Tag Archivio per: centrosinistra

«La sinistra vince se tiene lontani i big nazionali»

Buongiorno Giovanni Diamanti, scriviamo insieme il suo curriculum vitae?

«Consulente politico e socio fondatore di Quorum e Youtrend, due marchi di un’unica agenzia di comunicazione, analisi politica e sondaggi. L’ho fondata a 22 anni con Lorenzo Pregliasco, Davide Policastro, Roberto Greco e Matteo Cavallaro. Tra le varie cose, sono professore a contratto di Marketing politico all’Università di Padova e di Storytelling politico alla Scuola Holden di Torino».

Studi, letture, passioni?

«Laureato in Sociologia. Le passioni sono la storia dei partiti politici, il calcio, il tennis e il cinema».

Storytelling politico come materia di una scuola di scrittura mi giunge nuova.

«È un ramo della comunicazione legato al racconto e alla narrazione. Spesso le storie personali dei leader raccontano i loro valori più dei fatti».

Ma la Holden è una scuola per scrittori, chi frequenta il suo corso?

«La Holden ha una proposta formativa ampia. I frequentatori sono studenti appassionati di comunicazione politica».

Segreti del mestiere appresi da papà Ilvo, immagino: che cosa in particolare?

«In realtà, mio padre è uno studioso, un politologo, mentre io ho iniziato a impegnarmi nelle campagne elettorali prima dei vent’anni, facendo un percorso diverso. In comune abbiamo la passione e lo studio della politica. Le nostre attività si toccano sul lato dei sondaggi, ma Demos e Youtrend sono agenzie concorrenti, con specificità diverse».

Altri maestri?

«Ne ho avuti tanti. Da Nando Pagnoncelli, amico di famiglia, ho imparato a capire quanto il dato sia da studiare e non da utilizzare. E poi nella professione cito Filippo Sensi».

Mitico «nomfup» di Twitter.

«Profilo tuttora attivo, anche se più istituzionale. Nel 2014 con Matteo Renzi, Sensi portò il Pd al 40% con una campagna costruita sul derby tra speranza e paura. Ero all’inizio e lui mi diede molti amichevoli consigli».

Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino?

«Velardi è un amico dal quale ho imparato molto. Anche se sono della generazione successiva, appartengo alla vecchia scuola, poco digitale».

Quali sono gli strumenti principali del suo lavoro?

«Non lavoriamo sul day by day per suggerire le dichiarazioni giornaliere. Il nostro cassetto degli attrezzi sono i sondaggi, i focus di gruppo, il clima d’opinione, il profilo del candidato e le analisi delle rassegne stampa per elaborare un piano strategico di medio e lungo periodo».

 

Nei giorni scorsi Giovanni Diamanti ha trovato visibilità oltre la cerchia degli addetti ai lavori come consulente di Giacomo Possamai, il nuovo sindaco di Vicenza, unica città conquistata dalla sinistra alle recenti amministrative. 34 anni, barba e occhiali hipster, zero iperboli, salti ubiqui tra riunioni e call ma piedi ben piantati per terra, molta prudenza nel rispondere, nella carriera dello «spin doctor di Possamai» c’è molto più di ciò che fa immaginare la sua giovane età.

 

Il curriculum prosegue con la lista delle campagne vincenti.

«Beppe Sala a Milano nel 2016, Roberto Gualtieri a Roma nel 2021, l’anno scorso Damiano Tommasi a Verona, adesso le comunali di Vicenza. Prima due campagne di Vincenzo De Luca, due di Nicola Zingaretti per le primarie e alle ultime europee. Anche Pierfrancesco Majorino ed Elisabetta Gualmini alle europee».

Sconfitte?

«In quelle di Majorino c’eravamo noi. Alle primarie a Milano del 2016 arrivò terzo, ma fu comunque un grande risultato, tanto che Sala ci chiamò subito dopo. Anche alle ultime regionali abbiamo lavorato con Majorino. Sconfitta anche alle comunali di Genova del 2017, sempre con il centrosinistra».

Perché la vittoria a Vicenza ha fatto scalpore?

