e di acquistare tempo, per cogliere ciò che avviene dentro di noi, per esempio incontrando gli altri, chi ci aiuta a conoscere noi stessi. Una improvvisa tempesta ci fa comprendere quanto siamo fragili, invitandoci a guardare non solo al nostro piccolo o grande interesse personale, ma a riflettere sul senso della vita. Per cercare di capire la nostra indole profonda, quali sono le nostre speranze e le nostre attese che abitualmente vengono bruciate nell’impulso del tutto e subito.

Di colpo siamo ricchi di tempo?

Queste restrizioni ne cambiano la percezione. È la geniale intuizione di Sant’Agostino, che supera la circolarità di passato presente e futuro, convertendo il tempo dell’orologio nel tempo interiore. In cui in apparenza non facciamo nulla di concreto o immediatamente produttivo, ma in cui possiamo andare al fondo di noi stessi. Inoltrandoci in un sentiero nuovo, sconosciuto come gli effetti della pandemia, ma che ci porta a scoprire il risvolto interiore di ciò che siamo e facciamo.

Che cosa direbbe ai giovani che faticano a rinunciare alle loro abitudini e ad accettare l’isolamento?

Questa «metànoia», questa conversione, mi sembra più difficile negli adulti, nelle persone cristallizzate in un modello di comportamento fatto di lavoro, denaro, lusso. Ci vorranno sforzi inauditi. Mi pare che i giovani possiedano maggiore creatività, generosità e capacità di cogliere l’essenza delle cose. È una convinzione che traggo da tanti incontri con gli studenti nelle scuole superiori. Senza generalizzare, mi pare che spesso rovesciamo sui giovani responsabilità che sono nostre.

Prima che ci fosse l’ultima ordinanza del governo abbiamo visto le foto degli aperitivi affollati. Nei suoi saggi cita Blaise Pascal: «Togliete ai giovani il divertimento e li vedrete inaridirsi di noia».

È vero, ma le faccio due controrepliche. La prima: che responsabilità hanno le famiglie, i genitori, i fratelli maggiori? In che misura incidono su questi comportamenti? Quali attenzioni trasmettono, che parole usano? La seconda obiezione riguarda la comunicazione tardiva della gravità di ciò che stava accadendo. E qui c’entrano i politici e i media. All’inizio si è minimizzato, si sono fatti i paragoni con l’influenza…

Ancora Pascal: «Tutta la infelicità degli uomini viene da una sola cosa che è quella di non saper rimanere in riposo in una stanza». Come possiamo trarre il meglio da questa situazione?

Pascal descrive in modo cinematografico quello che abbiamo provato a dire parlando del tempo interiore. Lui parla del divertimento come distrazione dall’io profondo. Lo stordirsi nelle piazze e nei locali… Fermarci può essere una opportunità anche per il dialogo con gli altri, vincendo l’indifferenza che può bruciare i cuori senza che ce ne accorgiamo.

Questa situazione così drammatica può diventare paradossalmente un’opportunità di crescita?

Crescita è una parola da pronunciare con il cuore in gola quando ci sono persone che muoiono. Oggi siamo tutti un po’ più soli e la solitudine ci obbliga a conoscerci meglio. Dunque ci può aiutare a crescere, se sapremo cercare quel significato che, nelle giornate affannate, è sempre rimosso, dimenticato. In quelle giornate, la stanza di Pascal rimane sguarnita, anonima, senza porte e finestre. Ora possiamo riempirla di silenzio, di ascolto, di dialogo vero. Anche di preghiera, che i credenti possono recitare in sostituzione della messa che non viene celebrata. Di letture, facendosi guidare da Simone Weil, da Rainer Maria Rilke, da Teresa d’Avila che osserva che «coloro che Dio ama molto, li conduce per sentieri di angoscia».

Che libri sta leggendo o rileggendo?

Mi rifugio nelle poesie. Rileggo Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, lo Zibaldone e le pagine sulla malinconia, Carlo Maria Martini. Sto leggendo anche Guarire le malattie del cuore, bellissime meditazioni dell’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi.

Lei che è autore di Saggezza, nella collana Parole controtempo del Mulino, può dirci che cosa vuol dire essere saggi oggi?

