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Pier Silvio delude gli anti Berlusconi: niente politica

È un Pier Silvio Berlusconi tuttocampista quello che incontra i giornalisti nella conferenza stampa di fine anno. Un Pier Silvio box to box, come si dice in gergo calcistico. Anzi, propenso alle incursioni nelle diverse aree di competenza. La politica innanzitutto, compresi i rapporti con il governo di Giorgia Meloni che negli ultimi mesi hanno registrato qualche increspatura. Poi la Rai, Sanremo, l’Europa, Giambruno e annessi, le alterne fortune di Striscia la notizia. Eccetera eccetera. Spesso è così perché a queste serate partecipano giornalisti televisivi, politici, economici, sportivi e di costume. Stavolta l’amministratore delegato di Mfe-Mediaset sembra più generoso e generalista del solito, complice un 2024 «eccezionale», con il titolo cresciuto del 25,4% e i ricavi del 7,7%. «Dal Covid abbiamo cambiato passo: MediaForEurope è il primo broadcaster europeo», sottolinea Berlusconi jr. Lo confermano i dati sugli utili: rispetto a quelli cumulati tra il 2016 e il 2019, quelli del quadriennio 2020-2024 «sono più che raddoppiati e superano il miliardo di euro». Ottimi anche i riscontri sull’audience, alla pari con la Rai nell’intera giornata (36,8% di share contro il 36,7) e molto superiori nel target commerciale: Mediaset al 39,5% e Rai al 31,3.

Si comincia. «Non ho nessuna intenzione di entrare in politica. Né ora né mai», scandisce il ceo di Mediaset, smentendo previsioni e scenari di siti e giornali interessati a vederlo in campo, forse perché orfani del grande nemico o ancor più perché desiderosi di scardinare gli equilibri della maggioranza. Invece no, mappa obsoleta. Perché pare proprio che Pier Silvio voglia mandare messaggi rassicuranti, come si evince dai motivi del «non entro in politica. In primo luogo perché amo Mediaset, l’azienda e tutti quelli che ci lavorano. Il mio posto è qui e credo che il mio lavoro non sia finito. Il secondo motivo è che non ritengo serio improvvisarmi in un mestiere che non è il mio senza fare gavetta». Infine, il terzo motivo, «il più importante», dice l’ad Mediaset. «C’è già un governo stabile e che sta facendo bene. Pensate a cosa sta succedendo in altri grandi Paesi europei come Francia e Germania. Da noi c’è stabilità».

Un piccolo dissenso persiste sull’abbassamento del canone a 70 euro, ma è circoscritto all’iniziativa della Lega. «Salvini mi sta molto simpatico», premette, «ma non capisco perché faccia questa battaglia. Se togli delle entrate da una parte poi le devi prendere da un’altra e io trovo giusto che la fiscalità generale vada a finanziare la sanità e la scuola, per dire. Credo che la politica dovrebbe avere un occhio di riguardo per la Rai e per l’audiovisivo in generale. L’idea di abbassare il canone mi pare strampalata. Siamo il Paese dove si investe di meno in questo settore: indebolirlo ancora aprirebbe le porte alle multinazionali». Anche dalla possibile concorrenza sul Festival di Sanremo Berlusconi jr si tira fuori, per il momento: «Non ho capito esattamente che cosa sta succedendo, è tutto un po’ fumoso… La Rai è il motore del Festival e da italiano mi auguro che rimanga lì. Se un giorno sarà sul mercato valuteremo come tv commerciale».
Oltre la politica e le relazioni con la concorrenza, risponde a tutte le domande, comprese quelle su Andrea Giambruno, la cui vicenda, a ben vedere, non è così lontana dalla politica. «Prima o poi tornerà in onda anche se oggi non ci sono progetti che lo riguardano. La responsabilità di un programma (Diario del giorno su Rete 4 ndr) è più importante che andare in video». Di recente gli è stato negato il nullaosta per la partecipazione a Belve. «Non c’è stato un divieto, Andrea è un giornalista Mediaset. Quando arrivano delle richieste da parte della Rai o di altre televisioni si valutano. Se c’è qualcuno che è disposto a intervistarlo è giusto che vada a raccontare le cose prima da noi… Il nostro è un atteggiamento protettivo nei suoi confronti, e non solo», allude. Nel capitolo «correzioni al palinsesto» ecco che la più significativa riguarda Striscia la notizia. «È innegabile che stia vivendo un momento faticoso, dopo 37 anni di storia è normale che succeda. Parlo spesso con Antonio Ricci e sono fiducioso che trovi la strada per tornare a crescere. Per il futuro non escludo un’alternanza di prodotto», ipotizza per la prima volta il capo di Mediaset, «ma oggi conto molto su Antonio». E proprio Ricci rassicura: «Striscia sta pian piano risalendo, al 99,9% è la trasmissione più vista della serata di Canale 5».

