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«Il vero rivoluzionario fu il generale Dalla Chiesa»

A differenza di altre opere sugli anni di piombo viste di recente, compresa I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, trasmessa ieri sera da Rai 3, Il nostro generale è «un film», come preferisce chiamarlo Sergio Castellitto, che ti rimane appiccicato addosso. Merito del regista Lucio Pellegrini (e Andrea Jublin), degli sceneggiatori e di tutto il cast nel quale, oltre al protagonista che incarna Carlo Alberto dalla Chiesa, spiccano Teresa Saponangelo (la moglie) e Antonio Folletto (il carabiniere dei Nuclei speciali antiterrorismo). Gli ultimi quattro episodi andranno in onda su Rai 1 lunedì e martedì, ma sono già disponibili su Raiplay.

Sergio Castellitto, quanto conosceva Carlo Alberto dalla Chiesa prima d’interpretarlo?

«Lo conoscevo bene, da cittadino di quegli anni terribili. Ero un attore giovane, allievo dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico a Roma, e nutrivo ammirazione per lui. Perciò, ora, trovandomi a interpretarlo, non ho avuto problemi di conflitto. Nutro ammirazione anche ora per i suoi figli, per il modo in cui hanno difeso, testimoniato e protetto la figura del padre fino a oggi, e per il pudore con cui non hanno mai ceduto al vittimismo che avrebbe potuto prenderli».

Come definirebbe il generale Dalla Chiesa?

«Una persona di stampo quasi ottocentesco, ma che ha saputo essere contemporanea al suo secolo. Trovo significativo il successo che il film ha avuto finora, perché per la prima volta una serie tv racconta che il piombo era quello delle P38, ma anche la pesantezza che avevamo nell’anima».

Perché trova significativa la risposta del pubblico?

«Ho avuto la sensazione di una collettività interessata a ritrovarsi attorno a questo grumo di memoria, quasi un’emotività nazionale, non dico patriottica, oggi parola rischiosa. Nell’approfondire la memoria di quel decennio può esserci la ricerca di un’identità. Forse l’abbiamo rimosso, ma abbiamo vissuto un clima da guerra civile. Ricordo che una mattina, nel breve tragitto per l’Accademia la polizia mi fermò per tre volte, chiedendomi i documenti».

Forse abbiamo rimosso quel clima e anche Dalla Chiesa lo ricordiamo solo per due o tre cose, l’iscrizione alla P2, il secondo matrimonio con Emanuela Setti Carraro e l’agguato della mafia?

«Questa è la narrazione prevalente, non la mia. La vicenda della P2 è stata banalizzata, dimenticando il contesto in cui gli proposero l’iscrizione, quando s’ignorava ciò che sarebbe diventata. In quel momento, Dalla Chiesa era solo e isolato anche nell’Arma dei carabinieri perché i suoi successi ingelosivano. Quanto al fatto di essersi risposato, dopo aver sempre amato teneramente la prima moglie e aver incontrato un altro amore in un momento ancora di solitudine, questo me lo rende ancora più umano e vicino. A proposito della morte tragica, lo ricordo come il generale, non come il prefetto di Palermo. Con il cappello, l’uniforme e un linguaggio che può sembrare retorico quando parla del dovere di difendere la democrazia».

Può essere retorico pensare che un ufficiale dei carabinieri sia un grande servitore dello Stato?

«Non ne sono convinto. Quando un poliziotto, un finanziere o anche un politico sbaglia lo si definisce corrotto. Quando sbaglia un carabiniere si usa la parola infedele. Questa è la differenza. Nell’Arma la fedeltà non è alle regole, ma ai principi che stanno sopra le regole e che lo guidano nei momenti di svolta».

Quando gli chiedono di tornare a Palermo per combattere la mafia?