Essere consapevoli dei propri limiti. Sapere ciò che possiamo raggiungere e ciò che non possiamo raggiungere. Significa non farci stordire dalle apparenze, cercando di cogliere la sostanza più vera della realtà. Infine, guardare alla speranza come alla stella del mattino. La speranza è anche una medicina. Perché fa sgorgare risorse interiori addormentate.

La percezione della nostra provvisorietà può essere una risorsa anche per il dopo?

Certo, perché ci aiuta a guardare ai nostri giorni, alla nostra quotidianità, muovendo dall’idea che siamo parte di una comunità di destini che lega chi è ricco e chi non lo è, chi è sano e chi è malato.

 

Panorama, 18 marzo 2020

Perché desideriamo vedere e ascoltare i vecchi

La guerra. Tutto ruota attorno a lei. O almeno al dopoguerra. Chi l’ha vissuto e chi no. Fa la differenza, oggi. Eccome, se la fa. Parlando dei componenti della classe dirigente attuale, intervistato dalla Verità, Peppino Caldarola, uomo di sinistra (74 anni), ha detto che non hanno vissuto «la guerra e il dopoguerra, non hanno visto il colera a Napoli e Bari, erano bambini durante il sequestro Moro, ragazzi durante il terremoto dell’Aquila». Appartengono a «una classe dirigente che, non per colpa sua, non si è confrontata con nessuno dei drammi italiani contemporanei». E che perciò è impreparata sia culturalmente che psicologicamente. Riflettendo sui cinquantenni, la generazione a cui appartiene, Antonio Scurati ha scritto sul Corriere della Sera: «Sono arrivati del tutto impreparati all’appuntamento con la loro storia… Il loro apprendistato alla vita è stato un lungo apprendistato all’irrealtà televisiva. Avevano vent’anni quando hanno assistito dal salotto di casa alla prima guerra in diretta televisiva della storia umana, trenta quando sono stati bersagliati attraverso gli schermi televisivi dal terrore mediatico, quaranta quando l’odissea dei dannati della terra è approdata alle spiagge delle loro vacanze… Hanno la casa al mare e il cellulare di ultima generazione… hanno avuto più cani che figli e adesso rischiano la vita per portare il loro barboncino a pisciare». Un’autocritica spietata, se vogliamo. Ma onesta.

È fuori di dubbio che i quarantenni e cinquantenni l’abbiano avuta facile. Più per merito dei padri che per demerito loro. Hanno trovato un Paese ricostruito, florido, moderno. Una civiltà, l’Occidente, mediamente ricca e proiettata verso un futuro radioso. Non è colpa loro. Adesso però sono, siamo, spiazzati. Mentre i vecchi lo sono meno. Ora che il gioco si fa duro – che a tutte le latitudini siamo accomunati dallo stesso destino e raramente l’abbiamo avvertito così insidioso – i duri sono loro. Gli ottantenni. Fateci caso. Papa Francesco (83), ha compiuto il gesto che resterà nella mente e nella storia di questa pandemia. Da solo, in quella piazza deserta, eppure affollata dal mondo intero. Un mondo disarmato, fragilissimo, impotente, tremebondo. Lui, in piedi, a elevare un’invocazione al Padreterno. Poi, fatte le debite proporzioni, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (79) che, riscattando alcune recenti latitanze, si è svegliato dal torpore per difendere il nostro Paese, e non le ha mandate a dire all’improvvida presidente della Bce Christine Lagarde esponendosi sul fronte europeo. Oppure il regista Pupi Avati (81), che ha preso carta e penna e ha scritto alla Rai per chiedere di ridimensionare il condizionamento del mondo pubblicitario e degli esami dell’auditel e stravolgere i palinsesti per favorire una crescita culturale anche delle giovani generazioni, programmando film classici, concerti, documentari e biografie dei nostri grandi artisti. Un’iniziativa che ha subito raccolto Renzo Arbore (82), un grandissimo vecchio della nostra tv. L’elenco potrebbe continuare con i tanti vecchi autorevoli che i giornali intervistano in questi giorni. Come Eugenio Borgna (89), per esempio, luminoso psichiatra che ha paragonato l’epidemia di oggi con l’esperienza che visse, tredicenne, nel 1943. Quando, inseguita dai tedeschi, la sua famiglia fu costretta a lasciare la casa paterna e avventurarsi nella notte, in montagna: «Fino a quel momento il sentiero dell’adolescenza mi appariva rettilineo. Improvvisamente, era divenuto buio e tortuoso. Non capivo cosa ci stesse opprimendo. I militari tedeschi erano un nemico oscuro. Tutto poteva concludersi da un momento all’altro. Oggi nulla sappiamo del coronavirus e nulla sapevamo allora di quel nemico comparso, scomparso, incombente. Anche allora, come oggi, fede e speranza si alleavano per offrirci la possibilità di un cammino più sereno».