Altra revisione necessaria, ma certamente con meno implicazioni, è quella per La Talpa: «Il prodotto non è venuto perfetto, non aveva i polmoni adatti per Canale 5, mentre il suo aspetto crossmediale ha funzionato bene. Non escludo di riproporre un progetto del genere». La stessa speranza, però confortata da ottimi ascolti e dalla riuscita del format, riguarda This is me, condotto da Silvia Toffanin. Conferme arrivano per Barbara Palombelli e Federica Panicucci. Diletta Leotta è una possibilità anche se per ora non ci sono progetti disegnati su di lei, mentre Myrta Merlino lascerà Pomeriggio 5 per un altro progetto. Auguri a tutti.

 

La Verità, 13 dicembre 2024

«La Rai è un calabrone, vola nonostante il peso»

Agostino Saccà, come vede la Rai da pochi metri di distanza uno che ci ha lavorato 35 anni?
«A rigore di fisica e di logica la Rai non dovrebbe volare. Invece, è come il calabrone, un volatile che ha un’apertura alare incoerente con il suo peso. Quello che la grava, soprattutto dall’esterno, è così tanto che dovrebbe spiaccicarsi al suolo».
Invece?
«È al 39% di ascolto in prima serata, contando anche i canali digitali. Se pensa che era al 45,8% 35 anni fa, poco dopo l’inizio dell’Auditel, assistiamo a un miracolo. Non c’è solo la concorrenza di Mediaset, ma anche quella di La7 e Sky, degli americani di Warner Bros Discovery, delle reti locali e di decine di canali satellitari. Senza dimenticare le piattaforme».
Siccome nella tv pubblica Agostino Saccà è stato tutto, ne parla con autorevolezza e passione. Dalla direzione generale di Willy De Luca passando per Biagio Agnes, dai professori a Pierluigi Celli, ha attraversato metà della sua storia settantennale. Giornalista in radio e al Tg3, vicedirettore di Rai 2, capo-staff di Letizia Moratti, due volte direttore di Rai 1, direttore generale e capo della fiction. Lo incontro a due passi da Viale Mazzini, negli uffici della Pepito che ha fondato nel 2007, sorta di laboratorio di idee dove nascono film, serie tv e documentari.
Cominciamo dall’addio di Amadeus, dal sorpasso di Mediaset o dalla presunta censura di Antonio Scurati?
«Dal sorpasso di Mediaset».
Prego.
«Intanto, nei primi quattro mesi del 2024, non c’è. In primetime la Rai, digitale compreso, è al 39% e Mediaset al 36%».
In daytime?
«Nemmeno. L’ha smentito anche il direttore generale Giampaolo Rossi che io ritengo, per cultura personale, conoscenza aziendale e capacità di dialogo la scelta migliore possibile oggi per il ruolo di amministratore delegato. La Rai fa il 37,8%, Mediaset il 37,2%. Se poi togliamo il digitale, dove Mediaset è più forte, sulle generaliste il primato Rai è schiacciante: Rai 1 è al 24,3 e Canale 5 al 16. Idem sui tg: il Tg1 fa il 25,4 e il Tg5 il 19,8».
C’è una narrazione falsata?
«A metà del 2023 Mediaset ha effettivamente superato Rai e ha mantenuto la posizione fino a fine anno. Ma dall’inizio del 2024 i dati sono questi».
Narrazione falsata?
«Soprattutto pigra».
L’amministratore delegato Roberto Sergio ha detto che c’è chi vuole distruggere la Rai: lo si trova nelle file dall’opposizione e nei giornali d’area?
«Oggi la Rai ha tanti nemici e pochi difensori. Nell’opposizione c’è chi è tentato di buttare l’acqua “sporca” col bambino per timore di un’egemonia del centrodestra nella tv pubblica. Questa tentazione può saldarsi con gli interessi degli editori che trarrebbero vantaggio da un suo ridimensionamento nel mercato pubblicitario. Ma oltre a conseguirli, con la direzione della pubblicità di Gian Paolo Tagliavia, la Rai sa vendere bene i suoi risultati. Grazie alla performance pubblicitaria, che a Sanremo si è espressa al meglio, ha ridotto di 90 milioni l’indebitamento».
Amadeus poteva essere trattenuto?