«Il primo motivo è perché è l’unico successo del centrosinistra. Il secondo, perché è l’effetto di una convinzione errata: cioè che Vicenza sia storicamente di centrodestra, mentre i dati dicono che è contendibile».

È lei ad aver suggerito a Possamai di non far arrivare Elly Schlein?

«Non credo alle idee magiche dei guru. Sicuramente era un’idea che rientrava nel piano strategico presentato un anno fa, quando ancora lei non c’era».

In questo caso, non vederla arrivare è stato vincente?

«È stato vincente impostare una campagna vicentina, che parlasse di temi vicentini e con persone vicentine. Elly Schlein, come qualunque altro leader nazionale, sarebbe uscita da questo schema».

Anche Damiano Tommasi a Verona era un outsider e anche lì avete ribaltato il pronostico.

«Verona e Vicenza sono campagne d’identità cittadina contrapposta alla visione nazionale. Ma ci sono anche differenze: Tommasi era un candidato civico puro che parlava di valori, Possamai è un leader storico di partito che ha proposto un progetto chiaro di città».

La ricetta comune è tenere lontani i leader nazionali?

«In questi casi, sì. Ma le campagne elettorali sono abiti cuciti su misura sui candidati e sulle città. L’esempio più chiaro è Roberto Gualtieri a Roma che nel 2021 godeva di un prestigio personale. Nel suo caso coinvolgere figure nazionali era un valore aggiunto».

Altrimenti, in periferia, la loro presenza afferma paradossalmente la distanza dalla gente comune?

«Non direi così. A Vicenza volevamo fare una campagna opposta a quella dell’avversario. Richiamare qualunque leader nazionale avrebbe riportato la contesa nello scontro tra centrodestra e centrosinistra. Invece, per noi il progetto vicentino voleva dire ripensare le alleanze. Non c’è stato il campo largo, ma il lavoro delle liste civiche che si sono alleate al Pd, senza timore di guardare anche al centrodestra, per esempio coinvolgendo Matteo Tosetto, storico esponente di Forza Italia e vicesindaco uscente».

La sinistra vince dove il Pil è più alto?

«Da Milano a Padova, passando per Bergamo, Brescia, Verona e Vicenza ora c’è una filiera di amministrazioni di centrosinistra. Forse ha leader di maggiore qualità. Il centrodestra dovrebbe interrogarsi sul fatto di non toccare palla in questi territori. È la sfida principale che deve affrontare nei prossimi anni. E che, va detto, sembra aver iniziato ad affrontare, visto che in queste ultime elezioni ha vinto ovunque, forse più per la forza della coalizione che dei suoi candidati».

Per Alessandra Ghisleri, Schlein non ha ancora trovato un’identità forte: che cosa sbaglia e che cosa azzecca la segretaria Pd?

«Ha capacità comunicativa e predisposizione a rompere gli schemi. Deve riuscire a far capire qual è la sua idea del Pd. Oggettivamente, ha avuto poco tempo, ma l’identità e il posizionamento è uno storico problema del partito».

Era sbagliato aspettarsi che, essendo stata eletta dai non iscritti, ampliasse i consensi anche alle urne?

«Penso sia il suo primo obiettivo, ma credo si dovrà misurarla alle europee dell’anno prossimo».

È un corpo estraneo, anche pensando alla squadra che ha scelto?

«Non la definirei così. Sicuramente ha un approccio diverso dai predecessori e vuole aprire in modo più netto all’esterno».

Fa bene a insistere sui diritti delle minoranze?

«Non so se le giovi. È un tema che può mobilitare fortemente, ma che deve andare di pari passo ad altre questioni».

Come giudica la sua comunicazione, troppe supercazzole?

«Giudichiamola tra qualche mese».

Le avrebbe consigliato l’intervista a Vogue?

«Sono scelte che bisogna vivere da dentro, conoscere la strategia e lo scopo. La comunicazione è qualcosa di complesso di cui bisogna conoscere l’articolazione».

Strategicamente era la testata giusta?

«Si coglie il tentativo di comunicare in modo non tradizionale. Se funziona o no lo si capirà nel medio e lungo periodo. Quando Renzi si vestiva da Fonzie per andare ospite di Maria De Filippi molti lo perculavano, ma per altri era un genio».