La guerra. O almeno il dopoguerra. I nostri vecchi hanno parole meno ambigue, più dirette, più solide. Più capaci di confortare nella paura. Ci sono passati. Sanno cos’è. Quando, adolescente, sentivo i racconti di mio padre o di mio nonno sulla guerra, fremevo perché i miei occhi non erano rivolti al passato, ma al futuro. La guerra era una realtà distante. Una specie di leggenda nera, per tenerci tranquilli. Oggi siamo imprevedibilmente finiti dentro qualcosa che le assomiglia parecchio. Parliamo di nemico, di trincea, di prima linea, di ospedali da campo. Viviamo anche un’intransigente autarchia domestica. E molti di noi cercano conforto nella storia e nella migliore letteratura. Per vedere come abbiamo vissuto e come siamo usciti dalla peste. O dall’epidemia di spagnola, un secolo fa. In fondo, i vecchi, quelli della guerra e del dopoguerra, sono il pezzo di storia che abbiamo più vicino a noi. Vicino in tutti i sensi. Sono anche i più forti. E i più fragili. In questa guerra.

 

La Verità, 4 aprile 2020

«Così la paura può aiutarci a essere migliori»

Che situazione». In due parole il professor Eugenio Borgna condensa stupore, tenerezza, partecipazione al dramma che stiamo vivendo. Lo si avverte nella vibrazione della voce. Nella preoccupazione paterna. Psichiatra e primario emerito di Psichiatria all’ospedale di Novara, nonché libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali all’università di Milano, prossimo ai novanta, Borgna mi ha sempre colpito per la sua profondità. L’ho intervistato altre volte. Una, nella casa di Novara, dove accettò di vedermi con brevissimo preavviso, spostando altri appuntamenti. Un’altra a Borgomanero, nella «casa dal grande giardino», come la descrive nell’autobiografia Il fiume della vita (Feltrinelli), l’abitazione storica, dove avremmo dovuto incontrarci anche stavolta, se le direttive del governo non l’avessero sconsigliato. È a persone come lui che ci si rivolge in momenti come questi.

Qual è il primo sentimento che le provoca questa situazione?

È un sentimento legato al fatto che non conosciamo ciò che sta avvenendo. Un moto dell’anima che deriva dall’improvvisa immersione in una vita sconosciuta, causata dal virus portatore di conseguenze imprevedibili. È il confronto con l’ignoto. Camminavamo su autostrade rettilinee e senza ostacoli, ora ci troviamo in un percorso oscuro.

Le è mai capitato di vivere un momento paragonabile a questo?

Avevo 13 anni quando fummo costretti a lasciare questa casa per fuggire in montagna, inseguiti dai tedeschi che avevano minacciato di sequestrarci. Mia madre guidava il gruppo di sei figli, l’ultimo di un anno. Mio padre, che non aveva aderito al partito fascista, era entrato nella Resistenza. Fino a quel momento il sentiero dell’adolescenza mi appariva rettilineo. Improvvisamente, era divenuto buio e tortuoso. Non capivo cosa ci stesse opprimendo. I militari tedeschi erano un nemico oscuro. Tutto poteva concludersi da un momento all’altro. Infine, eravamo soli, perché aiutarci significava esporsi alle minacce dei tedeschi.

C’è analogia con la situazione di oggi?