«No perché doveva portare all’incasso l’enorme successo di Sanremo. Ricordiamoci che è anche un grande autore. Lo dico perché l’ho portato al grande pubblico con In bocca al lupo su Rai 1 più di vent’anni fa e ho apprezzato sia le doti del conduttore che quelle autoriali che lo aiutano a migliorare i prodotti a cui lavora. A Warner Bros Discovery fornirà i format delle trasmissioni che potrà inventare, far comprare o anche produrre. Questo in Rai non era possibile».
Nella prossima stagione i poli televisivi aumentano: essendo ìmpari quella sulle risorse, sposterebbe la sfida sulle idee?
«Le idee sono fondamentali, ma senza soldi la tv generalista non si può fare. Quando devi massimizzare gli ascolti e difenderti da offerte ricche, perdi. Il canone di abbonamento della Rai è il più basso d’Europa, quattro volte inferiore a quello tedesco, più di tre volte di quello inglese, più della metà di quello francese. È stupefacente che il calabrone continui a volare».
Bisogna aumentare la tassa più invisa agli italiani?
«Il governo dovrebbe dare all’azienda risorse coerenti con la missione di servizio pubblico. Il canone andrebbe riportato a 90 euro e andrebbe ridotta la tassa di concessione di 90 milioni che le altre tv non pagano in questa misura. Se si teme il rifiuto di una parte dei cittadini c’è un’altra via».
Sentiamo.
«La Rai dispone di uno strumento efficace per la crescita del Paese e per la concorrenza alle piattaforme. Raiplay ha riavvicinato i giovani e, con 24 milioni di account, è un dispositivo strategico per preservare i codici espressivi nazionali e il modo di raccontare dei grandi artisti dell’immaginario italiano. Bisogna avere la forza di lanciare Raiplay, dicendo che servono 20 euro di canone da destinare al prodotto. Sarebbe una piccola grande rivoluzione culturale».
In questo scenario come valuta il ruolo di La7 di Urbano Cairo?
«È una televisione con professionisti di valore e i risultati lo confermano. La mia sensazione è che, forse, la sua narrazione si dimostri leggermente datata rispetto ai grandi cambiamenti geopolitici e culturali che si sono verificati negli ultimi tempi».
Come risponderebbe alla perdita di Amadeus?
«Se Mina accettasse di fare il direttore artistico di Sanremo sarebbe un grande ritorno. È figlia della Rai, ha fatto i varietà dell’epoca d’oro, è una grande conoscitrice di musica, aggiornata su tutte le nuove tendenze. Con Carlo Conti all’Ariston, sarebbe un colpo straordinario. Su Sanremo bisogna avere coraggio e fantasia».
Lei lo avrebbe fatto fare il monologo a Scurati?
«Io gliel’avrei fatto fare, anche se confliggeva con le norme che vogliono che il sabato precedente al voto sia di silenzio. Tuttavia, mi chiedo: se è agli atti che l’azienda l’aveva consentito a titolo gratuito, perché improvvisamente spuntano i soldi e successivamente la conduttrice attacca la Rai sui social e denuncia la censura?».
La politica ha sempre influenzato la tv pubblica: la situazione è peggiorata con la riforma Renzi che ne ha spostato il controllo dal Parlamento al governo?
«Il Parlamento e il governo sono gli azionisti, è inutile fare gli ipocriti. È così in tutta Europa. In alcuni casi le intrusioni sono leggende. È soprattutto la piccola politica a provarci, governo e Presidenza del consiglio di solito si fermano alle nomine apicali. Proprio il caso Scurati lo dimostra: Giorgia Meloni ha pubblicato il monologo sul suo account di Facebook che ha più seguaci degli ascoltatori del programma».
Buoni dirigenti dovrebbero saper gestire le situazioni.
