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Acab, il manifesto tv per le rivolte contro gli agenti

Una tribù violenta. Un clan con leggi non scritte, ma ferree: noi contro loro. Un pugno di uomini con uno spirito di corpo perverso, perché separato dal resto delle forze dell’ordine. Più duro, estremo, ossessivo. È il terzo dipartimento della Squadra antisommossa della Polizia di Roma. La celere, insomma, protagonista di Acab (sta per All cops are bastards), la serie in sei episodi da ieri disponibili su Netflix. È il branco della polizia disposto a tutto contro No Tav, pischelli figli di papà, tifosi scalmanati, ambientalisti isterici, immigrati dei Cpr. Sempre in prima linea, solo che per loro essere in prima linea significa essere «in guerra»: Roma «nun arretra», urla Mazinga, il leader carismatico della squadra, interpretato da Marco Giallini.
Dopo il film del 2012 diretto da Stefano Sollima, la serie prodotta da Cattleya con la regia di Michele Alhaique, è il secondo derivato dell’omonimo libro scritto nel 2009 da Carlo Bonini, attuale coordinatore dei Longform di Repubblica (che spunta come fonte in un cruciale interrogatorio) e qui autore della sceneggiatura con Filippo Gravino, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini.
Raramente una serie tv è approdata al piccolo schermo con altrettanta tempestività. Mentre l’attualità ci racconta di carabinieri e agenti di polizia sotto inchiesta per aver svolto il proprio dovere nel tentativo di dissuadere immigrati fuori controllo dall’accoltellare qualche malcapitato passante, e mentre le cronache delle manifestazioni volte a trasformare Ramy Elgaml nel George Floyd italiano ci parlano di otto agenti feriti, uno show televisivo atteso e già osannato da gran parte dei media ci descrive un reparto di polizia sotto inchiesta della magistratura per un’azione compiuta oltre il legittimo confine dell’uso della forza. Se mancava un manifesto creativo della rivolta contro gli agenti assassini, da cui i leader della sinistra non prendono le distanze, c’è da temere che sia stato trovato.
Durante un sit-in dei No Tav in Val di Susa, colpito da una bomba carta degli antagonisti rimane a terra il capo della Squadra mobile di Roma. La rappresaglia scatena Mazinga e i suoi uomini all’inseguimento nel bosco e in riva al fiume dei militanti dei centri sociali. Il giorno dopo si scopre che uno di loro è in coma in terapia intensiva. Il nuovo capo, il più democratico Nobili, esponente della «nuova polizia» (Adriano Giannini), arrivato in sostituzione dell’ispettore rimasto in sedia a rotelle, è accolto dal reparto come un corpo estraneo. I dissapori sulla gestione delle successive missioni non favoriscono certo l’armonia. Da Torino, invece, arriva il sostituto procuratore per capire chi ha ridotto in fin di vita il manifestante. Ma l’ordine di Mazinga è negare tutto e negare sempre: non siamo mai andati al fiume dov’è stato rinvenuto il ragazzo. La body cam che avrebbe potuto filmare l’azione degli agenti è sfortunatamente stata bruciata da una molotov. Così, le domande del procuratore tornano al mittente senza risultato. Ma mentre la madre del ragazzo in coma continua a invocare giustizia, un po’ come nelle cronache di questi giorni, dove sindaci ed ex capi della polizia delegittimano l’operato delle forze dell’ordine, anche qui nessuna autorità spende parole di comprensione per l’ispettore colpito negli scontri: le istituzioni sono preoccupate di proteggere solo le vittime di agenti e carabinieri. Intanto, i drammi privati espongono Marta (Valentina Bellè), l’unica donna del reparto, separata dal marito violento, e Salvatore (Pierluigi Gigante), un agente reduce dall’Afghanistan, alle fragilità della solitudine.
Non ci sono affetti, non esiste nulla di buono oltre la divisa e lo scudo di plexiglass. Con le case vuote, persino la sera di Natale si trascorre malinconicamente insieme («Guardali, da soli sono nessuno, solo in gruppo si rianimano», dice l’ex ispettore a Mazinga). Il branco della polizia è un microcosmo composto da uomini borderline, frustrati, testosteronici e razzisti, che vivono in un mondo a parte. Mostrato sempre di notte e fatto di case buie, di blindati, mense e uffici attraversati da luci livide e commentati dall’ipnotica e persistente musica dei Mokadelic. Un mondo nel quale il male e il bene si mescolano e confondono. Come si confondono e si contagiano il cattivo e il buono della storia: «Sono diventato come voi», dice Nobili a Mazinga dopo avergli confidato di aver quasi ucciso un uomo. Alla fine, l’unica cosa che conta è la legge del clan, luogo della consolazione e della rivalsa dei disperati. Un clan che sembra somigliare a quello di camorra raccontato in Gomorra – La serie. In fondo, formule, linguaggio ed estetica di Gomorra e Acab sono simili perché sembrano ritrarre due mondi uguali e speculari. Sollima, qui produttore esecutivo, era il regista delle prime stagioni della serie tratta dal libro di Roberto Saviano, e Cattleya è la casa di produzione di entrambe.