L’analogia è nell’inconoscibilità delle circostanze. Oggi nulla sappiamo del coronavirus e nulla sapevamo allora di quel nemico comparso, scomparso, incombente. Sono entrambe esperienze d’incertezza profonda, relativamente a ciò che può accadere nelle ore successive. Anche allora, come oggi, fede e speranza si alleavano per offrirci la possibilità di un cammino più sereno. E anche allora le campane della chiesa suonavano per offrire un rifugio alla paura.

La paura è causata dall’avvento dell’ignoto?

È un sentimento ineliminabile. Se non lo avvertissimo saremmo dei robot. Pensare di non provare paura o ansia non è giusto e nemmeno umano. La paura ha un oggetto identificato anche se non lo controlliamo. La proviamo dinanzi a un’entità oscura come questo virus, al quale non sappiamo dare una fisionomia scientifica sufficientemente precisa.

Il sociologo Zygmunt Bauman scrive che la paura più terribile è quella «diffusa, sparsa, indistinta», determinata dalla «minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente». Come si convive con questa paura?

Va rimodulata in un contesto più ampio, anche grazie a un’attività interiore che riconosca le risorse di cui disponiamo. La principale delle quali è la speranza per la vita. Senza speranza la paura ci condurrebbe a reazioni psicologiche e psicosomatiche negative. Non si può cancellare la paura, ma con la ragione si può svuotarla dei suoi eccessi e ricondurla in una dimensione più tollerabile. Per esempio, abbiamo ragione di aver paura quando scaliamo una montagna. Ma la gestiamo entro limiti razionali.

Quando non ci si riesce sfocia in angoscia?

L’angoscia è di qualcosa che non si conosce, mentre la paura riconosce la sua causa anche se non sempre ne controlla le dinamiche. È una distinzione sottile. L’angoscia è dentro di noi, come il timore della morte che non sappiamo quando arriva.

Stiamo vivendo un tempo sospeso, in cui non possiamo e non dobbiamo uscire di casa, non possiamo e non dobbiamo stare in gruppo. È anche un tempo in cui si può rientrare in sé stessi?

Nella vita di tutti i giorni siamo ostaggi del presente, privi di memoria e di speranza. Tutti concentrati sul qui e ora. Questa situazione, paradossalmente, ci permette di perdere tempo e di acquistare tempo, per cogliere ciò che avviene dentro di noi, per esempio incontrando gli altri, chi ci aiuta a conoscere noi stessi. Una improvvisa tempesta ci fa comprendere quanto siamo fragili, invitandoci a guardare non solo al nostro piccolo o grande interesse personale, ma a riflettere sul senso della vita. Per cercare di capire la nostra indole profonda, quali sono le nostre speranze e le nostre attese che abitualmente vengono bruciate nell’impulso del tutto e subito.

Di colpo siamo ricchi di tempo?

Queste restrizioni ne cambiano la percezione. È la geniale intuizione di Sant’Agostino, che supera la circolarità di passato presente e futuro, convertendo il tempo dell’orologio nel tempo interiore. In cui in apparenza non facciamo nulla di concreto o immediatamente produttivo, ma in cui possiamo andare al fondo di noi stessi. Inoltrandoci in un sentiero nuovo, sconosciuto come gli effetti della pandemia, ma che ci porta a scoprire il risvolto interiore di ciò che siamo e facciamo.

Che cosa direbbe ai giovani che faticano a rinunciare alle loro abitudini e ad accettare l’isolamento?

Questa «metànoia», questa conversione, mi sembra più difficile negli adulti, nelle persone cristallizzate in un modello di comportamento fatto di lavoro, denaro, lusso. Ci vorranno sforzi inauditi. Mi pare che i giovani possiedano maggiore creatività, generosità e capacità di cogliere l’essenza delle cose. È una convinzione che traggo da tanti incontri con gli studenti nelle scuole superiori. Senza generalizzare, mi pare che spesso rovesciamo sui giovani responsabilità che sono nostre.

Prima che ci fosse l’ultima ordinanza del governo abbiamo visto le foto degli aperitivi affollati. Nei suoi saggi cita Blaise Pascal: «Togliete ai giovani il divertimento e li vedrete inaridirsi di noia».

