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«Il comunismo è morto e la proprietà privata quasi»

Discepolo e biografo del giurista e politologo Bruno Leoni e fondatore dell’istituto a lui intitolato, Carlo Lottieri è uno dei maggiori filosofi italiani. Teorico del pensiero liberista e liberale, è tra i più raffinati critici dell’intervento dello Stato in economia e delle sinergie tra burocrazie pubbliche e grandi corporation del mondo digitale che vediamo in azione, di emergenza in emergenza, dall’avvento della pandemia a oggi. L’ultimo suo libro, pubblicato da LiberiLibri, s’intitola La proprietà sotto attacco.

Professore, perché oggi la proprietà è sotto attacco?

«Alcune ragioni sono ideologiche e altre, invece, discendono dal rapporto tra politici ed elettori. Nelle democrazie contemporanee, infatti, quanti governano “comprano” voti distribuendo favori, ma per farlo devono calpestare il diritto e in particolare il diritto di proprietà».

Lo è più di ieri?

«Non c’è dubbio. Durante il ventesimo secolo tassazione e spesa pubblica sono cresciute grosso modo di 5 volte. Oltre a ciò, abbiamo una fitta regolazione in virtù della quale anche ciò che formalmente resta nelle nostre mani, in realtà, non è più sotto il nostro controllo. Come nel caso di un’abitazione che non posso affittare per un solo giorno…».

Quali sono le cause che hanno portato a questa situazione?

«Dobbiamo tenere presente che l’interesse dei politici e dei loro complici è che noi si sia spogliati di ogni cosa e di conseguenza bisognosi di tutto. Una società di gente senza nulla è più governabile. Per giunta, le classi dirigenti sono dominate dalla presunzione di chi si ritiene chiamato ad amministrare l’intera società, e per farlo deve svuotare ogni titolo di proprietà».

Pierre-Joseph Proudhon considerava la proprietà privata un furto, un danno per la collettività. Ma il marxismo, che ha predicato la collettivizzazione dei mezzi di produzione, con la caduta del muro di Berlino ha esaurito la sua spinta propulsiva. O no?

«Il marxismo ortodosso è ormai marginale, ma molti suoi temi restano influenti: a partire dall’idea che il capitalismo sarebbe il male assoluto e che nei rapporti di mercato il borghese sfrutterebbe il proletario. La legislazione contemporanea, su lavoro, affitti e via dicendo, poggia su queste tesi».

La proprietà oggi è in crisi perché è in auge l’idea che se qualcuno guadagna, qualcun altro deve perdere?

«In parte è così, dato che molti ignorano che negli scambi volontari tutti ci guadagnano. Oltre a questo, va detto che i favoreggiatori intellettuali della classe politica hanno diffuso la convinzione che avere qualcosa o conoscere la realtà significherebbe disporre di “potere” sugli altri. Di conseguenza, il vero dominio di chi ci aggredisce viene legittimato».

È per questo che l’imprenditore, il capitalista, genericamente il benestante viene guardato con sospetto?

«L’odio per il libero mercato è una costante della cultura egemone degli ultimi due secoli: a destra e a sinistra. Va anche aggiunto che oggi la maggior parte dei capitalisti chiede privilegi. Il sospetto è dunque più che giustificato».

Perché lei considera la proprietà un diritto inalienabile? Qual è il suo fondamento?

«La proprietà è innanzi tutto la proprietà altrui, che non posso violare. Se riconosco la dignità del prossimo, non posso alzare la mano su di lui. L’altro mi trascende e questo altro è incarnato: ha una storia e possiede beni. Entrare in casa sua senza autorizzazione è una violenza inaccettabile. Tutto ciò, però, è incompatibile con il potere sovrano, che ci considera pedine a sua disposizione».

Non è comunque indispensabile una regolazione della proprietà a tutela dei ceti più deboli? Diversamente non vige la legge della giungla, la legge del più forte?

«L’arbitrario potere nelle mani dei legislatori è esattamente la legge del più forte. Per giunta, in un regime statalista quanti hanno di più sono in grado di influenzare a loro favore il ceto politico ed espropriare chi ha poco… Basti pensare alla “transizione verde”, che è un regalo fatto a gruppi finanziari senza scrupoli. Invece, la migliore tutela dei più deboli è una granitica difesa della proprietà e quindi anche della libertà di contratto».

Il welfare a cosa serve, allora?

«Creato dal cancelliere Otto von Bismarck e poi rafforzato da logiche socialdemocratiche, il welfare è lo strumento che politici e gruppi parassitari sono riusciti a escogitare per contrabbandare come aiuto ai deboli quello che, nei fatti, è solo uno strumento di dominio e controllo sociale. In Italia, basti pensare agli innumerevoli scandali nella previdenza di Stato, ma anche ai molti business legati ad assistenza e immigrazione, dovremmo averlo capito».