 

La Verità, 16 gennaio 2024

«In Rai la famiglia normale è trasgressiva»

Una serie su una famiglia normale. Su una grande e chiassosa famiglia in cui nonni, figli e nipoti si vogliono bene. Una serie in cui una ragazza che resta incinta decide di tenere il bambino sebbene il rapporto con il padre naufraghi. Una serie senza tonalità arcobaleno e amori omosessuali. Una serie scritta con linguaggio contemporaneo, come si dice; con la chat delle mamme della scuola che si fa gli affari degli altri; con la difficoltà a gestire relazioni complicate, la perdita del lavoro dopo i cinquanta, un figlio affetto dalla sindrome di Asperger, persino con una onlus che lavora per i bambini nati con il labbro leporino. Non sembrerebbe, ma una serie così (media tra il 14 e il 15% di share) esiste, anche se, con l’eccezione dell’Osservatore romano, le grandi firme della stampa l’hanno quasi ignorata. Forse perché Rai 1 l’ha mandata in onda con scarsa promozione tra partite dei mondiali e isole delle tentazioni, nella stagione in cui, di solito, si vedono solo repliche. Lunedì prossimo verrà trasmesso l’epilogo di Tutto può succedere, ultimo episodio della terza stagione, realizzata per Rai Fiction da Cattleya (la stessa di Gomorra). Il regista è Lucio Pellegrini (con Alessandro Casale), autore di film di successo (E allora mambo e Tandem con Luca e Paolo, La vita facile, con Stefano Accorsi e Pierfrancesco Favino), oltre che del Miracolo di Sky (ideata da Niccolò Ammaniti e co-diretta con Francesco Munzi).

La tavolata di «Tutto può succedere», dove le grane dei Ferraro si ricompongono

La tavolata di «Tutto può succedere», dove le grane dei Ferraro si ricompongono

Allora, Pellegrini: ci sarà una quarta stagione di Tutto può succedere?

«No e spiace anche a noi. Ma già all’inizio erano state programmate tre stagioni. La storia si conclude, ma è stata una bella avventura per tutti».

Proviamo a raccontarla: come e da chi è nata l’idea?

«Cattleya ha proposto di fare l’adattamento di Parenthood, la storica serie americana a sua volta tratta dal film diretto da Ron Howard. Nella prima stagione siamo rimasti più aderenti alla storia e abbiamo fatto un casting molto preciso degli attori. Poi abbiamo scelto strade più autonome, cercando di mantenere una certa fedeltà alle caratteristiche di freschezza e di verità dell’originale».

Com’è stato il rapporto con la Rai?

«Molto buono. Tinni Andreatta, responsabile della fiction, era entusiasta del progetto. L’obiettivo era rinnovare il genere family, importantissimo per la Rai fin dai tempi della Famiglia Benvenuti. Qualche problema c’è stato all’inizio e quest’anno per la programmazione. Ma sono scelte che dipendono da logiche di palinsesto».

In che senso?

