Acab, il manifesto tv per le rivolte contro gli agenti
Una tribù violenta. Un clan con leggi non scritte, ma ferree: noi contro loro. Un pugno di uomini con uno spirito di corpo perverso, perché separato dal resto delle forze dell’ordine. Più duro, estremo, ossessivo. È il terzo dipartimento della Squadra antisommossa della Polizia di Roma. La celere, insomma, protagonista di Acab (sta per All cops are bastards), la serie in sei episodi da ieri disponibili su Netflix. È il branco della polizia disposto a tutto contro No Tav, pischelli figli di papà, tifosi scalmanati, ambientalisti isterici, immigrati dei Cpr. Sempre in prima linea, solo che per loro essere in prima linea significa essere «in guerra»: Roma «nun arretra», urla Mazinga, il leader carismatico della squadra, interpretato da Marco Giallini.
Dopo il film del 2012 diretto da Stefano Sollima, la serie prodotta da Cattleya con la regia di Michele Alhaique, è il secondo derivato dell’omonimo libro scritto nel 2009 da Carlo Bonini, attuale coordinatore dei Longform di Repubblica (che spunta come fonte in un cruciale interrogatorio) e qui autore della sceneggiatura con Filippo Gravino, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini.
Raramente una serie tv è approdata al piccolo schermo con altrettanta tempestività. Mentre l’attualità ci racconta di carabinieri e agenti di polizia sotto inchiesta per aver svolto il proprio dovere nel tentativo di dissuadere immigrati fuori controllo dall’accoltellare qualche malcapitato passante, e mentre le cronache delle manifestazioni volte a trasformare Ramy Elgaml nel George Floyd italiano ci parlano di otto agenti feriti, uno show televisivo atteso e già osannato da gran parte dei media ci descrive un reparto di polizia sotto inchiesta della magistratura per un’azione compiuta oltre il legittimo confine dell’uso della forza. Se mancava un manifesto creativo della rivolta contro gli agenti assassini, da cui i leader della sinistra non prendono le distanze, c’è da temere che sia stato trovato.
Durante un sit-in dei No Tav in Val di Susa, colpito da una bomba carta degli antagonisti rimane a terra il capo della Squadra mobile di Roma. La rappresaglia scatena Mazinga e i suoi uomini all’inseguimento nel bosco e in riva al fiume dei militanti dei centri sociali. Il giorno dopo si scopre che uno di loro è in coma in terapia intensiva. Il nuovo capo, il più democratico Nobili, esponente della «nuova polizia» (Adriano Giannini), arrivato in sostituzione dell’ispettore rimasto in sedia a rotelle, è accolto dal reparto come un corpo estraneo. I dissapori sulla gestione delle successive missioni non favoriscono certo l’armonia. Da Torino, invece, arriva il sostituto procuratore per capire chi ha ridotto in fin di vita il manifestante. Ma l’ordine di Mazinga è negare tutto e negare sempre: non siamo mai andati al fiume dov’è stato rinvenuto il ragazzo. La body cam che avrebbe potuto filmare l’azione degli agenti è sfortunatamente stata bruciata da una molotov. Così, le domande del procuratore tornano al mittente senza risultato. Ma mentre la madre del ragazzo in coma continua a invocare giustizia, un po’ come nelle cronache di questi giorni, dove sindaci ed ex capi della polizia delegittimano l’operato delle forze dell’ordine, anche qui nessuna autorità spende parole di comprensione per l’ispettore colpito negli scontri: le istituzioni sono preoccupate di proteggere solo le vittime di agenti e carabinieri. Intanto, i drammi privati espongono Marta (Valentina Bellè), l’unica donna del reparto, separata dal marito violento, e Salvatore (Pierluigi Gigante), un agente reduce dall’Afghanistan, alle fragilità della solitudine.
Non ci sono affetti, non esiste nulla di buono oltre la divisa e lo scudo di plexiglass. Con le case vuote, persino la sera di Natale si trascorre malinconicamente insieme («Guardali, da soli sono nessuno, solo in gruppo si rianimano», dice l’ex ispettore a Mazinga). Il branco della polizia è un microcosmo composto da uomini borderline, frustrati, testosteronici e razzisti, che vivono in un mondo a parte. Mostrato sempre di notte e fatto di case buie, di blindati, mense e uffici attraversati da luci livide e commentati dall’ipnotica e persistente musica dei Mokadelic. Un mondo nel quale il male e il bene si mescolano e confondono. Come si confondono e si contagiano il cattivo e il buono della storia: «Sono diventato come voi», dice Nobili a Mazinga dopo avergli confidato di aver quasi ucciso un uomo. Alla fine, l’unica cosa che conta è la legge del clan, luogo della consolazione e della rivalsa dei disperati. Un clan che sembra somigliare a quello di camorra raccontato in Gomorra – La serie. In fondo, formule, linguaggio ed estetica di Gomorra e Acab sono simili perché sembrano ritrarre due mondi uguali e speculari. Sollima, qui produttore esecutivo, era il regista delle prime stagioni della serie tratta dal libro di Roberto Saviano, e Cattleya è la casa di produzione di entrambe.
La Verità, 16 gennaio 2024