«Tutti i nuovi incarichi li accetta per senso del dovere, perché non poteva non farlo, per continuare a guardare in faccia i figli. Ricordiamoci che ha vissuto e fatto vivere la sua famiglia in una sorta di reclusione, nelle caserme. La figlia Simona si è sposata in un garage, il funerale della moglie si celebrò in un hangar. Quando va a trovare Patrizio Peci, in carcere, gli dice: “Ho vissuto tutta la mia vita in guerra”».

Guerra è la parola più pronunciata.

«Perché lo è stata. Una guerra che ha segnato non solo gli schieramenti politici di quei giovani, ma i tragitti esistenziali fatti di rimorsi, di pentimenti, di ferite non rimarginabili. Una generazione di italiani è diventata orfana».

Il racconto si snoda nella contrapposizione speculare tra due gruppi di giovani, «i monaci della rivoluzione» e «i monaci di Dalla Chiesa».

«Certo. Teniamo presente che l’idea d’insurrezione armata può essere molto seducente per una generazione che pensava di avere ragione. La lotta contro l’ingiustizia sociale può esprimersi con metodi pacifisti o con la violenza, come avvenne. Anche Dalla Chiesa è stato a sua volta un innovatore. Ha inventato un metodo investigativo, ha capito che serviva una specializzazione professionale, ha dato la giusta importanza alla psicologia, ha riconosciuto dignità all’avversario».

A Peci che gli chiede perché ha fatto il carabiniere, il napoletano Trucido risponde: «Per gli stessi motivi per cui tu volevi fare la rivoluzione, un mondo più giusto dove la gente non deve avere paura dei prepotenti».

«Sono due giovani che si confrontano su un tema che li investe in modo totalizzante. Però, si deve scegliere da che parte stare».

Quando Peci gli dice: «Sei un proletario che ha sbagliato divisa», viene in mente la poesia di Pier Paolo Pasolini su Valle Giulia che vedeva i proletari tra i poliziotti mentre i rivoltosi erano figli di papà?

«Solo uno illuminato come lui poteva accorgersi lucidamente di chi fossero quei giovani, cogliendone le storie esistenziali, oltre l’ideologia e la sociologia. A questo riguardo bisogna ripetere che proprio il generale si è dimostrato un rivoluzionario».

In che senso?

«Facendo il proprio dovere ha pescato i ragazzi del Nucleo speciale secondo i suoi criteri fino a creare con loro una seconda famiglia. Era il loro capo, il capo dell’Antiterrorismo, ma in un certo senso anche un loro padre. E spesso i livelli di coinvolgimento si mischiavano».

Risponde a questa impostazione anche raccontare la storia con gli occhi di un uomo dei Nuclei speciali?

«Direi di sì. È un  punto di vista diverso dal solito. Ci sono i terroristi, le vittime e i sopravvissuti che portano la memoria del dolore che, altrimenti, rischia di essere archiviato. È importante dopo quasi mezzo secolo parlare di quei fatti con distacco, ma senza perdere l’odore delle ferite. Questa storia ricade inconsciamente anche sul carattere dei miei figli perché hanno un padre che ha vissuto quegli anni. I nostri libri di storia si fermano alla Seconda guerra mondiale mentre i decenni successivi restano ancora prigionieri delle polemiche. Soprattutto il decennio dei Settanta, che sono stati anni ciechi; appunto, di piombo».

Nella docu-serie su Lotta continua trasmessa da Rai 3 Erri De Luca dice che i loro, che pure portarono all’assassinio del commissario Luigi Calabresi, erano «anni di rame».

«Il rame si ossida e diventa scuro, assumendo presto il colore del piombo».

Cosa vuol dire che anche in una guerra come quella bisognava avere rispetto dell’avversario?

«Dalla Chiesa parla di rispetto perché dice che i terroristi si comportano anche loro come dei soldati. Anche in termini strategici, rispettare l’avversario vuol dire capirlo meglio e avere così più possibilità di batterlo».

Pur condannando violenza e terrorismo resta la possibilità di una redenzione per chi li ha praticati?