«La Rai ha voluto controprogrammare i mondiali di calcio. Non il massimo».

È passata come una replica.

«Lo so. Era pronta da poco, forse poteva partire un mese prima. Su Raiplay la settimana precedente alla messa in onda ha avuto 2,5 milioni di visualizzazioni».

Pubblico di giovani?

«Penso di sì, anche se non abbiamo la composizione del target. Quello della visione in tv aveva un livello d’istruzione più alto e più giovane della media di Rai 1».

Altre serie più politicamente corrette, come Romanzo famigliare, hanno avuto collocazioni più strategiche.

«Anche quelle tradizionali, però, come Don Matteo, occupano il centro della stagione. Da quando È arrivata la felicità è stata interrotta causa bassi ascolti si è pensato che il genere family non tirasse più. E ci si è concentrati sul giallo o sul noir».

Com’è nato il titolo?

«Da un confronto interno a Cattleya. Non c’era una parola italiana che traducesse il titolo americano. Alla fine questo è piaciuto a tutti».

In Siamo soli Vasco Rossi canta: «Tutto può succedere; ora qui, siamo soli, siamo soli». Invece, mentre nella vostra sigla i Negramaro cantano: «Finché sei qui, tutto può succedere», si vede la tavolata della famiglia: una risposta al nichilismo?

«La canzone è stata scritta da Giuliano Sangiorgi. Il qui è quella tavolata, ma anche un luogo personale, intimo. In questi anni il pranzo di famiglia l’abbiamo visto spesso al cinema e in tv. Abbiamo provato a ripensarlo. La tavolata è il luogo del caos sentimentale organizzato. Ho messo l’operatore in mezzo alla scena perché volevo che il telespettatore si sedesse anche lui a quel tavolo».

Esistono famiglie con quattro fratelli che si confrontano e consigliano?

«Penso di sì. Magari è un gradino sopra le righe, perché si tratta di un film di finzione. Però abbiamo cercato di elaborare la realtà. Anche in famiglie più piccole si vivono queste dinamiche».

La famiglia è il luogo della resilienza, dove si trasformano le esperienze di sofferenza in qualcosa di positivo?

«Può essere questo. Quando il clan si ritrova tutto si ricompone, riacquista una forma e una profondità che prima sembrava non avere. Basta uno scambio, una goliardia, un po’ di calore. Poi per sopravvivere e ripartire, ognuno rielabora i fatti con la propria sensibilità e secondo la propria età».

Tra i quattro fratelli lei sembra simpatizzare per il personaggio di Alessandro Tiberi.

«Tanti simpatizzano per Carlo, l’adulto bambino del gruppo. Tiberi è un attore talentuoso. Ma tutti lo sono, Maya Sansa, Pietro Sermonti… Ogni personaggio ha qualcosa che mi piace».

La definizione dei tipi umani è il suo marchio di fabbrica?

«Lo spero. Mi piace creare con gli attori i profili e i temperamenti. Sul set si è creato un bel amalgama tra gli attori più esperti e i ragazzi esordienti come Roberto Nocchi, Benedetta Porcaroli, la stessa Matilda De Angelis, che al tempo della prima serie aveva girato solo Veloce come il vento, che però non era ancora uscito».

Chi ha scritto i dialoghi?

«Abbiamo avuto molti bravi sceneggiatori, da Michele Pellegrini che non è mio parente, a Federica Pontremoli a Filippo Gravino».

C’è una scena a cui è più affezionato?

«Ci siamo commossi girando quella in cui Giorgio Colangeli dice a Maya Sansa, che ha appena combinato uno dei suoi casini con un uomo, di essere orgogliosa anche dei suoi errori».

Altra cosa: non è una serie politicamente corretta. Non ci sono amori omosessuali e dibattiti sulle unioni civili.

«Nella prima stagione abbiamo sfiorato questo tema, ma senza la preoccupazione di apparire al passo con i tempi. Il confronto con la diversità è comunque presente con Massimiliano, il figlio di Alessandro e Cristina, un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger, molto difficile da gestire in casa, interpretato benissimo da Roberto Nocchi, un ragazzo normalissimo».

