«La sinistra vince se tiene lontani i big nazionali»
Buongiorno Giovanni Diamanti, scriviamo insieme il suo curriculum vitae? å
«Consulente politico e socio fondatore di Quorum e Youtrend, due marchi di un’unica agenzia di comunicazione, analisi politica e sondaggi. L’ho fondata a 22 anni con Lorenzo Pregliasco, Davide Policastro, Roberto Greco e Matteo Cavallaro. Tra le varie cose, sono professore a contratto di Marketing politico all’Università di Padova e di Storytelling politico alla Scuola Holden di Torino».
Studi, letture, passioni?
«Laureato in Sociologia. Le passioni sono la storia dei partiti politici, il calcio, il tennis e il cinema».
Storytelling politico come materia di una scuola di scrittura mi giunge nuova.
«È un ramo della comunicazione legato al racconto e alla narrazione. Spesso le storie personali dei leader raccontano i loro valori più dei fatti».
Ma la Holden è una scuola per scrittori, chi frequenta il suo corso?
«La Holden ha una proposta formativa ampia. I frequentatori sono studenti appassionati di comunicazione politica».
Segreti del mestiere appresi da papà Ilvo, immagino: che cosa in particolare?
«In realtà, mio padre è uno studioso, un politologo, mentre io ho iniziato a impegnarmi nelle campagne elettorali prima dei vent’anni, facendo un percorso diverso. In comune abbiamo la passione e lo studio della politica. Le nostre attività si toccano sul lato dei sondaggi, ma Demos e Youtrend sono agenzie concorrenti, con specificità diverse».
Altri maestri?
«Ne ho avuti tanti. Da Nando Pagnoncelli, amico di famiglia, ho imparato a capire quanto il dato sia da studiare e non da utilizzare. E poi nella professione cito Filippo Sensi».
Mitico «nomfup» di Twitter.
«Profilo tuttora attivo, anche se più istituzionale. Nel 2014 con Matteo Renzi, Sensi portò il Pd al 40% con una campagna costruita sul derby tra speranza e paura. Ero all’inizio e lui mi diede molti amichevoli consigli».
Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino?
«Velardi è un amico dal quale ho imparato molto. Anche se sono della generazione successiva, appartengo alla vecchia scuola, poco digitale».
Quali sono gli strumenti principali del suo lavoro?
«Non lavoriamo sul day by day per suggerire le dichiarazioni giornaliere. Il nostro cassetto degli attrezzi sono i sondaggi, i focus di gruppo, il clima d’opinione, il profilo del candidato e le analisi delle rassegne stampa per elaborare un piano strategico di medio e lungo periodo».
Nei giorni scorsi Giovanni Diamanti ha trovato visibilità oltre la cerchia degli addetti ai lavori come consulente di Giacomo Possamai, il nuovo sindaco di Vicenza, unica città conquistata dalla sinistra alle recenti amministrative. 34 anni, barba e occhiali hipster, zero iperboli, salti ubiqui tra riunioni e call ma piedi ben piantati per terra, molta prudenza nel rispondere, nella carriera dello «spin doctor di Possamai» c’è molto più di ciò che fa immaginare la sua giovane età.
Il curriculum prosegue con la lista delle campagne vincenti.
«Beppe Sala a Milano nel 2016, Roberto Gualtieri a Roma nel 2021, l’anno scorso Damiano Tommasi a Verona, adesso le comunali di Vicenza. Prima due campagne di Vincenzo De Luca, due di Nicola Zingaretti per le primarie e alle ultime europee. Anche Pierfrancesco Majorino ed Elisabetta Gualmini alle europee».
Sconfitte?
«In quelle di Majorino c’eravamo noi. Alle primarie a Milano del 2016 arrivò terzo, ma fu comunque un grande risultato, tanto che Sala ci chiamò subito dopo. Anche alle ultime regionali abbiamo lavorato con Majorino. Sconfitta anche alle comunali di Genova del 2017, sempre con il centrosinistra».
Perché la vittoria a Vicenza ha fatto scalpore?
«Il primo motivo è perché è l’unico successo del centrosinistra. Il secondo, perché è l’effetto di una convinzione errata: cioè che Vicenza sia storicamente di centrodestra, mentre i dati dicono che è contendibile».
È lei ad aver suggerito a Possamai di non far arrivare Elly Schlein?
«Non credo alle idee magiche dei guru. Sicuramente era un’idea che rientrava nel piano strategico presentato un anno fa, quando ancora lei non c’era».
In questo caso, non vederla arrivare è stato vincente?
«È stato vincente impostare una campagna vicentina, che parlasse di temi vicentini e con persone vicentine. Elly Schlein, come qualunque altro leader nazionale, sarebbe uscita da questo schema».
Anche Damiano Tommasi a Verona era un outsider e anche lì avete ribaltato il pronostico.
«Verona e Vicenza sono campagne d’identità cittadina contrapposta alla visione nazionale. Ma ci sono anche differenze: Tommasi era un candidato civico puro che parlava di valori, Possamai è un leader storico di partito che ha proposto un progetto chiaro di città».
La ricetta comune è tenere lontani i leader nazionali?
«In questi casi, sì. Ma le campagne elettorali sono abiti cuciti su misura sui candidati e sulle città. L’esempio più chiaro è Roberto Gualtieri a Roma che nel 2021 godeva di un prestigio personale. Nel suo caso coinvolgere figure nazionali era un valore aggiunto».
Altrimenti, in periferia, la loro presenza afferma paradossalmente la distanza dalla gente comune?