«Alcuni di quei brigatisti hanno fatto un percorso oltre il pentimento. Una volta mi colpì molto Franco Bonisoli, un membro della direzione delle Br che, intervistato da Sergio Zavoli, manifestò tutta la sofferenza e il tragico rammarico per gli atti compiuti, testimoniando la possibilità reale di un cambiamento».

Dopo Giovanni Boccaccio nel Dante di Pupi Avati e Dalla Chiesa cosa dobbiamo aspettarci?

«In questo periodo sono a teatro con Zorro, un monologo scritto vent’anni fa da Margaret Mazzantini, ma attualissimo. È la storia di un uomo che perde tutto e diventa un clochard: la dignità ce la dà la regola della società civile o un atteggiamento interiore? Personalmente, a volte trovo umilissimi contadini pieni di una dignità invidiabile al confronto di grandi intellettuali con i quali non dividerei un pasto».

Dalla Chiesa appare una persona che ha saputo stare in prima linea in un momento tragico ed essere ottimo padre e marito. Oggi è più difficile combinare dimensione pubblica e privata?

«Penso sia più difficile a causa della disintegrazione procurata dalla virtualità apparentemente democratica che ci fa costruire o demolire tutto in un cinguettio di poche battute. Credo che quel nucleo che si chiama famiglia, quell’aggregato di affetti, amore, sangue e anche conflitti sia una necessità fondante. Per me è così. Essendo artisti abbiamo l’opportunità di accedere a codici e strumenti come la fantasia e l’immaginazione, e questo ci aiuta. Lo dico senza fare nessun parallelo con Rita, Simona e Nando che hanno saputo rimanere sentinelle della memoria del padre».

L’ultima volta che ci siamo parlati era critico sulla gestione delle norme per la pandemia. Oggi lo è di meno?

«Spero non si ricominci a chiudere tutto. Paradossalmente, potrebbe aiutarci a evitarlo il meccanismo dei media secondo il quale, appena c’è qualcosa di più importante, come oggi sono le accise e il caro bollette, anche i problemi di salute passano in secondo piano».

Vorrebbe una revisione critica maggiore degli anni che abbiamo vissuto?

«Più onesta e più critica. Io sono iper-vaccinato, ma non approvo l’atteggiamento punitivo al quale ho assistito verso chi non voleva sottoporsi ai protocolli. Uno Stato che punisce chi non sta dentro una regola sanitaria non mi appartiene. Sì, vorrei una revisione maggiore. Una delle notizie che mi ha stupito di recente è che lo Stato paga un milione di euro al mese a chi deve mantenere nei magazzini le mascherine rivelatesi fuori norma. Siamo precipitati dentro un girone kafkiano».

Che cosa le piace e che cosa no dell’Italia di oggi?

«Mi piace il fatto che, alla fine, gli italiani trovano sempre da qualche parte risorse per avere fiducia nel futuro».

 

La Verità, 14 gennaio 2023

«Farò la terza dose, ma il pass non mi convince»

Sergio Castellitto non si allinea. Anzi, si potrebbe dire che si ribella. Al pensiero unico, al gne gne salottiero, al chiacchiericcio dei talk show. Per questo, ascoltarlo qualche sera fa motivare il suo «pensiero altro» davanti a Giovanni Floris ha suscitato curiosità e voglia di approfondire. Lunedì lo vedremo su Rai 1, protagonista di Crazy for football, film-tv tratto dalla storia vera di una squadra di calcetto composta da persone con problemi psichiatrici che punta  a partecipare al campionato del mondo della sua categoria. Castellitto sarà Saverio Lulli, un medico visionario e generoso.

Forse troppo?

«La generosità non è mai troppa. Il suo contrario sarebbe la misura, la capacità di essere strategici? Da psichiatra ci caschi per forza, l’emotività ha i suoi diritti. E anche se gli psichiatri cercano di mantenere la giusta distanza, alla fine credo che le relazioni umane, con i loro conflitti, siano la benzina che ci tiene vivi. Parliamo molto della violenza esteriore, ma tendiamo a sottovalutare quella che investe la nostra interiorità».