Anche il razzismo e l’integrazione sono presenti nella famiglia di Carlo, compagno di una ragazza di colore. Il loro figlio è vittima di bullismo a scuola, ma il modo di raccontarlo non è retorico.

«Il fatto di non essere politicamente corretti forse ci costa un po’ di pubblico, ma fin dall’inizio non abbiamo mai voluto fare la lezioncina. Tutti noi viviamo queste situazioni e le affrontiamo giorno per giorno senza bisogno di salire in cattedra».

La fiction Rai in genere è molto politicamente corretta?

«È mamma Rai: c’è tutto e il contrario di tutto. Ma c’è margine di discussione».

Da 1 a 10 quanto si riconosce in questa serie?

«Sicuramente molto, non so dare una cifra. Adesso ho intrapreso nuove strade».

Appunto: nel Miracolo quanto si riconosce?

«Mi è molto piaciuto affrontare nuove tonalità visive e nuove situazioni di genere. Grazie a Niccolò Ammaniti, che è un amico, ho potuto contribuire a un progetto molto impegnativo e gratificante, di cui siamo orgogliosi anche per il riscontro che sta avendo all’estero».

Vita e pensiero, la rivista dell’Università cattolica, ha scritto che è più una serie mistery che di fede: concorda?

«Sì, è un racconto che ha grande rispetto per il sacro. Ma è una serie di genere, che cerca di esplorare in chiave mistery un fatto umanamente inspiegabile. Più che indagare se quel fatto sia vero o no, la storia riguarda le conseguenze di quel fatto su alcune persone».

Lucetta Scaraffia ha scritto che chi resta colpito non prega la Madonna, ma il mistero che la statuetta evoca.

«È così. Abbiamo lavorato su quale impatto può avere in una realtà profana un evento inspiegabile».

Il fatto che i protagonisti siano eccentrici, persone nelle quali è difficile riconoscersi, è un punto debole?

«Qui non c’è la ricerca dell’identificazione, ma una provocazione a mettersi in quella situazione: che cosa faresti tu? Lo spettatore può anche sentirsi superiore ai protagonisti e ipotizzare di agire diversamente da loro. Favoriamo un distacco critico usando diversi registri narrativi, dal mistery al grottesco, dall’horror al noir».

State già lavorando alla seconda stagione?

«Non è ancora deciso se e quando si farà. Sky vorrebbe farla, vedremo in che tempi».

La sua è un’estate di lavoro?

«Di vacanza e scrittura. Dopo qualche anno ho deciso di prendermi un po’ di tempo per decidere bene cosa fare in futuro».

 

La Verità, 1 agosto 2018

 

Suburra, una Gomorra meno dirompente

Se quei sampietrini potessero parlare… Hanno visto cose che noi uomini del Terzo millennio nemmeno immaginiamo: «La suburra, un posto che non cambia da 2000 anni», dice il Samurai già nelle prime scene. Una delle trovate migliori di Suburra – La serie, dieci episodi su Netflix, è la grafica della sigla. La cinepresa zuma sul lastrico romano e i sampietrini di acciaio lucido si sporgono come squame rettili fino a comporre il titolo, trasmettendo un senso inquietante di violenza strisciante e contundente. La seconda trovata è l’architettura narrativa degli episodi. Che si avviano con un climax, una scena inaspettata sapientemente interrotta, per poi ricominciare da «il giorno prima», con un flashback che riporta all’anteprima, mostrandone l’epilogo, un’altra sospensione cattura curiosità.

L’esordio di Netflix con una produzione made in Italy corrisponde alle molte attese del pubblico di riferimento. Per la realizzazione del prequel del film del 2015, firmato da Stefano Sollima e tratto dal libro di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, il colosso della streaming tv è ricorso alla Cattleya di Riccardo Tozzi (produttrice di Gomorra, qui in collaborazione con Rai Fiction), a buona parte del cast del film di Sollima, e alla regia dei primi episodi di Michele Placido, già direttore di Romanzo criminale al cinema (sempre da De Cataldo).