«Non direi così. A Vicenza volevamo fare una campagna opposta a quella dell’avversario. Richiamare qualunque leader nazionale avrebbe riportato la contesa nello scontro tra centrodestra e centrosinistra. Invece, per noi il progetto vicentino voleva dire ripensare le alleanze. Non c’è stato il campo largo, ma il lavoro delle liste civiche che si sono alleate al Pd, senza timore di guardare anche al centrodestra, per esempio coinvolgendo Matteo Tosetto, storico esponente di Forza Italia e vicesindaco uscente».
La sinistra vince dove il Pil è più alto?
«Da Milano a Padova, passando per Bergamo, Brescia, Verona e Vicenza ora c’è una filiera di amministrazioni di centrosinistra. Forse ha leader di maggiore qualità. Il centrodestra dovrebbe interrogarsi sul fatto di non toccare palla in questi territori. È la sfida principale che deve affrontare nei prossimi anni. E che, va detto, sembra aver iniziato ad affrontare, visto che in queste ultime elezioni ha vinto ovunque, forse più per la forza della coalizione che dei suoi candidati».
Per Alessandra Ghisleri, Schlein non ha ancora trovato un’identità forte: che cosa sbaglia e che cosa azzecca la segretaria Pd?
«Ha capacità comunicativa e predisposizione a rompere gli schemi. Deve riuscire a far capire qual è la sua idea del Pd. Oggettivamente, ha avuto poco tempo, ma l’identità e il posizionamento è uno storico problema del partito».
Era sbagliato aspettarsi che, essendo stata eletta dai non iscritti, ampliasse i consensi anche alle urne?
«Penso sia il suo primo obiettivo, ma credo si dovrà misurarla alle europee dell’anno prossimo».
È un corpo estraneo, anche pensando alla squadra che ha scelto?
«Non la definirei così. Sicuramente ha un approccio diverso dai predecessori e vuole aprire in modo più netto all’esterno».
Fa bene a insistere sui diritti delle minoranze?
«Non so se le giovi. È un tema che può mobilitare fortemente, ma che deve andare di pari passo ad altre questioni».
Come giudica la sua comunicazione, troppe supercazzole?
«Giudichiamola tra qualche mese».
Le avrebbe consigliato l’intervista a Vogue?
«Sono scelte che bisogna vivere da dentro, conoscere la strategia e lo scopo. La comunicazione è qualcosa di complesso di cui bisogna conoscere l’articolazione».
Strategicamente era la testata giusta?
«Si coglie il tentativo di comunicare in modo non tradizionale. Se funziona o no lo si capirà nel medio e lungo periodo. Quando Renzi si vestiva da Fonzie per andare ospite di Maria De Filippi molti lo perculavano, ma per altri era un genio».
Giova alla sinistra la campagna sul ritorno del fascismo? Porta consensi?
«Forse può mobilitare, ma non si fa solo ciò che porta consenso. François Mitterand s’impegnò per l’abolizione della pena di morte e, quando i suoi consiglieri gli fecero notare che i francesi erano per il mantenimento, rispose che non gli importava perché quello era un obiettivo giusto».
Era Mitterand.
«Certo. Se il Paese vuole risposte sul lavoro e tu gli parli di cultura o di scienza, non sembri in sintonia. Bisogna trovare un equilibrio tra temi popolari e temi giusti».
Nella squadra di centrodestra ci sono punti deboli?
«Vedo Giorgia Meloni molto forte, mentre non vedo una classe dirigente dello stesso livello. Questo è il primo elemento. Poi torvo che nella coalizione ci sia un po’ di vuoto nell’area classica, liberale e moderata. Forza Italia si è indebolita, Fdi è un partito conservatore, la Lega un partito identitario, manca l’attenzione alle classi liberali e produttive che, infatti, guardato al terzo polo».
C’è qualche lacuna nella comunicazione?
«Manca un po’ di coordinamento. Ma non ho visto grandi strafalcioni o divisioni su questioni importanti».
Sbaglia Marco Travaglio quando dice che Meloni vince perché è di moda?
«Non capisco cosa significhi. Uno vince quando convince di essere il candidato migliore o quando ha una proposta che mobilita. Giorgia Meloni vince perché si è costruita una sua credibilità e porta avanti diverse posizioni in sintonia con il clima d’opinione prevalente nel Paese».
Ha punti deboli?
«La ritengo ancora un po’ troppo ideologica su alcuni temi, alla lunga questo sarà un problema. In alcune conferenze stampa non mi è sembrata sempre brillante».
Come mai la tendenza verso posizioni conservatrici o di destra si registra in tutta Europa?
«C’è un clima d’opinione in cui prevale una forte rabbia sociale, ben interpretata da chi utilizza determinati toni. Ma sono tendenze che si modificano abbastanza rapidamente. Per esempio, subito dopo la fine della prima ondata del Covid, si diceva che i sovranisti iniziavano a indebolirsi».
Cicli di breve durata?
«Sì, però è evidente che oggi il ciclo è questo».
Durerà più Meloni o Schlein?
«Al tempo di Bettino Craxi e Silvio Berlusconi i cicli duravano un ventennio. Ultimamente le leadership hanno archi più brevi, poco più un biennio, come abbiamo visto con Renzi, Luigi Di Maio, Matteo Salvini. Meloni non è ancora entrata in fase di erosione. Di sicuro entrambi hanno di fronte uno scoglio: Meloni, la gestione del Paese in una fase non facilissima; Schlein, la guida di un partito nel quale le leadership durano poco. Schlein è appena arrivata, Meloni è stabile da un po’: nessuna delle due ha il lavoro più stabile e tranquillo del mondo».
La Verità, 3 giugno 2023