Giova alla sinistra la campagna sul ritorno del fascismo? Porta consensi?

«Forse può mobilitare, ma non si fa solo ciò che porta consenso. François Mitterand s’impegnò per l’abolizione della pena di morte e, quando i suoi consiglieri gli fecero notare che i francesi erano per il mantenimento, rispose che non gli importava perché quello era un obiettivo giusto».

Era Mitterand.

«Certo. Se il Paese vuole risposte sul lavoro e tu gli parli di cultura o di scienza, non sembri in sintonia. Bisogna trovare un equilibrio tra temi popolari e temi giusti».

Nella squadra di centrodestra ci sono punti deboli?

«Vedo Giorgia Meloni molto forte, mentre non vedo una classe dirigente dello stesso livello. Questo è il primo elemento. Poi torvo che nella coalizione ci sia un po’ di vuoto nell’area classica, liberale e moderata. Forza Italia si è indebolita, Fdi è un partito conservatore, la Lega un partito identitario, manca l’attenzione alle classi liberali e produttive che, infatti, guardato al terzo polo».

C’è qualche lacuna nella comunicazione?

«Manca un po’ di coordinamento. Ma non ho visto grandi strafalcioni o divisioni su questioni importanti».

Sbaglia Marco Travaglio quando dice che Meloni vince perché è di moda?

«Non capisco cosa significhi. Uno vince quando convince di essere il candidato migliore o quando ha una proposta che mobilita. Giorgia Meloni vince perché si è costruita una sua credibilità e porta avanti diverse posizioni in sintonia con il clima d’opinione prevalente nel Paese».

Ha punti deboli?

«La ritengo ancora un po’ troppo ideologica su alcuni temi, alla lunga questo sarà un problema. In alcune conferenze stampa non mi è sembrata sempre brillante».

Come mai la tendenza verso posizioni conservatrici o di destra si registra in tutta Europa?

«C’è un clima d’opinione in cui prevale una forte rabbia sociale, ben interpretata da chi utilizza determinati toni. Ma sono tendenze che si modificano abbastanza rapidamente. Per esempio, subito dopo la fine della prima ondata del Covid, si diceva che i sovranisti iniziavano a indebolirsi».

Cicli di breve durata?

«Sì, però è evidente che oggi il ciclo è questo».

Durerà più Meloni o Schlein?

«Al tempo di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi i cicli duravano un ventennio. Ultimamente le leadership hanno archi più brevi, poco più un biennio, come abbiamo visto con Renzi, Luigi Di Maio, Matteo Salvini. Meloni non è ancora entrata in fase di erosione. Di sicuro entrambi hanno di fronte uno scoglio: Meloni, la gestione del Paese in una fase non facilissima; Schlein, la guida di un partito nel quale le leadership durano poco. Schlein è appena arrivata, Meloni è stabile da un po’: nessuna delle due ha il lavoro più stabile e tranquillo del mondo».

 

La Verità, 3 giugno 2023

«Non so se ce la farà, ma la Meloni… ora o mai più»

Un politologo vecchia maniera. Un analista mai coinvolto nell’effimero mediatico. Marco Tarchi, docente alla facoltà di Scienze politiche di Firenze, studioso del populismo, già considerato ideologo della nuova destra ma ora persuaso che la dicotomia destra-sinistra sia superata, non usa il cellulare, non è presente nei social media, non guarda i talk show. Preserva così il suo sguardo di studioso.

Professore, è iniziata una tra le più anomale campagne elettorali della storia repubblicana. C’è chi la paragona a quella del 1948 quando era in gioco la nostra collocazione internazionale e la scelta tra Dc e Pci. Lei cosa vede nelle urne del 25 settembre?

«Nessun esito sconvolgente. I binari delle politiche degli Stati occidentali oggi sono tracciati da istituzioni ed organismi sovranazionali – Unione europea e Nato in primis – e dagli Stati Uniti d’America, e nel contempo condizionati dai grandi poteri economici, quelli che si celano dietro la generica espressione “i mercati”. All’interno di questi confini, i margini di manovra sono stretti. Chiunque vinca un’elezione, prima di tutto cerca di ingraziarsi o rassicurare questi soggetti. Se vincerà il centrodestra, che ha rapporti assai peggiori del centrosinistra con i piani superiori dell’establishment, si normalizzerà immediatamente e, al di là di qualche concessione cosmetica alla retorica, metterà nel cassetto le parole d’ordine della campagna elettorale».

