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Il Milan: ecco cosa può fare la cancel culture nel calcio

Lo sprofondo rossonero che cos’è se non la rappresentazione da manuale di ciò che produce la cancel culture anche nel calcio? E, per giunta, realizzata grazie all’intelligenza artificiale? I fatti son lì da vedere. Il Milan, composto di ottimi giocatori, continua a inanellare sconfitte con squadre che gli sono tecnicamente inferiori. Dinamo Zagabria, Feyenoord, Torino, Bologna, Lazio: per stare alle ultime, umilianti prestazioni. La società vincitrice di sette Champions League è fuori da tutte le competizioni che contano. Lo è stata immediatamente dalla Serie A, dove naviga a metà classifica. E lo è dalla stessa Champions, dopo la prima selezione. Cambiano gli allenatori, da Stefano Pioli a Paulo Fonseca a Sergio Conceiçao, non gli ultimi arrivati, ma i risultati non migliorano, anzi. E non basterà certo la nomina di un direttore sportivo, Igli Tare o Fabio Paratici, a risollevare dallo sprofondo.
Raramente si è assistito a una contestazione tanto straniante quanto quella attuata domenica a San Siro dalla Curva Sud: vuota nei primi 15 minuti, e poi, mentre i giocatori si affannavano in un’improbabile divisa rossoverdegiallo (dopo quella fucsia e quella neroverde, cancellazione anche cromatica?), riempita da tifosi autori di cori contro la proprietà, la dirigenza e i giocatori stessi. «Se non vedremo cambiamenti significativi nelle prestazioni e soprattutto nell’atteggiamento, arriveremo ad abbandonarvi totalmente, lasciandovi soli con la vostra vergogna», avevano scritto annunciando la presa di distanza dal club. Il primo bersaglio è il fondo RedBird di Gerry Cardinale che nell’agosto 2022 ha acquisito il pacchetto di maggioranza da Elliott. Poi i vertici al completo: Zlatan Ibrahimovic, plenipotenziario di Cardinale senza aver mai studiato da dirigente, l’ad Giorgio Furlani, il presidente Paolo Scaroni che sopravvive ai vari cambi azionari. Risparmiato Conceiçao che, sebbene non inappuntabile nella gestione delle partite, dà l’anima più di certi calciatori e ha rispetto dei tifosi («Sono ferito come loro»), vero patrimonio della società.
Gran parte degli specialisti sentenzia che il Milan manca di leadership e che è una squadra costruita male. Fuochino. Scorrendo la formazione ci si accorge che ci sono tre nazionali della Francia (probabilmente la più forte del mondo), due nazionali portoghesi (come gli ultimi due coach), uno olandese, il capitano degli Stati Uniti, un nazionale messicano che ha sostituito il capitano della Spagna (vincitrice degli ultimi europei), un nazionale serbo, l’ex capitano del Manchester City e nazionale inglese. Come fa una squadra così a difettare di leadership e di esperienza? Non sarà proprio l’eccesso di blasone a rendere il Milan un squadra molle, priva di identità e di senso di appartenenza? Non sarà proprio la composizione cosmopolita e multietnica a renderla solo una compagine di figurine? Una bella senz’anima?
Interpellato sull’argomento un paio di giorni fa, Carlo Ancelotti ha scolpito: «Mandare via Paolo Maldini, con tutti i difetti che può avere, è mandare via un pezzo di storia. Paolo è un uomo di calcio e rappresenta il Milan, hanno fatto un errore a mandarlo via». Nemmeno lui era perfetto e nella scelta di alcuni giocatori qualche errore l’aveva commesso. Tuttavia, la storia non si cancella. Si revisiona, se occorre. Ma va salvaguardata, tanto più se costellata di trionfi iniziati 60 anni prima con il padre Cesare.
Si dirà: la proprietà di un fondo americano è più sensibile alle logiche della finanza che all’identità e ai colori di un club, sebbene glorioso. Per chi punta al profitto, figure storiche possono risultare scomode. Ma gli effetti della cancellazione sono sotto gli occhi di tutti. Anche l’Inter, per guardare dall’altra parte del Naviglio, è di proprietà di un fondo americano (Oaktree). Ma ha affidato la presidenza a un manager di esperienza come Beppe Marotta, ha una filiera dirigenziale in gran parte italiana e ha un tecnico e diversi giocatori italiani.
L’uomo più ascoltato da Cardinale è invece Billy Beane, l’ex direttore sportivo degli Oakland Athletics di baseball che a inizio secolo ricorse a sua volta ai consigli di Paul DePodesta, esperto di sabermetrica, scienza statistica in base alla quale scelse giocatori sconosciuti e poco costosi infilando una serie di 20 vittorie consecutive (la storia è narrata in Moneyball, film del 2011 con Brad Pitt nei panni di Beane), salvo non confermarsi nelle stagioni successive. È stato Beane a suggerire il licenziamento di Maldini nel giugno del 2023 per privilegiare le analisi degli algoritmi al posto di valutazioni che si ritenevano troppo soggettive. Meno di un mese dopo Sandro Tonali, uno cresciuto con il mito di Franco Baresi e Rino Gattuso, già ribattezzato «capitan futuro», è stato venduto al Newcastle per 58 milioni (non gli 80 accreditati per addolcire lo sciroppo). Intervistato pochi giorni fa da Repubblica sulla sua cessione, Tonali ha raccontato: «È un mondo con tanti soldi: per i calciatori e per i club. Quando dici no, deve esserci anche il no del club. Nelle trattative è difficile che ci siano due no o due sì: c’è sempre un sì e un no. Nelle grandi squadre, con tanti soldi in ballo, la bandiera diventa un’utopia». Così, un altro pezzo dello zoccolo duro, un altro mattone di milanismo è stato smantellato. Il Milan al quale sono stato abituato io, ha detto Paolo Condò, non l’avrebbe venduto e avrebbe sempre giocato con Tonali e altri dieci.