Perché ha creduto in questo film-tv?

«Il mondo della psiche è importante nel mio mestiere. Gli attori lavorano molto sul “materiale emotivo”, mi sto autocitando. È un mondo che ho sempre frequentato fin da Il grande cocomero di Francesca Archibugi e poi nelle tre stagioni di In Treatment per Sky».

Poi c’è il calcio.

«Uno sport che è un gioco. Ma è anche una metafora, con due squadre, quasi due eserciti che si affrontano per prevalere e che offre la possibilità di raccontare la solitudine. Questi due gruppi di ragazzi trovano nel gioco una possibilità quasi terapeutica di mescolare le loro solitudini e di comprendere meglio la propria individualità. Infine, mi piaceva che al centro ci fosse non uomo perfetto, ma un padre e marito imperfetto. Spesso sono le nostre imperfezioni a renderci speciali. Perché dovremmo cominciare a chiederci cosa voglia dire essere normali e cosa non esserlo».

C’è bisogno di storie costruttive dopo quello che abbiamo passato e stiamo passando?

«C’è bisogno di dimenticare. Ma anche di impreziosire ciò che ci è accaduto, per esempio attraverso l’attività di noi artisti. Dobbiamo essere disposti a raccontare l’intimità di questa immane tragedia. Non ho mai creduto che saremo stati migliori. Rispetto a cosa? Purtroppo il dibattito politico mi dà la sensazione che i rancori e gli odi siano tornati a essere materia da prima serata».

Perché nonostante la riapertura al 100% le sale cinematografiche non si riempiono?

«C’è una sorta di ginnastica riabilitativa che ognuno di noi deve fare. Abbiamo voglia di riprendere i riti della socialità, il cinema, i concerti, il ristorante. Ma dopo due anni di isolamento e solitudine, una certa titubanza è comprensibile e legittima. I media non in crisi sono l’oggetto che tutti abbiamo in salotto e i social. Sono i totem moderni, la Chiesa, il Parlamento, l’opinionismo».

Il pubblico stenta a ritrovare l’abitudine di andare al cinema?

«Tutto ciò che ci costringeva a fare il gesto attivo di andare in un posto, che implicava la decisione di partecipare non è più automatico. Dobbiamo ricominciare. L’unico vantaggio è che vincerà la qualità. I rami secchi saranno tagliati e prevarrà ciò che ha davvero un senso. Sono ottimista senza essere superficiale».

Tra i media che sono cresciuti durante la pandemia ci sono anche i libri, protagonisti del suo Il materiale emotivo: quanto dobbiamo esserne contenti?

«Sì, dobbiamo essere contenti. Pur sapendo che i libri li abbiamo comprati soprattutto su Amazon. In Italia si pubblica una quantità esorbitante di libri rispetto a quanto si legge. Ma la letteratura non è un fatto di quantità perché nasce dentro la solitudine di un artista. Lo vedo con mia moglie, Margaret Mazzantini. Costruire un mondo, raccontare una storia e metterci la propria visione del mondo è un gesto a suo modo titanico».

Le rifaccio la domanda che le fa Yolande nel film: cosa vuol dire che l’attualità uccide?

«E io rispondo come il mio personaggio: “L’attualità ci folgora, ci rende più fragili”. Lui è circondato da amici. Sono i personaggi dei romanzi di Dostoevskij, di Simenon, Don Chisciotte… La sera davanti ai fatti terrificanti che ci raccontano i telegiornali continuiamo a mangiare, indifferenti. Ma se leggiamo in un romanzo di un gatto che muore magari ci commuoviamo. L’attualità ci anestetizza, offrendoci anche l’alibi di essere informati. Io vorrei capire di più di come l’informazione accende e spegne le notizie».

Cosa intende dire?