Prima di inoltrarci, che giudizio dà sulla crisi aperta in modo così inusuale?

«Se non ci fosse stata la guerra russo-ucraina, la rottura forse ci sarebbe stata prima. La coalizione era troppo eterogenea e nessuno dei suoi componenti voleva arrivare alle elezioni con la corresponsabilità in scelte economiche del governo Draghi, legge finanziaria in primis, che non avrebbero certo riscosso l’entusiasmo popolare».

La campagna elettorale è senza esclusione di colpi. Che cosa la colpisce nella lettura dei giornali e nei dibattiti televisivi?

«Da tutto ciò che è politica in tv mi astengo da anni. Mi piange il cuore nel vedere ridotto a simili livelli di banalità e volgarità un campo al cui studio ho dedicato gran parte della mia vita. E in ogni caso, per capire la politica vera non serve ascoltare quello che i suoi esponenti dicono, men che meno quando sono davanti a una platea. Bisogna guardare a quello che fanno».

Quali saranno i temi decisivi per convincere gli italiani?

«Quelli più concreti, che toccano il potere d’acquisto, l’inflazione, il carico fiscale, i servizi essenziali, le pensioni, la crescita continua dei flussi migratori, l’insicurezza – che per molti non è una sensazione, ma una realtà».

Le pare di vedere che le forze politiche siano attente a questi temi?

«Almeno a parole, sì. Credo che anche chi oggi si dedica all’Ucraina, alla rivoluzione green e alla onnipresente tematica dei diritti – che sposta in secondo piano i lavoratori – presto cambierà registro».

Più di altre, questa campagna si gioca sullo sbarramento all’avversario anziché sui contenuti?

«Ho un’età e una memoria che mi consentono di ricordare molte altre campagne impostate su questo spartito: dagli anni Settanta dell’ipotizzato, sperato e temuto sorpasso del Pci sulla Dc, agli anni Novanta, in cui tutto ruotava attorno al pericolo comunista, esorcizzato da Berlusconi, e al ritorno del fascismo paventato dai progressisti. C’è poco di nuovo sotto il sole».

Si sente più forte l’altolà alle destre o lo stop alla sinistra?

«Il primo, almeno nei media».

Tornando ai media, si riparla del pericolo fascista. Si legge di nubi nere, di onde nere…

«Chi evoca fantasmi, o spaventapasseri, di un passato che – è chiaro a tutti, fuorché a pattuglie sparute di fanatici di opposto segno – non può tornare, dà l’impressione di avere poche idee sul come affrontare e migliorare il presente. Gli ambienti più riflessivi della sinistra lo hanno capito; in altri prevale il richiamo della foresta. Che serve solo a radunare i già convinti».

Stando ai giornali più autorevoli, ai grandi imprenditori, agli analisti di moda, sembra che a Washington e a Bruxelles non abbiano altro pensiero che scongiurare la vittoria di Giorgia Meloni in Italia.

«Sicuramente da quelle parti l’ipotesi un po’ di fastidio lo provoca. Ma sia gli Usa che l’Ue sanno di disporre di strumenti sufficienti a placare le velleità di un eventuale governo Meloni, qualora volesse provare a giocare un ruolo simile a quello dell’Ungheria o della Polonia. E la foga con cui Fratelli d’Italia ha sbandierato il suo atlantismo da febbraio in poi dimostra che le contromisure sono state prese in tempo».

Quanto peserà lo schieramento sulla guerra in Ucraina?

«Poco e nulla. Sul tema, chi voleva schierarsi lo ha fatto da tempo».