Nell’ultima uscita pubblica Cardinale ha promesso che avrebbe portato il Milan a «vincere con intelligenza». Purtroppo, grazie alla cancellazione perpetrata, persevera a perdere con ottusità.

 

La Verità, 4 marzo 2025

Sarà «Milan nuovo»? Gli errori vengono da lontano

Il Milan è partito per Riad, capitale dell’Arabia Saudita dove si disputa la Supercoppa italiana, con un nuovo allenatore. È Sergio Conceiçao che nella notte post match pareggiato con la Roma ha preso il posto di Paulo Fonseca, giubilato senza troppo rispetto dalla folta dirigenza rossonera, dopo averlo fatto rispondere al fuoco di domande sul suo futuro che, sebbene tutti, lui compreso, sapevano già segnato, lo hanno costretto a recitare la parte del coach ancora in sella. Da un portoghese all’altro, Fonseca ha pagato errori suoi, lacune nella gestione della rosa, difetto di risultati. Ma ha pagato anche errori gravi che non gli appartengono.
Andando con ordine. Al netto di alcuni ruoli non ben coperti, soprattutto in difesa, il Milan ha una classifica che non rispecchia il valore della rosa e questa discrepanza fra potenziale e risultati non si può non imputare all’allenatore. La piazza rumoreggiava e non poteva pazientare oltre perché, sbiadito prestissimo l’obiettivo scudetto, continuava ad allontanarsi anche la zona Champions. Ci sarebbe il confronto con la Juventus di Thiago Motta, protagonista di una stagione simile a quella rossonera, oggetto di un ossequio assai diverso dei media, ma questa è una vecchia faccenda. Fonseca, un gran signore, è sempre stato lucido nelle analisi sul comportamento dei suoi. Nell’ordine, ha denunciato «mancanza di aggressività» quando subivano troppi gol e il Milan era la squadra meno fallosa del campionato (ma curiosamente tra le prime per ammonizioni). Lentamente, fatte salve alcune amnesie, il rendimento della difesa è migliorato. Sui limiti di «atteggiamento» e di «continuità» nelle partite contro le squadre minori, invece, le contromisure non sono state trovate. Fonseca ha accusato la scarsa applicazione con cui si spendevano Rafa Leao e Theo Hernandez. Anziché essere gli elementi trainanti hanno remato contro. I casi sono noti, dal famoso cooling break nel match contro la Lazio all’ammutinamento al momento dei rigori sbagliati contro la Fiorentina. Con il consenso della dirigenza, l’allenatore ha provato la terapia del bastone, relegando in panchina i contestatori negligenti. Qualche progresso c’è stato, ma è innegabile che il clima nello spogliatoio fosse compromesso. Soprattutto, non si è risolto il problema delle «montagne russe» tra una partita e l’altra e all’interno delle stesse partite. Al Milan difettano la malizia e il cinismo di qualche leader che sappia guidare la squadra e gestire le situazioni.