«Faccio un esempio. Ci siamo tutti fermati davanti a quel bambino lanciato per essere salvato oltre il muro dell’aeroporto di Kabul, ma una settimana dopo nessuno si è più chiesto che fine abbia fatto. Romanticamente, sogno un’informazione che mi dica dov’è finito, se ha trovato una famiglia, se un giorno potrà studiare a Oxford o tornerà a Kabul».

Non si fida molto dei media, mi pare.

«Ora stiamo assistendo al G20, un appuntamento importante e necessario. Ma ho la sensazione che questa rappresentazione somigli alle vecchie parate militari, quando ce ne stavamo dietro le transenne a veder passare i bersaglieri. Come osservava Luigi Pirandello: vedo tante maschere e pochi volti».

Che cosa le ha lasciato l’esperienza di malato di Covid?

«Il sentimento più presente è stata la solitudine. La sensazione di essere caduto nel mistero che questa malattia è stata ed è ancora».

Una solitudine dovuta al fatto che i suoi famigliari non potevano avvicinarla?

«Una solitudine interiore. Ogni malattia in qualche modo consente il riaccendersi di un colloquio con sé stessi. Ascolti il tuo corpo, riguardi al tuo passato, improvvisamente ti trovi su un baratro. Non ne parlato prima perché non mi piaceva un certo esibizionismo della malattia. Quando ne esci tendi a rimuoverla, ma una cicatrice, un senso di fragilità rimane».

La convince l’intransigenza con cui vengono indicate alcune regole di protezione?

«Non mi convince perché nel dibattito in corso, se non ti schieri completamente da una parte, diventi il nemico e sei etichettato come barbaro. Con chi la pensa diversamente da me, preferisco praticare il confronto anziché il conflitto. Lo dico con il green pass in tasca, voglio capire perché resiste questa minoranza. In questi anni si è insistito giustamente sull’accoglienza delle minoranze. Tra coloro che non si allineano ci sono intellettuali, filosofi, una persona che stimo come Carlo Freccero. Non si può accettare che sia assaltata la sede della Cgil, ma nemmeno che si sparino gli idranti contro i portuali di Trieste».

Si è scritto e parlato molto più del primo fatto che del secondo.

«Su questo ci vorrebbe un libro più che un’intervista. La narrazione è decisiva. Un giorno qualcuno potrà stabilire se tutto è nato dal pangolino o da qualcos’altro. Ma di questo non si parla».

E non solo di questo.

«Non ci si interroga sul fatto che un 50% di elettori non è andato a votare perché non si sente rappresentato. Ci sono degli establishment che si combattono. Se si continua fare buoni contro cattivi non si va da nessuna parte».

Anche perché i buoni sono sempre gli stessi.

«È pleonastico dire che siamo contro la violenza. O che gli immigrati vanno salvati. Un problema da risolvere è anche l’ipocrisia dell’Europa. L’uomo si è sempre spostato verso la ricchezza. Ma dobbiamo avere gli strumenti per aiutare davvero chi soffre, sia civilmente che sul piano morale».

I fautori del Green pass intransigente dicono che è garanzia di libertà.

«Io credo che nelle sue modalità conservi delle contraddizioni. Se salgo su un autobus o nel metro non mi viene chiesto niente, ma senza green pass non posso andare a lavorare».

Perché negli altri Paesi europei c’è un’applicazione più tollerante?

«Forse sono meno impauriti di noi. Oppure hanno maggiore capacità di imporre regole di altro tipo. In Italia probabilmente serve a selezionare chi accetta le regole e chi no. Le persone che non si vogliono vaccinare, e che per fortuna non sono la maggioranza, continueranno a non farlo. Una democrazia forte dovrebbe saper gestire anche le minoranze dissidenti. Al limite, imponendo l’obbligo vaccinale».

Che sarebbe incostituzionale.

«Certo, è un paradosso. Io le regole le rispetto, ma questo non m’impedisce di ragionare. Davvero c’è stata la corsa alle vaccinazioni a causa dell’obbligo del green pass? Il governo dia le sue indicazioni e si vada avanti, senza criminalizzare nessuno».