A leggere certi giornali, adesso sembra che il governo Draghi sia caduto per volere di Matteo Salvini che avrebbe agito per conto del Cremlino.
«È curioso, e significativo, come il complottismo, che viene sempre addebitato in esclusiva all’estrema destra, stia diventando, da alcuni anni, il pane quotidiano dei progressisti. Dall’elezione di Donald Trump in poi, il fantasma russo viene evocato ogni volta che un evento politico non va come si sperava. Siamo quasi alla paranoia. Sarebbe interessante sapere se spontanea o organizzata».

La preferenza pacifista degli italiani sarà ascoltata da qualcuno?

«I pacifisti veri non credo siano molti. Ben più numerosi sono quelli che temono da una parte gli effetti economici della guerra e dall’altra le conseguenze boomerang delle sanzioni. E su questo ultimo punto i problemi veri esploderanno a elezioni fatte. Di sicuro, è uno dei motivi per cui Mattarella ha voluto affrettare i tempi. Dopo il prossimo “autunno freddo” il livello delle proteste, e della disponibilità al voto di protesta, potrebbe aumentare fortemente».

Cosa pensa dell’aut aut lanciato da Enrico Letta: o noi o la Meloni; accompagnato dalla sottolineatura che si vince con le idee?

«È un modo per dire “solo noi e loro siamo di prima categoria; i voti per altre liste sono sprecati”. Un ritornello non troppo originale. Le idee? La politica italiana le diserta da vari decenni».

Perché sconfinano nell’ideologia più che nei fatti?

«Di ideologia se ne respira molta, camuffata però con il vocabolario ipocrita dei diritti, in nome dei quali il progressismo ha affermato da decenni, e sta consolidando, la sua egemonia culturale. Non parlo dei soli ceti intellettuali, ma di cultura diffusa, modi di pensare, stili di vita, abitudini. In questo senso, un vero spartiacque ideale ci sarebbe: progressismo contro conservatorismo. Non so però se sarà interpretato seriamente, soprattutto dal centrodestra, dove di infiltrazioni progressiste ce ne sono a iosa. Per esempio in Forza Italia, anche se le recenti scissioni ne hanno un po’ attenuato il peso».

Se vincesse il centrosinistra dovremmo aspettarci ddl Zan, cannabis libera, adozioni per le coppie gay e legge patrimoniale?

«I primi tre provvedimenti mi sembrano ipotesi plausibili. La patrimoniale no. A sostenere elettoralmente il Pd sono, come è noto e comprovato dagli studi, le fasce medio-alte, e anche molto alte, della popolazione, che non gradirebbero certamente una simile scelta. Le altre, invece, vanno nella direzione del modello di società che i progressisti vorrebbero imporre e, di fatto, stanno già imponendo, in cui il rifiuto delle identità definite – etniche, sessuali, culturali, nazionali – è l’asse portante. L’obiettivo di fondo è l’omologazione del corpo sociale, salvo che in ambito economico, dove le gerarchie sarebbero preservate. Non differenziandosi, in questo modo, dai conservatori».

Il centrodestra sembra aver imparato la lezione proveniente dalla sconfitta di Verona. Pensa che l’accordo trovato sul criterio di scelta del premier in base al partito che avrà i maggiori consensi e anche di suddivisione dei collegi uninominali reggerà?

«Sarebbe stato difficile negare a Fratelli d’Italia una quota maggiore di collegi, che comunque è minore di quella che, sulla base dei sondaggi, gli sarebbe spettata. E ancora più arduo mettersi fin d’ora di traverso a una candidatura al ruolo di Presidente del consiglio a chi guida la formazione di gran lunga maggiore all’interno della coalizione. Ma dietro l’unità di facciata, gelosie e antipatie permangono. Aver concesso ai centristi uno spazio esagerato rispetto al loro esiguo peso elettorale espone a ricatti e fastidi futuri. Uno scenario già visto e di cui prevedo repliche più o meno frequenti».

Giorgia Meloni ha davvero buone possibilità di salire a Palazzo Chigi?

«Un dato mi pare certo: o adesso, che è sulla cresta dell’onda, o mai più. O riesce ad uscire dalla trappola, che gli alleati le tenderanno più degli avversari, del “rischio di scarsa legittimazione sulla scena internazionale”, o si preclude occasioni future. Rinunciando, darebbe un segnale di debolezza che mal si concilia con l’immagine aggressiva e intransigente che tanto tiene a darsi».