Andando più indietro, rimangono ancora nebulose le ragioni della scelta di Fonseca nella scorsa estate. Scartato Lopetegui per sollevazione popolare, ovvio il rifiuto di Antonio Conte per motivi caratteriali (incompatibilità con Zlatan Ibrahimovic) e tecnici (difesa a tre, allenamenti militari…), con sei mesi di ritardo si va su Conceiçao augurandosi che basti a risollevare le sorti di una società colpevole di molti errori. Nell’ultimo mercato, per esempio, l’acquisto di Emerson Royal, ma soprattutto le cessioni di Kalulu alla Juventus, diretta rivale, Adli e Pobega, per accorgersi ora che a centrocampo la coperta è corta.
Come la farraginosa gestione dell’uscita di Fonseca, per la quale anche Ibrahimovic presentando il nuovo coach si è scusato, anche quella dei giocatori palesa inesperienza e incertezza della dirigenza. Una dirigenza pletorica, in cui non si sa chi comandi. Basta fare il confronto con altre società. Alla Juventus ci sono Thiago Motta e Cristiano Giuntoli, all’Inter Simone Inzaghi e Beppe Marotta. Stop. Al Milan c’è l’allenatore voluto non unanimemente dai dirigenti (perché sono troppi). Ci sono Ibrahimovic (consulente di Gerry Cardinale, il proprietario), Giorgio Furlani (amministratore delegato), Geoffrey Moncada (capo scouting) e Paolo Scaroni (presidente). Il problema è che tutti parlano, fanno interviste, si pronunciano… E, ancor più, il problema è che, nonostante la lunga filiera, manca un dirigente che faccia da collegamento tra la squadra e la società. Doveva esserlo Ibra, questa figura, ma di fatto non lo è: per inesperienza, perché ufficialmente è il consulente della proprietà e forse perché è troppo concentrato su di sé.
Questi errori della proprietà americana, oltre i proclami manifestano poca considerazione della storia e dell’identità del marchio Milan. In un certo senso, somiglia alla vicenda della Roma, con i Friedkin. «Vincere con intelligenza», come ha detto Cardinale, significa che si ritiene prioritario il pareggio di bilancio sul conseguimento di trofei? Nell’incertezza sulla risposta, di sicuro c’è che questa dirigenza si sta mostrando incapace di perseguire entrambi gli obiettivi. Soprattutto, questa proprietà ha un peccato originale difficile da perdonare. La cacciata di Paolo Maldini, simbolo, bandiera e ottimo manager (anche se non perfetto, come dimostrano gli acquisti di Origi e Ballo-Touré e l’estenuante trattativa per Charles De Keteleare che ha caricato di pressioni il giocatore, liberatosi delle quali, è sbocciato). L’agitarsi di troppi protagonismi sembra il modo per far dimenticare il fantasma di Maldini. Che, va detto, condiziona tuttora la narrazione sul mondo rossonero perché molti commentatori sono suoi ex compagni, suoi ex allenatori o giornalisti che si sono affermati durante l’epopea berlusconiana.
Il secondo errore di questa proprietà è stata la cessione di Sandro Tonali, altro mattone di milanismo. Una storia, un sogno, in cui tutta la tifoseria si identificava. In fondo, anche il calcio è fatto di cuore e di anima. Romanticismi? Certo, sentimenti sicuramente non decodificabili con gli algoritmi. Storia e identità: sarà per questo che il Milan è la squadra con meno giocatori italiani?
Può essere un buon programma «vincere con intelligenza»: basta che non sia artificiale.
Buon 2025 a tutti (cominciando dai milanisti)!

 