Sui terreni del litorale di Ostia di proprietà del Vaticano e del clan Adami, si concentrano le mire delle cosche mafiose che vogliono trasformarlo in un porto per il traffico di cocaina. La testa di ponte dell’operazione è il Samurai (Francesco Acquaroli), burattinaio della politica capitolina con addentellati in Vaticano, che muove le pedine per fare il gran salto nella criminalità internazionale. Corrompe il politico outsider Amedeo Cinaglia (Filippo Nigro), vuole allearsi con Sara Monaschi (un’ottima Claudia Gerini), revisore dei conti in Vaticano. Il piano si scontra con le ambizioni di tre criminali emergenti: l’allucinato Aureliano Adami (Alessandro Borghi), lo zingaro Spadino (un credibile Giacomo Ferrara), e Gabriele, figlio di un poliziotto (Eduardo Valdarnini). Tra doppi giochi e vendette incrociate, la storia intreccia «patrizi e plebei, politici e criminali, mignotte e preti». In sintesi, «Roma», chiosa il Samurai: la Roma corrotta, cupa e dissoluta, protagonista di Mafia capitale, in parte già vista con la banda della Magliana di Romanzo criminale. L’intrigo ha tutti gli ingredienti giusti per farsi seguire anche da un pubblico largo. Ma forse, avendo una scrittura più elementare di Gomorra, non ne possiede la stessa forza evocativa.

 

La Verità, 12 ottobre 2017

«Nella mia Gomorra esiste la speranza»

Un timido che comanda malvagi criminali. Un veneto che dirige film in dialetto napoletano. Un collezionista di rock e jazz, pronto a rompere rapporti per dissidi musicali, che fa il regista. Claudio Cupellini, 44 anni, una dinastia di farmacisti alle spalle, insieme con Francesca Comencini regista di Gomorra – La serie (produzione originale Sky e Cattleya, in onda dal 17 novembre) è un uomo di contraddizioni. Contraddizioni fertili. Ci incontriamo prima di una conversazione all’università di Padova programmata dalla Fiera delle parole.

Come fa un veneto a dirigere una serie tv recitata in napoletano stretto?

«Più che un handicap, non essere del luogo è stato un vantaggio. Fin dall’inizio Cattleya e Sky non volevano registi napoletani. Io sono di Padova, Stefano Sollima, Francesca Comencini e Claudio Giovannesi, romani. Il mio orecchio è allenato da diversi anni alla parlata napoletana grazie ai miei collaboratori più stretti che sono di Caserta».

Perché i produttori volevano registi «stranieri»?

«Perché volevano uno sguardo meno coinvolto emotivamente. Un regista locale avrebbe potuto essere più indulgente con la propria città».

E lei ha avuto difficoltà a non esserlo?

«Direi di no, anche se ormai sono mezzo napoletano. Lavorando alle tre stagioni della serie ci ho vissuto a lungo. E anche prima, preparando Una vita tranquilla con Toni Servillo e Marco D’Amore, ero di casa. Un regista deve immedesimarsi con il posto dell’opera che dirige. Ma nei miei film si parla tedesco, francese. Qui anche bulgaro».

Gioco di squadra (prima stagione): Stefano Sollima, Francesca Comencini e Claudio Cupellini

Il registi della prima stagione: Stefano Sollima, Francesca Comencini e Claudio Cupellini

Il cinema è globalizzato, ma Gomorra è un prodotto glocal.

«Oggi il glocal è vincente. I broadcaster internazionali chiedono storie e costumi italiani. Pensiamo a Romanzo criminale, Gomorra, 1992 e 1993 prodotte da Wildside, a Suburra di Netflix. Lo stesso avviene con produzioni di altri Paesi, la francese Marseille, la bellissima Peaky Blinders, ambientata a Brighton».

Oltre che la lingua serve conoscere la camorra e le sue gerarchie?

«Devi conoscere le dinamiche criminali perché a Napoli devi viverci. Spesso giravamo nelle strade frequentate dalle bande. Gomorra è fiction, ma pur romanzando, siamo rimasti aderenti ai fatti. Nella seconda stagione abbiamo raccontato gli scissionisti. Nella terza si vedrà la guerra dei clan nel centro di Napoli».