La situazione è così esasperata perché il virus è diventato terreno di scontro ideologico?

«È diventato solo questo. Mentre la verità si raggiunge attraverso il confronto».

Rischiamo di fare del vaccino una nuova religione?

«Lo è già. Lo dico mentre attendo la terza dose».

Però andando al cinema è più contento di avere vicino altri spettatori certificati?

«Relativamente. Un vaccinato può essere contagioso o no? Nessuno è immune nel senso che è totalmente intoccabile. Nelle sale la gente entra con le mascherine e non parla».

Ci stiamo riavvicinando alla normalità?

«Non so definire la normalità. Se si toglie la carne dell’informazione intorno al Covid non so bene cosa ci rimane. Trovo più terapeutico vedere un bel film, leggere un bel libro o ascoltare una bella musica piuttosto che assistere all’ennesimo talk show. Lo dico senza altezzosità. I talk show sono diventati dei casting: si chiama quella giornalista perché sappiamo che litigherà con l’altro ospite e via di questo passo».

Ci si allontana dai media perché sono in gran parte allineati al politicamente corretto?

«Il danno peggiore ci viene dalla cancel culture. Trovo nefasta l’idea di cancellare la storia e l’arte. Oggi Fellini sarebbe censurato a ogni inquadratura. Questo fanatismo ucciderà la creatività. Tutti dovranno allinearsi perché tutti hanno bisogno di denaro. E il denaro te lo dà l’algoritmo. Così lo scrittore non sarà più uno scrittore ma un trascrittore, un pennivendolo. I danni di tutto questo ancora non li immaginiamo».

Dipinge uno scenario cupo.

«Raccapricciante. Ho un figlio di 15 anni che è ancora sanamente eversivo in quello che dice e pensa. A 30 anni dovrà fare i conti con questa cultura. Per fortuna lo abbiamo educato alla libertà e a far girare le idee».

 

La Verità, 31 0tt0bre 2021

Totti contro il tempo, il più difficile da dribblare

Scommessa vinta, e non era per niente facile. Troppe le insidie disseminate sul percorso. Troppi i pericoli. Speravo de morì prima – La serie su Francesco Totti, sei episodi da venerdì su Sky Atlantic, era un rebus impegnativo. Un discreto esercizio di equilibrio e di dosaggi. Innanzitutto, doveva essere una storia scritta e recitata in romanesco, ma in grado di catalizzare un pubblico largo, oltre i colori del tifo, i dialetti e le generazioni. Poi doveva appassionare alla figura di un campione già molto illuminata dai media. Le trappole in agguato erano parecchie, a cominciare dal «rischio monumento», ovvero il bagno retorico che avvolge le grandi personalità sportive. Per finire con il «rischio giù le mani da», ovvero lui non si tocca perché è solo nostro. Insomma, c’era più da perdere che da guadagnare a raccontare con la fiction un campione che, di norma, è oggetto di documentari. Ma era un rischio da correre, considerato che, come dimostrano Il miracolo, Diavoli, Petra, Romulus e Cops – Una banda di poliziotti, per citare qualche titolo alla rinfusa, da un paio d’anni l’obiettivo della piattaforma tv più adulta del sistema è allargare il pubblico attraverso storie più generaliste e popolari. Esattamente come quella incarnata dalla bandiera della Roma, «l’Ottavo re», il campione amato da tutti oltre gli schieramenti del tifo.

Scommessa vinta, dunque. Insieme ai produttori Wildside (Fremantle), Capri Entertainment e The New company e agli autori Stefano Bises, Michele Astori e Maurizio Careddu che hanno attinto da Un capitano (Rizzoli), l’autobiografia di Francesco Totti e Paolo Condò, firma di Repubblica e commentatore di Sky Sport. E qui i giochi di specchi tra le diverse sezioni dell’offerta Sky sono più che mai evidenti. Non a caso la campagna promozionale ha battuto tutti i record di pervasività.