Dagospia, 3 gennaio 2025

Leone, il maschilismo ha fatto anche cose buone

Fortuna che le neofemministe non guardano i western. Altrimenti, sai che bordello (è proprio il caso di dirlo). Maschilismo e machismo in tutte le sfumature di tossicità. Niente patriarcato, invece. Perché nessuno dei protagonisti è un padre e, anzi, l’unico che lo è finisce presto lungo disteso prima di essere serrato in una bara come la sua stessa prole. Insomma, una vera sorpresa, illuminante delle diverse accezioni tra le varie forme di mascolinità di cui tanto cianciamo oggidì. E pure con scorrettissimo colpo di scena finale. Motivo per cui l’autore del western in questione e, molto secondariamente, io stesso che ne parlo, ci attireremo gli anatemi, postumi nel suo caso, delle femministe e deI bel mondo arcobaleno.
Insomma, l’altra sera dopo l’ennesima libagione poco controllata, ho seguito uno dei consigli di Marco Giusti su Dagospia e ho rivisto su Rai Movie C’era una volta il west di Sergio Leone, anno domini 1968. Dopo la Trilogia del dollaro, è il primo film della Trilogia del tempo (con Giù la testa e C’era una volta in America). Opera con cast tecnico e artistico superbi. Il soggetto, per dire, fu scritto da Leone con Bernardo Bertolucci e Dario Argento, all’epoca ancora critico cinematografico di Paese sera. Bertolucci, invece, aveva visto Il buono, il brutto, il cattivo in un cinema di Roma allo spettacolo delle tre del pomeriggio e proprio lì aveva incontrato gli altri due. Qualche giorno dopo, il regista gli aveva telefonato per chiedergli se gli fosse piaciuto il film. Bertolucci disse che sì, gli era piaciuto e, alle insistenze di Leone sulle motivazioni, si era soffermato sulle riprese dei culi dei cavalli. «In generale», argomentò, «nei western sia italiani che tedeschi, i cavalli venivano ripresi frontalmente e di fianco. Ma quando li filmi tu mostri sempre i didietro; un coro di didietro. Sono pochi i registi che riprendono il retro, che è meno retorico e romantico. Uno è John Ford. L’altro sei tu». Nacque così la collaborazione fra i due. La sceneggiatura invece la scrisse Sergio Donati, già autore dei precedenti western di Leone.
Tralasciando gli antefatti del set, l’altra sera volevo soprattutto rivedere quel cast di attori. Henry Fonda, il preferito dal regista, per la prima volta nella parte del cattivo Frank (doppiato da Nando Gazzolo), con spolverino fino ai piedi e i suoi occhi azzurri (si era presentato con lenti a contatto marrone e barba scura, ma Leone glieli tolse entrambi, sicuro che il celeste originale gli avrebbe dato un’aria più spietata). Charles Bronson nei panni di Armonica, volto meticcio, sguardo da buono e modi da duro che, sebbene non sia quello di Clint Eastwood com’era nei desideri del grande cineasta, regge i primi piani di Fonda. Jason Robards nel ruolo di Cheyenne, il terzo della situazione (attore più volte citato da Quentin Tarantino che al western italico si è abbeverato). Lui è innamorato di Jill McBain (Claudia Cardinale), l’ex prostituta in procinto di diventare la seconda moglie di Brett McBain, con il quale avrebbe dovuto costruire una stazione ferroviaria perché proprio lì si trova la falda che può alimentare le locomotive a vapore, se non fosse arrivata dopo la strage perpetrata da Frank su mandato di Morton (Gabriele Ferzetti), il boss storpio che vive nel vagone di un treno. Volevo riascoltare la colonna sonora di Ennio Morricone, con le note taglienti dell’armonica. Rivedere le lentezze che qualche critico imputò al regista consacrato dalla precedente trilogia. Riassaporare i dialoghi scarni e pieni di sottotesti, ma subalterni ai primissimi piani dei volti e ai campi lunghi sulla cittadina immaginaria di Sweetwater. Volevo gustarmi due ore e mezzo di quell’epica primordiale: il sopruso violento, il riscatto della bella che per sopravvivere si lascia prendere dall’assassino del marito, la vendetta del giusto.
Quello che non mi aspettavo era l’azzardo maschilista di Leone. Il grande paradosso machista, rimosso per quanto all’epoca era considerato nell’ordine delle cose. Nessuna critica riguardò il passaggio, tutt’altro che marginale, che sto per enucleare. Sebbene non incassò quanto Il buono, il brutto, il cattivo, C’era una volta il west è classificato come capolavoro del genere, comparendo in tutte le classifiche dei migliori film del XXº secolo. Schiere di registi, oltre a Tarantino, Martin Scorsese, George Lucas e John Carpenter, ne sottolinearono l’influenza sul loro cinema. Il passaggio spericolato, la sorpresa che farebbe sclerare le neofemministe se solo riuscissero a vedere film così, Leone lo fa interpretare a Cheyenne, non a caso il più sentimentale dei tre uomini. Siamo verso la fine della storia, i cowboy lavorano alacremente per costruire la stazione e il binario per collegare il territorio. Cheyenne sorseggia il caffè preparato dalla bella vedova dal passato turbolento: «Mia madre lo faceva così, caldo, forte, buono», commenta. Poi si rivolge a lei: «Se fossi in te porterei da bere a quei ragazzi. Tu non immagini quanta gioia mette in corpo a un uomo una donna come te. Anche solo vederla. E se qualcuno di loro ti tocca il sedere, tu fai finta di niente. Lasciali fare». Dice proprio così. E, poco dopo, prima di salutarla, compie lui stesso il gesto insolente, ripetendo: «Fai finta di niente».
Eravamo nel 1968. Per educarci, mia madre ci ripeteva: «Le donne non si toccano nemmeno con un fiore». Ma quello era un film western, apoteosi di mascolinità tossica, secondo la vulgata corretta odierna. Sempre visto oggi, Jason Robards sembra mortificare quell’ex prostituta mentre, in realtà, ne esalta il potere: «Non immagini quanta gioia mette in corpo a un uomo una donna come te». Un paradosso sottile che a qualcuno può sembrare azzardato. Soprattutto, un passaggio da non decontestualizzare. Il maschilismo ha fatto anche cose buone.