Come nasce Claudio Cupellini regista?

«Fin dal liceo ho avuto la passione per la lettura, il cinema, soprattutto la musica. Queste passioni disordinate si sono consolidate frequentando la facoltà di Lettere, dove ho scoperto che il cinema le comprendeva tutte. Ho provato a fare qualche scarabocchio con la videocamera. Ero ventenne, ma c’erano ragazzi che già a 17 anni avevano prodotto i primi corti. Ho presentato un mio lavoro al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e mi hanno preso».

Ha avuto dei maestri?

«Mi sarebbe piaciuto, ma no. Ho fatto alcuni incontri che mi hanno aiutato a capire come fare il mio mestiere. I maestri sono stati i film che ho visto».

Diciamo qualche titolo?

«Tornando a casa un sabato notte su Fuori orario vidi certi bambini che facevano cose meravigliose. Il giorno seguente chiamai un amico critico che mi rivelò il titolo: L’argent de poche (Gli anni in tasca) di Francois Truffaut. Poi ho seguito il cinema americano degli anni Settanta, Scorsese, Coppola e Malick».

Parlando di registi, Padova è una città laboratorio? Cito alcuni nomi oltre a lei: Enzo Monteleone, Carlo Mazzacurati, Antonello Belluco, Andrea Segre, Umberto Contarello sceneggiatore di Paolo Sorrentino, sempre sulla rotta Padova Napoli. Dimentico qualcuno?

«Marco Pettenello, nipote di Mazzacurati, bravissimo sceneggiatore. Più che un laboratorio, a Padova c’erano un fermento e una sensibilità particolari. C’erano docenti come Gian Piero Brunetta e Giorgio Tinazzi, il Centro universitario cinematografico, organizzatori culturali come Piero Tortolina. Per il resto, a parte Contarello, Monteleone e Mazzacurati che si frequentavano, molti di noi sono andati via per affermarsi».

Marco D’Amore è il suo attore feticcio?

«L’ho fatto esordire al cinema, siamo amici. È un talento di formazione teatrale avendo frequentato il Paolo Grassi di Milano e sostenuto lunghe tournée come quella della Trilogia della villeggiatura con Servillo. È uno da “buona la prima”. Con lui facevamo un gioco: vediamo quando sbagli una battuta. Non ha sbagliato nemmeno nell’episodio in bulgaro della nuova stagione di Gomorra. Finora al cinema ha raccolto meno di quello che merita».

Marco D'Amore in Gomorra 3, che Cupellini fece esordire al cinema

Marco D’Amore in Gomorra 3, che Cupellini fece esordire al cinema

I protagonisti dei suoi film sono persone senza legami, incapaci di trovare il loro posto nel mondo.

«Certi sentimenti sono come una risacca. Il senso della separazione, dell’incomprensione, di rapporti fragili fa parte della mia storia. In Alaska il personaggio di Valerio Caprino dice a Fausto: “Se dici che sei mio amico, io ci credo e mi affeziono. Ma se mi molli divento cattivo”. In fondo, è sempre una ricerca d’amore, il bisogno di essere accettati, di non essere abbandonati».

È un bisogno che nasce da un’esperienza precisa?

«Il mestiere di regista vive di ossessioni. Ho vissuto la lacerazione della mia famiglia, ho perso amici e parenti stretti in modo improvviso. C’è una frase di una canzone di Neil Young che mi ha molto colpito. Dice: ≤Nonostante la mia casa sia stata distrutta è la miglior casa che abbia mai avuto≥. L’ho scritta dietro una foto che ritrae me e mio fratello, e che ho regalato a mia madre».

Anche il prossimo film parlerà di questo?

«Non posso anticipare troppo. Ho iniziato a scriverlo e per la prima volta sarà un adattamento. Avrà un’ambientazione nuova rispetto ai precedenti, mentre la trama sentimentale non se ne discosterà molto».

Un altro attore che ritorna nei film suoi e di Segre è Paolo Pierobon. Ci sono i clan anche nel cinema?