«In Rai ci sono e un dato lo conferma. Un’impresa operante in un sistema competitivo che subisse interferenze continue non si manterrebbe quasi al 40% di share. La Rai sarebbe finita come l’Alitalia che è costata 8 miliardi di aiuti allo Stato. Ricordo che quando il governo Ciampi stanziò 200 miliardi di lire per aiutarla in un momento difficile, Letizia Moratti li rifiutò: “La Rai si salva da sola”, disse. E in due anni e mezzo abbattemmo 1500 miliardi di lire d’indebitamento, figlio della guerra contro Berlusconi e della realizzazione di Saxa Rubra. Non c’è in Italia un’azienda pubblica o privata, dall’Olivetti alla Fiat, che abbia rifiutato gli aiuti dello Stato come ha fatto la Rai».
Sono limiti strutturali a condizionarla?
«Dal punto di vista della gestione economica e finanziaria la Rai è più paralizzata di un ente locale. Per stanziare 2.000 euro serve una gara d’appalto. Alle riunioni del Cda partecipa un giudice della Corte dei conti con compiti di controllo, una prassi che non c’è in un nessun’altra azienda o amministrazione pubblica. Agendo in regime di concorrenza, andrebbero applicate le norme del diritto privato. Il governo dovrebbe presentare in Parlamento un articolo di poche righe per l’interpretazione corretta della natura e dell’azione della Rai».
Tornando alle questioni editoriali, la riforma per aree di genere è stata un errore?
«Non è sbagliato rendere autonome le produzioni per generi perché la Rai vive una condizione di multimedialità. Le reti producevano per sé stesse, mentre le aree per genere declinano i contenuti su più canali e più media, online compreso».
Ma non ci sono più i direttori di rete a dare identità al palinsesto e a rispondere se qualcosa non funziona.
«Giusto. Se si cancellano i responsabili delle reti si riduce il carattere identitario dell’offerta. È il responsabile di rete a sapere quello che gli serve. L’offerta di palinsesto dovrebbe definirsi nel rapporto dialettico tra i responsabili di rete e i direttori dei generi».
Dalla passione che ci mette sembra ancora un uomo di vertice della Rai.
«Amo e conosco i meriti di un’azienda che ha inventato il digitale e ha insegnato a parlare agli italiani. Ci sono arrivato quasi cinquant’anni fa, da ragazzo di Calabria…».
Anche lei come Giovanni Minoli invierà il curriculum alla Commissione di Vigilanza per entrare in Cda e magari presiederlo?
«Ogni stagione ha i suoi incarichi. Adesso mi diverto facendo il produttore».
Pepito le ha dato una seconda giovinezza?
«In un certo senso sì, perché continuo a fare il lavoro che mi ha sempre appassionato».
Che cosa le piace del mestiere di produttore cinematografico e audiovisivo?
«La meraviglia di partire da un’idea e farla diventare immagini, scene, costumi, facce. Lo stupore di prendere una storia vera come quella di Hammamet, o non vera ma realistica come quella di Favolacce, e farne due film definiti capolavori dai critici. Hammamet in Italia ha incassato quasi 7 milioni di euro, mentre Favolacce è stato venduto in 50 paesi, America compresa, e ha vinto l’Orso d’argento a Berlino».
Si producono troppi film d’autore e pochi per il grande pubblico?
«Si producono troppi film che non arrivano al pubblico. Ma credo che questo governo, di cui aspettiamo i decreti sul tax credit e i finanziamenti, stia lavorando bene contro la dispersione delle poche risorse. Le quali vanno concentrate su opere che, per scrittura, regia, cast e referenze del produttore, meritano l’attenzione del ministro della Cultura».
A che progetti sta lavorando?
«Stiamo scrivendo una sceneggiatura su Elvira Notari, la prima grande regista e autrice italiana che a Napoli, insieme con il marito, ha inventato tecniche di ripresa, fotografiche e di colorazione delle pellicole prima del colore. Un altro progetto con Rai Cinema riguarda la morte di Cavour, una morte misteriosa e sospetta che va raccontata».