È vero, ma le faccio due controrepliche. La prima: che responsabilità hanno le famiglie, i genitori, i fratelli maggiori? In che misura incidono su questi comportamenti? Quali attenzioni trasmettono, che parole usano? La seconda obiezione riguarda la comunicazione tardiva della gravità di ciò che stava accadendo. E qui c’entrano i politici e i media. All’inizio si è minimizzato, si sono fatti i paragoni con l’influenza…

Ancora Pascal: «Tutta la infelicità degli uomini viene da una sola cosa che è quella di non saper rimanere in riposo in una stanza». Come possiamo trarre il meglio da questa situazione?

Pascal descrive in modo cinematografico quello che abbiamo provato a dire parlando del tempo interiore. Lui parla del divertimento come distrazione dall’io profondo. Lo stordirsi nelle piazze e nei locali… Fermarci può essere una opportunità anche per il dialogo con gli altri, vincendo l’indifferenza che può bruciare i cuori senza che ce ne accorgiamo.

Questa situazione così drammatica può diventare paradossalmente un’opportunità di crescita?

Crescita è una parola da pronunciare con il cuore in gola quando ci sono persone che muoiono. Oggi siamo tutti un po’ più soli e la solitudine ci obbliga a conoscerci meglio. Dunque ci può aiutare a crescere, se sapremo cercare quel significato che, nelle giornate affannate, è sempre rimosso, dimenticato. In quelle giornate, la stanza di Pascal rimane sguarnita, anonima, senza porte e finestre. Ora possiamo riempirla di silenzio, di ascolto, di dialogo vero. Anche di preghiera, che i credenti possono recitare in sostituzione della messa che non viene celebrata. Di letture, facendosi guidare da Simone Weil, da Rainer Maria Rilke, da Teresa d’Avila che osserva che «coloro che Dio ama molto, li conduce per sentieri di angoscia».

Che libri sta leggendo o rileggendo?

Mi rifugio nelle poesie. Rileggo Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, lo Zibaldone e le pagine sulla malinconia, Carlo Maria Martini. Sto leggendo anche Guarire le malattie del cuore, bellissime meditazioni dell’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi.

Lei che è autore di Saggezza, nella collana Parole controtempo del Mulino, può dirci che cosa vuol dire essere saggi oggi?

Essere consapevoli dei propri limiti. Sapere ciò che possiamo raggiungere e ciò che non possiamo raggiungere. Significa non farci stordire dalle apparenze, cercando di cogliere la sostanza più vera della realtà. Infine, guardare alla speranza come alla stella del mattino. La speranza è anche una medicina. Perché fa sgorgare risorse interiori addormentate.

La percezione della nostra provvisorietà può essere una risorsa anche per il dopo?

Certo, perché ci aiuta a guardare ai nostri giorni, alla nostra quotidianità, muovendo dall’idea che siamo parte di una comunità di destini che lega chi è ricco e chi non lo è, chi è sano e chi è malato.

 

Panorama, 18 marzo 2020

Sofia Viscardi, una teen ager che può far paura

Mi spiace, ma sto con Giampiero Mughini. E con le 80 copie di Porto sepolto di Giuseppe Ungaretti, piuttosto che con i 2 milioni e oltre di seguaci nei vari social di Sofia Viscardi, intervistata con grande risalto dal Corriere della Sera. Sto con Mughini non per un vezzo snobistico, per una vezzosa scelta in favore delle minoranze di qualità alla Nanni Moretti in Caro diario. È che le folle mi fanno paura. Anzi, non è neanche questo. Dipende dalla qualità delle folle, da che cosa le mette insieme e le fa essere. In realtà, non mi convince proprio il mondo che diffonde Sofia Viscardi. Non tanto i social e il web, tout court. Quanti vantaggi portano, quanta velocità ci regalano, quanto apprendimento, a volerli sfruttare con intelligenza. Non mi convincono la mentalità, la cultura, il mood della social star. Sofia Viscardi ha concesso un’intervista ad Aldo Cazzullo di una paginata, intitolata: «Vi spiego chi sono i vostri figli». I miei hanno qualche anno di più dei suoi 19, ma lo stesso il titolo mi ha attirato. Ho letto e mi son detto: boh? Cos’è questo mondo orizzontale? Questa massa di follower? Conquisto «la loro attenzione, mica la loro anima», si è difesa lei. E meno male.