«Più che clan ci sono attori che provengono dal teatro e che il cinema non ha ancora sfruttato come meriterebbero. Paolo Pierobon, anche lui del Paolo Grassi, è uno di questi. Per Alaska ha accettato una parte minore, dandole un carattere. Altri come lui sono Giuseppe Battiston, Valerio Binasco, Maurizio Donadoni».

Che cosa le ha dato Roberto Saviano sul set di Gomorra?

«Saviano vive lontano, ma la sua presenza aleggia sul nostro lavoro. Per la mia carriera l’incontro con il mondo di Gomorra è stato fondamentale. Una volta entrato, però, devi avere un bagaglio tuo. Non tutti i registi possono fare Gomorra, perché richiede un impegno mentale e fisico straordinario. Per girare i miei sei episodi abbiamo impiegato 100 giorni, il tempo che di solito serve per produrre due film e mezzo».

E Stefano Sollima?

«Con Sollima abbiamo avuto una collaborazione molto fertile, soprattutto il primo anno. Ogni regista è geloso della propria autorialità, ma tra tutti c’è sempre stata complicità e stima. Mi ha coinvolto nel progetto perché gli era piaciuto Una vita tranquilla».

Che cosa pensa della critica secondo la quale Gomorra mitizza le figure dei camorrisiti?

«Siamo stati molto attenti a non essere mai consolatori. La storia del cinema e della letteratura è lastricata dalla fascinazione del male. Ma in Gomorra la fine dei criminali e l’orrore sono chiari a tutti».

Cosa ci può anticipare della terza stagione?

«Azzardo che è la migliore delle tre. Oltre alla già riconosciuta compattezza narrativa, s’impone l’introspezione dei personaggi. Ciro, Genny e gli altri attraversano una linea d’ombra conradiana: sono stati uccisi i padri, hanno vissuto lutti non superabili, ora cominciano a fare i conti non solo con le loro azioni, ma anche con quello che sono diventati da adulti».

E la sua linea d’ombra qual è? Ha un suo rifugio personale?

«Sono le passioni di gioventù, rimaste vive come allora. La musica in particolare: per me è un luogo di consolazione e di limpidezza, nel quale cancello le scorie e trovo nuovi stimoli. Sono un tipo inquieto, coltivare i miei interessi mi rappacifica».

Musica preferita?

«Conosco rock, jazz e blues dagli anni Cinquanta a oggi. Praticamente sono cresciuto dentro un negozio di dischi del centro. Ho una collezione di cd, ma ora apprezzo i vinili anche come oggetto. Per me le morti di Lou Reed e David Bowie non sono stati un pretesto per mettere una foto su Facebook».

Che rapporto ha con i social?

«Quando Facebook è esploso ho vissuto un momento di curiosità e mi sono iscritto anche a Twitter. Ora non li frequento molto. Mi provocano nervosismo, soprattutto Facebook. Mi sembra di essere in un bar chiassoso, dove si esibisce il peggio dell’umano».

Letteratura?

«Mark Twain, Dostoevskij, John Irving, troppo poco apprezzato, Jean Cocteau».

Guarda la televisione?

«In modo discontinuo. Mi sono ubriacato di serie tv, ora guardo più film».

Film della vita.

«I quattrocento colpi di Truffaut».

Gomorra è un microcosmo chiuso, un mondo senza alternative per il quale forse Leonardo Sciascia parlerebbe di realtà irredimibile. C’è speranza in un posto così?

«Personalmente non riesco a vivere senza speranza. Non credo che il microcosmo della camorra sia irredimibile. Non è un posto di cui Dio si è dimenticato. Ma lo Stato sì, e ha lasciato che un altro potere lo sostituisse. In una realtà povera dove le istituzioni non ci sono, il cittadino si affida alla criminalità. Ci sono bambini che a dieci anni hanno già visto tutto. Da padre trovo che sia qualcosa di mostruoso. La speranza è minimale, ma esistono persone che, pur con una voce flebile, combattono quotidianamente contro il male».

 

La Verità, 8 ottobre 2017