 

La Verità, 27 aprile 2024

I «magnifici 7» di La7 vogliono una fetta di canone

Carte scoperte. L’obiettivo di La7 ormai è chiaro: conquistare una fettina di canone di abbonamento al servizio pubblico radiotelevisivo. Prima le maratone elettorali di Enrico Mentana. Poi i confronti referendari, sempre con la stessa firma, tra esponenti del Sì e del No, molto istituzionali. Infine, la maratona in occasione delle elezioni americane, coronata da un discreto successo di ascolti. Anche l’innesto di Faccia a faccia, il nuovo programma di Giovanni Minoli, ha consolidato il profilo da servizio pubblico della rete di proprietà di Urbano Cairo. È da un annetto che l’editore di Rcs fa rotta sul canone Rai. La Tv di Stato dispone anche della pubblicità, ma il ruolo di servizio pubblico non è più suo monopolio esclusivo. E dunque una fetta potrebbe essere ridistribuita.

Enrico Mentana, direttore del Tg La7 e dei programmi giornalistici della rete

Enrico Mentana, direttore del Tg La7 e dei programmi giornalistici della rete

La rete all talk di Cairo ormai può vantare un profilo che, oltre al tg di Mentana e alle sue importanti appendici, annovera un programma come Otto e mezzo di Lilli Gruber che potrebbe stare benissimo su una rete pubblica. Lo stesso si potrebbe dire della fascia di morning news della rete. Poi ci sono i talk show di prima serata come DiMartedì, che batte puntualmente e con distacco il concorrente di Rai 3, e Piazza pulita. In fondo, non c’è da meravigliarsi se la prua di La7 punta dritta al canone. Tutti i volti principali, giornalisti, anchorman e anchorwoman sono ex di Mamma Rai. Da Giovanni Floris a Corrado Formigli, da Gianluigi Paragone a Lilli Gruber, da Myrta Merlino, nata televisivamente a Mixer, creatura dell’ultimo innesto Giovanni Minoli, fino allo stesso Mentana, nato e cresciuto al Tg2 prima di fondare il Tg5. Inevitabile che linguaggi e formule dei «magnifici sette» siano quelle del servizio pubblico, ancor più se, com’è naturale, alimentati da un certo spirito di rivalsa nei confronti dell’azienda di cui sono figli. «Se con il canone di abbonamento in bolletta la Rai incasserà 280 milioni in più, allora bisogna rivedere le quote di pubblicità della tv pubblica, magari togliendo gli spot da due reti», ha dichiarato in più occasioni il patron di La7. Intanto ha ulteriormente implementato la rete di volti e contenuti da servizio pubblico per rendere plausibile lo storno di denaro proveniente dal canone. Dopo una prima proroga che risale alla scorsa primavera, la convenzione che regola il contratto di servizio pubblico tra la Tv di Stato e il ministero delle Poste e Telecomunicazioni è scaduta il 31 ottobre scorso ed è in discussione in questi giorni. Ovviamente, in viale Mazzini c’è fibrillazione nell’attesa del rinnovo.

 

La Verità, 16 novembre 2016