 

La Verità, 29 dicembre 2024

Gerry, il milanismo non si compra con gli algoritmi

Caro Gerry Cardinale,

legga bene fino alla fine le parole che seguono. Sono un vecchio tifoso del Milan, la società di cui è divenuto proprietario il 31 agosto scorso e che, con le sue prime azioni, sta maltrattando brutalmente. Il primo gesto di cui si è reso protagonista è stato licenziarne la storia e il carisma nella persona di Paolo Maldini. Il secondo atto, quasi peggiore del primo, è stato vendere l’anima del Diavolo, cioè Sandro Tonali. Sono attonito. Subito, quando ha preso a circolare l’indiscrezione che Tonali era nel mirino del Newcastle, ho postato un tweet di totale incredulità. Non potevo ammettere che l’Ac Milan si macchiasse di un errore simile e che un giocatore tifoso fin da bambino, che si era ridotto l’ingaggio per favorire il suo passaggio definitivo al club dopo il primo anno in prestito, disputato al di sotto delle aspettative, potesse lasciare la squadra del cuore. Invece, era vero. Non mi sono ancora ripreso e chissà se e quando ci riuscirò.

Sono convinto che molti tifosi condividano questo mio stato d’animo. Di delusione profonda. Di disamore crescente.

Ci ho pensato a lungo, prima di scriverle, provando a contare fino a dieci, a cento. Ma, più il tempo passava, più le mie convinzioni si rafforzavano… Vede, caro Gerry Cardinale. Tonali era leader in campo, esempio del cosiddetto milanismo, un sentimento che o si prova o è difficile spiegarlo. Uno che affrontava a brutto muso Dumfries durante il derby con l’Inter perché voleva far rialzare rapidamente Theo Hernandez dopo un fallo, dicendogli: occupati della tua squadra, ai miei ci penso io. Era il capitano dei prossimi dieci anni, milanista fino al midollo. Era il perno, il giocatore su cui costruire i successi del futuro insieme ad alcuni altri già nella rosa costruita da Maldini (e Massara): Leao, Maignan, lo stesso Hernandez, Bennacer, Tomori, Thiaw.

L’Inter, per fare un esempio, ha dichiarato incedibile Barella. Forse, anzi, sicuramente, sono un ingenuo perché, dopo che ha licenziato in dieci minuti Maldini, sbaglio ad aspettarmi che apprezzi questo tipo di ragionamenti. Disapprovo queste sue azioni. Sono convinto che in Europa la storia conti più che in America. E il calcio non sia un mondo qualsiasi, un’industria come quella degli elettrodomestici o delle automobili. Ci sono altre variabili, altre componenti, umane oserei dire, che gli algoritmi stentano a interpretare.