In caso di vittoria le consiglierebbe di indicare un politico con maggiore esperienza internazionale? Uno come Giulio Tremonti, per esempio?

«Si parla molto anche di Guido Crosetto, la cui nomina potrebbe apparire un successo di Giorgia Meloni ma, per ciò che ho appena detto, rischierebbe di essere di fatto un azzoppamento. Nei momenti cruciali, in politica, occorre spregiudicatezza e faccia tosta per riuscire. Quelle doti che Salvini ha dimostrato di non possedere quando si è fatto imporre da Giorgetti e governatori la disastrosa svolta del Papeete».

Questo centrodestra dato per favorito ha le carte giuste per fronteggiare i poteri forti interni e internazionali?

«Se non pensasse di averle, farebbe meglio a rinunciare a proclamare grandi cambiamenti in caso di successo e a imbastire sottobanco trattative per riedizioni rivedute e corrette dell’esperienza-Draghi come, mi pare, alcuni suoi esponenti, soprattutto leghisti, che oggi si lamentano della caduta dell’esecutivo tecnico, preferirebbero. Ammesso che non stia già muovendosi in questa direzione – leggo di campagne acquisti di Fdi fra manager di alto livello buoni per tutte le stagioni – lo scontro con quei poteri dovrà provare a sostenerlo».

 

La Verità, 30 luglio 2022

«Mattarella si è schierato dalla parte di Letta»

Sinistra radicale. Sinistra storica. Storico di sinistra. Biografo di Antonio Gramsci. Uomo intransigente. Candidato sindaco di Torino con liste di sinistra sinistra (2,5% di consensi). Ispiratore della petizione contro lo schwa, la vocale inclusiva. Pronto a interrompere la collaborazione con La Stampa per le posizioni assunte sul Donbass dal quotidiano diretto da Massimo Giannini. È Angelo D’Orsi, salernitano, torinese d’adozione, frequente ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, su La7.

Professore, cosa la fanno pensare le prime elezioni settembrine della storia repubblicana?

«Sono un modo di forzare la situazione da parte del presidente della Repubblica, inducendo a votare in una certa direzione».

In che senso?

«Si vuole affermare che dopo Mario Draghi c’è il diluvio. Una certa fretta ha impedito di esperire la possibilità di formare un nuovo governo».

Sergio Mattarella aveva questa alternativa?

«In teoria, sì. Poteva verificare l’esistenza di una maggioranza diversa o chiedere delle modifiche».

Con un Parlamento logorato e scosso, le critiche sarebbero state ancora più violente.

«Un tentativo avrebbe costretto le forze politiche a responsabilità più esplicite».

E l’incombenza della legge finanziaria e degli impegni per il Pnrr?

«Sono giustificazioni oggettive, mi rendo conto. Ma vedo anche il tentativo di enfatizzare il ruolo simbolico di Draghi».

Come definirebbe questa crisi?

«È una crisi organica, nessuna delle forze in campo riesce a sconfiggere l’altra. Sono le crisi più pericolose nelle quali spunta l’uomo della Provvidenza».

Chi ne esce peggio?

«Ne escono tutti piuttosto male. Soprattutto il presidente del Consiglio che ha detto più o meno: “O me, o morte”. La risposta della destra lo ha spiazzato. Il primo sconfitto è Draghi perché al Senato ha sottolineato che era lì perché gli italiani lo chiamavano».

Più di Mattarella?

«Da qualche tempo Mattarella ha dimenticato il ruolo di supremo arbitro della Costituzione. Agisce da attore a tutto campo, che porta avanti la linea del Pd di Enrico Letta».

Critica durissima.

«È ciò che vediamo. Draghi oblitera il Parlamento e Mattarella lo lascia fare».

Però adesso si parla di Draghicidio.

«In realtà, Draghi stesso si era reso conto di non riuscire e non volere gestire il rapporto con i partiti. La sua replica era un invito a togliergli la fiducia. Un presidente del Consiglio che avesse voluto ottenerla non avrebbe usato quell’aggressività».