La mossa vincente di produttori e sceneggiatori è stata scegliere un’angolazione attraverso la quale narrare l’intero personaggio. Un Totti privato e incerto, fra il tinello della casa di famiglia, la nuova residenza dov’è costretto a trasferirsi per allentare la morsa dei tifosi, la villa del fuoriclasse. Irrequieto e ombroso, «l’uomo dietro il campione» sente avvicinarsi come una sciagura il momento in cui dovrà appendere gli scarpini al chiodo. Il problema è «che ci pensi come uno che deve morire. Pensarci significa prepararsi mentalmente», lo smaschera e rimprovera ad un tempo Ilary Blasi. «Io mi devo preparare a entrare in campo, il resto sono chiacchiere», replica più che mai riluttante lui. Quando, dopo l’esonero di Rudi Garcia, si annuncia il ritorno in panchina di Luciano Spalletti (un credibile Gian Marco Tognazzi), gli amici storici lo allarmano con un presentimento: è venuto per farti smettere. Francesco non ci crede. In fondo, tra loro c’è sempre stata grande complicità, un’alleanza per il bene della Roma. Eppure, ben presto in spogliatoio iniziano gli attriti. Impuntature sugli orari, divieti pretestuosi. «Lo vuoi capire che non sei più insostituibile?», gli dice a brutto muso il coach. Le mancate convocazioni e le panchine radicalizzano lo scontro. Spalletti diventa l’antagonista da battere, bersaglio di un’improvvida intervista al Tg1. «Uno ha la storia più bella del mondo, ma se gli rovini il finale la butti tutta», riflette Francesco chiacchierando con suo figlio. In fondo, la storia è tutta qui: come e quando finire. Perché, a ben vedere, dietro la sagoma dell’allenatore si cela il vero nemico: il tempo. Chi glielo dice al «Capitano», al «Re di Roma», che a quarant’anni si è fatta una certa? «Sul trono mio c’è scritta la scadenza»: pian piano il dubbio inizia a farsi strada. È Ilary ad avere l’idea giusta e a mandargli Antonio Cassano, compagno di scorrerie dentro e fuori dal campo, che ha già smesso di giocare. «Anche il mondo è rotondo, ma è più grande della palla», gli dice. «Non c’è niente di più grande della palla», ribatte lui. «Io sono 100 volte più felice adesso senza la palla». «Io senza la palla non so chi cazzo sono». Dialoghi semplici, ma diretti. Efficaci nel raccontare la discrepanza tra il desiderio di perpetrare un grande sogno e il fare i conti con il limite ineluttabile. Una faccenda che riguarda tutti, anche chi gioca in prima categoria. Nel fine carriera incombente prende corpo la metafora del tempo che passa, impietoso. È la storia di una bandiera sportiva che smette di sventolare, la fine di un grande sogno. Ma è anche la storia di ogni uomo alle prese con la propria finitudine, con la vita che declina in un soffio. Un fatto al quale non ci si vorrebbe mai rassegnare.

Il regista Luca Ribuoli sceglie un linguaggio scanzonato, da commedia pop, per rendere questo travaglio profondo. Si affida all’uso del fermo immagine per presentare i personaggi, alla voce fuori campo, al romanesco che sdrammatizza, ma che a volte rimane incomprensibile, soprattutto in bocca a Pietro Castellitto, il protagonista, che appare meno spontaneo di Greta Scarano, molto naturale nel ruolo di Ilary, la moglie che vede più lontano. Come a dire che il primattore, chi è dentro, chi è immerso nel proprio travaglio, fatica ad avere la distanza critica necessaria per giudicarlo. E allora è una fortuna avere vicino le persone giuste, quelle che ti fanno aprire gli occhi. E ti aiutano a correggere le impuntature, le miopie e le bravate, nelle quali può impantanarsi persino un bravo ragazzo capace di tenere i piedi sempre ben attaccati a terra, di nome Francesco Totti.

 

La Verità, 16 marzo 2021