Vede, caro Cardinale, ci sono tifosi come me che hanno iniziato a tifare Milan da bambini, quando indossava la maglia rossonera un certo Gianni Rivera che lei sa certamente chi è. Fu il primo italiano a vincere il Pallone d’oro nel 1963 (c’era già stato Omar Sivori, ma era oriundo argentino con cittadinanza italiana), l’anno in cui il Milan conquistò, prima squadra italiana, la Coppa dei campioni, antenata della Champions league. Capitano di quel Milan era un certo Cesare Maldini, padre di Paolo, appunto. Rivera era estetica e intelligenza, le stesse che si videro nel celeberrimo 4-3 di Italia-Germania, mondiali del Messico 1970, riconosciuta «la partita» del XXº secolo. Con Rivera in campo, nel 1978-79 il Milan vinse il decimo scudetto della stella. Suo compagno era Franco Baresi che, dieci anni dopo, sarebbe stato il capitano del Milan guidato da Arrigo Sacchi, intuizione visionaria di Silvio Berlusconi, il presidente  («Un presidente! C’è solo un presidente!», cantavano i tifosi al suo recente funerale) che avrebbe creato la squadra eletta dall’Uefa la migliore di sempre, inanellando vittorie e trofei a tutte le latitudini. In quel Milan giocavano Marco Van Basten, Ruud Gullit, Frank Rijkard e un certo Paolo Maldini, rossonero per tutta la vita e capitano dopo Baresi. Ancora estetica e intelligenza. Tramontati gli olandesi, arrivarono Zvonimir Boban e Dejan Savicevic, Andrij Shevchenko e Ricardo Kakà, solo per citare gli stranieri, allenati da Fabio Capello e Carlo Ancelotti, entrambi ex giocatori rossoneri e successivamente tra i migliori e più vincenti coach della storia del calcio. Arrivarono molti altri successi.

Oggi, la cessione di Tonali per 80 milioni al Newcastle viene raffrontata proprio a quelle di Shevchenko e Kakà, tra le più remunerative e dolorose della nostra storia, il primo al Chelsea (per 45 milioni), il secondo al Real Madrid (per 67). Sia l’uno che l’altro non sfondarono nelle nuove squadre (curiosamente allenate entrambe da Josè Mourinho) e, dopo un paio d’anni, tentarono un malinconico ritorno al Milan. Che non funzionò. Gli incantesimi si infrangono e non sono riproducibili a comando.

Va detto, la nostra storia non è sempre stata scintillante. Le appartengono anche le scivolate in serie B e gli anni di patimenti e mediocrità. Anni in cui non si è smesso di tifare, anzi. Anni in cui gli spalti di San Siro erano comunque pieni di folla. Anche questa è la storia cui lei ha mancato di rispetto licenziando in quel modo Maldini. Che, detto per inciso, da uomo può anche sbagliare e commettere errori. Mettendo tutto sulla bilancia, però, il saldo è ampiamente positivo, non fosse altro per la rapidità con cui, merito di tutto l’ambiente a partire da Stefano Pioli, il club è tornato competitivo e vincente pur con una rosa oggettivamente inferiore a quella dei principali concorrenti.

Oltre alla storia, non dichiarando incedibile Tonali, lei ha frustrato molti sogni. Certo, un altro bravo centrocampista si potrà trovare, glielo auguro (e non so più se dire «me» lo auguro), ma difficilmente saprà interpretare il milanismo che ho provato a delineare. Lei penserà che ci sono proposte impossibili da rifiutare e che con l’incasso di questa cessione si potrà rifare la squadra con nuovi giocatori. La modernità viaggia su altri criteri, penserà dall’alto della sua esperienza di manager e grande uomo d’affari. Può darsi che sia così. Da inguaribile romantico la penso al contrario. Non tutto può essere ridotto a questo calcio cinicamente mercenario. E, forse, la scelta per l’Inter di Marcus Thuram che corteggiavamo da tempo potrebbe accendere la spia e farla riflettere.

Qualche anno fa era in voga lo spot di un papà che andava al supermercato con la figlia piccola e sceglieva i prodotti con lei, pagando con una carta di credito. La spesa era un appuntamento abituale, un divertimento complice tra il papà e la bambina e il claim finale dello spot recitava: ci sono cose che non si possono comprare, per tutto il resto c’è Mastercard. Ecco, caro Cardinale, ci pensi e provi a farmi tornare l’amore per il Milan, se ci riesce. So che con RedBird ha avuto molte soddisfazioni economiche in altre discipline sportive. Ma per noi tifosi di calcio le uniche soddisfazioni che contano sono le vittorie e l’amore per i nostri colori. Ci pensi bene. Pensi bene se sente di essere all’altezza di questa storia. Altrimenti è meglio che lasci a chi è sicuro di esserlo.

Distinti saluti.