Guidato da Conte il M5s da movimento anticasta è diventato un laboratorio di bizantinismi?

«I 5 stelle sono un grande mistero. Hanno il record di tradimenti della storia repubblicana. Parlo di tradimenti della loro natura e dell’identità. Se Conte facesse un suo partito non avrebbe nulla a che vedere con i 5 stelle dell’origine».

Di Letta che cosa si può dire?

«È la tragedia di un uomo ridicolo. Diventando più bellicista del più bellicista dei leader europei, ha dimenticato la tradizione del partito. Nei giorni della crisi i tratti ridicoli sono riemersi quando ha continuato a dire che si lavorava alla stessa maggioranza, mentre era evidente a tutti che non si poteva. Letta difetta di capacità di lettura degli eventi e non è bastato a dargliela l’insegnamento all’Ecole Sciences-Po, che è il meno qualificato tra gli istituti di Scienze politiche parigini».

Il centrodestra si è ricompattato sulla linea di Giorgia Meloni?

«Restando all’opposizione ha calamitato tutta la limatura di ferro della sua area».

Ma i moderati come Mariastella Gelmini e Renato Brunetta se ne vanno.

«È un’evoluzione chiarificatrice. Personalmente non approvo le espressioni centrodestra e centrosinistra. Questa finta fusione di centro e destra o di centro e sinistra intorbida le acque e produce scissioni. Il centro tende a fagocitare le ali estreme che estreme non sono. Il mio maestro Norberto Bobbio mi ha insegnato che la vera libertà democratica è dalle coercizioni esterne e anche la possibilità positiva di scegliere tra opzioni diverse e divergenti».

In questa crisi c’è chi intravede la mano di una Russian connection: cosa ne pensa?

«Che sia una fantozziana boiata pazzesca».

Gli italiani come escono da questa crisi?

«Sono disinteressati a ciò che avviene nel palazzo. Non dobbiamo rallegrarcene, ma dobbiamo preoccuparci del fatto che le istituzioni non fanno nulla per avvicinarsi alle loro esigenze».

Su quali temi potrebbero farlo?

«Sul fatto che questa guerra non ci riguarda. Sul rifiuto da parte della maggioranza dei cittadini dell’aumento delle spese militari, soprattutto dopo una pandemia che, per altro, non è finita. In questa situazione aumentare le spese per le armi vuol dire togliere denaro ad altre necessità. Oggi nel servizio sanitario nazionale i tempi di attesa sono biblici, per un’ecografia si aspettano dai 300 ai 900 giorni. Questo dovrebbe essere in cima all’attenzione dei nostri governanti. Il Parlamento deve tornare a essere il cuore pulsante della democrazia».

A proposito di Parlamento, anche a lei, storico del fascismo, nei giorni scorsi pareva di trovarsi al cospetto di un uomo della Provvidenza?

«È l’impressione che abbiamo avuto in tanti. Lo schema dell’intervento di Draghi ha ricordato il discorso del “bivacco di manipoli” di Benito Mussolini. È passato un secolo ma, volgarità a parte, lo schema è lo stesso: o mi date tutto il potere oppure è la catastrofe. Un secolo fa era il caos. Mussolini insulta il Parlamento che non solo lo applaude, ma gli vota la fiducia. Draghi ha ottenuto 18 interruzioni per applausi da un Parlamento che ha regolarmente bypassato».

Adesso si parla dell’agenda Draghi: l’ex governatore della Bce potrà rispuntare?

«Sarebbe il draghismo senza Draghi. L’Italia è un paese pieno di sorprese, Draghi ha mostrato un’ambizione personale che non sospettavo ed è un uomo dei poteri forti. Questi elementi portano a non escludere di vederlo coinvolto in altri progetti. Anche se oggi la sconfitta è totale».

Gli appelli delle categorie, di una fetta di sindaci, dell’associazionismo e persino dei clochard di che cosa sono sintomo?

«Sono la dimostrazione del passaggio dalla post-democrazia al totalitarismo morbido, al neo-leaderismo plebiscitario. Mi ha turbato che quasi 2000 tra sindaci e presidenti di Regioni abbiano firmato un appello pro Draghi. Anche questo è stato un vulnus alle istituzioni. Aveva ragione la Meloni, sono state trasformate in succursali di partito».