Su Dagospia Giampiero Mughini ha criticato il dialogo Giorello-Viscardi

Su Dagospia Giampiero Mughini ha criticato il dialogo Giorello-Viscardi

Perché su questo io sto con lo psichiatra Eugenio Borgna che ritiene condivisione, connessione e community, simboli della rivoluzione digitale, «parole che restano in superficie, che non colgono comunità reali». Chissà quanto ne ha coscienza la social star che snocciola meet-up interrotti dai carabinieri per eccesso di assembramenti e visualizzazioni a milionate. Andando avanti a leggere si trova una lunga serie di esperienze accumulate, di citazioni virtuali, di teen-scrittori, youtuber, Chiara Ferragni (che è la fidanzata di Fedez, in caso sfuggisse, lanciata da sua madre), di posti visitati. A 19 anni non ancora compiuti è stata in Marocco a Essaouira e Marrakech, conosce le Cicladi maggiori, le «spiagge ventose della Spagna e del Portogallo per fare kitesurf», Amsterdam. Una volta, con espressione oggi desueta, si sarebbe detto: una ragazzina viziata. Che ha cambiato quattro o cinque scuole superiori perché «rispondevo; e questo ai professori non piace». Che con la sua famiglia, per la morte del nonno, anziché celebrare il funerale ha fatto «un aperitivo con un po’ di musica: lui aveva voluto così».

A parte immaginare il classico «aborro» di Mughini, non sono principalmente spaventato da tutto questo apparato, da tutta questa liturgia radical chic. Anche, s’intende, ma solo in parte. Di più mi spaventa l’assenza di una domanda, di un cruccio, di una ferita, qualcosa di mancante, un moto di rabbia. Nel mondo pieno di esperienze e di precocità ma ultimamente piatto che trasuda dall’intervista latitano verticalità e profondità. Non c’è una sofferenza, un dolore, qualcosa d’inspiegato. Una surfista della parola. Una surfista dei social. Non c’è nulla di quello che Alessandro D’Avenia, da mesi ai primissimi posti della top ten con il suo saggio-romanzo su Giacomo Leopardi, chiamerebbe fragilità. Non so voi, ma io a una diciannovenne senza fragilità stento a credere. A ben guardare non è colpa sua se a milioni la seguono. È la fotografia del nostro tempo. Ma dobbiamo farci spiegare da una ragazza così chi sono i nostri figli? Non scherziamo.

Alessandro D'Avenia alla Gran Guardia di Verona (Anto/Fotoland)

Alessandro D’Avenia alla Gran Guardia di Verona (Anto/Fotoland)

Sono andato a rileggermi altre cose di Sofia Viscardi, scoprendo che nel giugno scorso, in occasione dell’uscita di Succede, titolo vagamente saccente del suo primo romanzo, il Corriere della Sera ha dedicato una lunga conversazione sulla Lettura tra lei e Giulio Giorello, nientemeno. Ciò che suscitò la reazione di Mughini di cui sopra. E certo, a pensarci: quante domande sull’impiego delle nostre energie migliori e sulla consapevolezza del ruolo educativo di noi adulti.

C’è solo un punto dove Sofia Viscardi lascia trapelare qualcosa, ed è dove risponde alla domanda se «crede nella vita dopo la morte». «Credo che ci sono cose che non possiamo sapere», ammette. Ma è un punto che sfila via perché subito dopo dice di non essere religiosa. Invece, riconoscere che esistono cose che «non possiamo sapere» è l’atto più razionale della ragione: ammettere la possibilità di qualcosa che non si riesce a misurare e controllare. Proprio questa umiltà della ragione è l’inizio del senso religioso, del porsi le domande sul perché della vita e della morte… Ecco: che oltre due milioni di persone seguano una ragazza così, mi fa pensare. E preoccupa.

Sto con Mughini, Borgna e D’Avenia, gente più fragile di Sofia Viscardi. Alla quale, peraltro, auguro tutto il meglio possibile.