Draghi ne è stato sedotto?

«Ha detto che era lì perché il popolo italiano lo aveva chiamato. Invece, i sindaci e le Regioni non sono il popolo italiano, ma rappresentanze istituzionali che non avrebbero dovuto entrare a piedi uniti nel piatto di una crisi. Ha cavalcato questo movimento eterodiretto, mentre avrebbe dovuto ignorarlo non solo per dimostrarsi più signore, ma più corretto istituzionalmente».

Qual è la sua opinione sul governo Draghi?

«Ha fatto politiche antipopolari, favorendo piccoli gruppi di privilegio, un 5% del totale della popolazione. Il restante 95, non parlo solo degli operai o dei rider ma della massa di impiegati, insegnanti, artigiani, piccoli imprenditori, patisce le conseguenze della crisi economica potenziata dalle problematiche della pandemia. La quale ha aumentato la distanza tra ricchi e poveri non solo in termini economici, ma anche di status sociale e di possibilità di reagire ai colpi della sorte. Ora, con la guerra, su questa situazione si aggiungono gli effetti delle sanzioni alla Russia che sono, di fatto, sanzioni alla popolazione italiana».

Viviamo in una bolla mediatica fatta di appelli, narrazione univoca, tg monoliticamente schierati?

«Siamo in una situazione inedita, mai visto un tale unanimismo. Ti consentono di parlare e dissentire, ma poi le minoranze vengono sbeffeggiate, irrise, messe all’angolo. Nel suo La democrazia in America Alexis de Tocqueville scrive che le minoranze devono avere la possibilità di diventare maggioranze. Oggi siamo al paradosso che la maggioranza della cittadinanza è contraria all’impegno militare, ma questa maggioranza non ha rappresentanza da nessuna parte».

Che giornali legge al mattino?

«Benedetto Croce diceva che comprava i giornali al mattino e gli passa la voglia di leggere perché erano tutti ugualmente instupiditi. La Stampa, La Repubblica e Il Corriere sembrano un unico giornale. Anche Il Manifesto mi ha deluso. Dovrei smettere come dice Croce. O cercare alcune cose interessanti sul Fatto quotidiano, su Avvenire, Domani e anche La Verità benché lo consideri un giornale di destra. Quotidiani minori, fuori dal coro».

L’insistenza sulle varie emergenze come la crisi finanziaria, la pandemia, la guerra, il clima, serve a giustificare il ricorso a premier tecnici anziché a governi politici?

«Se la politica si rivela inutile c’è sempre un banchiere a cui ricorrere. Ma non tutti i banchieri sono uguali. Anche Luigi Einaudi era un banchiere, ma aveva una cultura politica di primissimo livello».

Adesso però si va a votare, chi arriva meglio al 25 settembre?

«La Meloni, anche se non credo che vincerà. Perché nascerà un raggruppamento in cui il Pd catalizzerà le forze minori per sconfiggerla. Però chi parte meglio è lei perché è stata coerente rimanendo fuori dal governo».

Quindi concorda con osservatori come Luca Ricolfi, Paolo Mieli e Alessandra Ghisleri che dicono che non è scontata la vittoria del centrodestra?

«La maggioranza è un centro mobile che si sposta verso sinistra o verso destra a seconda delle circostanze. Un grande polipo che acchiappa quello che può all’insegna dell’opportunismo. Questo perché le forze politiche non hanno un’ideologia forte, ma prevale la fluidità. O la liquidità di cui parla Zygmunt Bauman».

Dopo la tumulazione del campo largo ora Letta si appella agli «occhi della tigre» di Rocky.

«Cosa non si fa per guadagnare attenzione, dietro la seriosità del personaggio emerge la cialtroneria».

Se la destra vincesse saprà governare fronteggiando i poteri forti interni e internazionali?

«La risposta è no. Qualunque risultato ci sia prevedo che anche la prossima legislatura non arriverà al termine naturale».

Non resta che emigrare?

«Temo di sì. Mi sento straniero in patria».

 

La Verità, 23 luglio 2022