Tassazione e redistribuzione sono funzionali a questo?

«Servono a consegnare il potere a pochi. E come già avveniva con Giuda (Giovanni 12,6) quanti hanno la cassa tendono a essere disonesti e a usarla a proprio vantaggio».

Oggi il pericolo maggiore per la libertà della persona deriva dalla saldatura tra potere politico ed economia, tra Washington e Wall Street?

«L’espansione dello Stato ha corrotto tutto e soprattutto le imprese. Realizzare profitti servendo i consumatori non è facile; ottenere aiuti da amici legislatori e banchieri centrali, invece, può essere un gioco da ragazzi. Per questo la cultura ispirata dal grande business è tanto conformista».

Che funzione hanno in questo scenario le corporation dell’economia digitale?

«Da un lato dispongono di enormi risorse e dall’altro possono condizionare pesantemente l’opinione pubblica. Lo scandalo dei Twitter files la dice lunga in merito al fatto che oggi proprio quelle realtà saldano potere, interessi e ideologie».

Perché secondo lei la pandemia è stata la prova generale del nuovo ordine mondiale?

«Qualche anno fa era inimmaginabile che qualcuno potesse imporci di non uscire dopo le 10 di sera, che avremmo subito trattamenti sanitari obbligatori e non ci saremmo potuti spostare da Peschiera a Desenzano. Il potere ora sa quanto la società sia fragile e com’è facile dominarci secondo logiche cinesi».

Anche la nuova emergenza climatica riduce l’autonomia dell’individuo basata sulla proprietà?

«Il dogmatismo para-religioso di chi pretende di disporre di una conoscenza assoluta in tema di clima sta permettendo di commissariare l’intera umanità. Passando di emergenza in emergenza i nostri diritti stanno svanendo nel nulla».

Dalla proprietà immobiliare a quella dei mezzi di trasporto, su che poteri fa leva il controllo dei comportamenti dei cittadini che appare sempre più pervasivo?

«Una regolazione tanto minuziosa – così che la camera deve essere alta almeno 270 cm, mentre il bagno 240 cm… – ci educa alla passività: a quel punto siamo pronti a farci derubare da chi decide le priorità e, ad esempio, stabilisce che ridurre la CO2 è più importante che contrastare i terremoti, oppure che è meglio combattere l’inquinamento invece che la povertà».

Un tempo queste istanze avverse alla proprietà sembravano prerogativa dei movimenti di sinistra, dal socialismo ottocentesco alla Fabian society. Oggi chi sono i soggetti propugnatori di questi comportamenti?

«Il progressismo unisce gli ideologi dell’anticapitalismo, gli ecologisti, i tecnocrati alla Klaus Schwab e i grandi interessi finanziari – basti leggere i “codici etici” di Black rock -. È la sinistra arcobaleno delle aree Ztl».

Si va verso una trasformazione della proprietà individuale dei beni a una condivisione sempre maggiore di servizi?

«Ci dicono che invece di possedere una casa o una vettura potremo usarle. In questo modo, però, qualcuno stabilirà chi avrà quel diritto e chi no. Saranno gli interpreti di questo nuovo potere a possedere tutto e a gestire la nostra vita».

Va letto in questa cornice anche l’ostruzionismo verso gli affitti brevi?

«In una società caratterizza da stili di vita che portano a spostarsi sempre di più avremmo bisogno di una micro-imprenditorialità duttile e innovativa. Ma se le abitazioni diventano una possibilità per “fare impresa”, il progetto di una società integralmente amministrata incontra difficoltà. L’avversione agli affitti brevi esprime questo odio per la libertà del proprietario».

Come cambieranno le nostre città in questa prospettiva?

«Il rischio è che vi accedano solo i più ricchi, che avranno le risorse per comprare costose auto elettriche e abitazioni in classe A. Per giunta le città sono sempre meno luoghi di mercato, e sempre più centri di potere e burocrazia».

È un cambiamento che in alcune metropoli è già tristemente visibile?

«Senza dubbio. Il progressismo sta conducendo una guerra ai poveri che è sotto gli occhi di tutti. Le norme urbanistiche penalizzano chi vorrebbe trasformare in un loft un seminterrato, senza però dover spendere capitali e produrre montagne di carta».

Intravede qualche rallentamento in atto in questo processo di attacco alla proprietà e di controllo sui cittadini?

«No. I giovani sono educati a considerare un male tutto ciò che è privato, mentre il pubblico, cioè il potere di pochi, sarebbe al servizio della collettività. Chi comanda sta dotandosi di servitori ubbidienti».

Quanto la preoccupa che anche la Chiesa rischi di allinearsi su questi temi all’ecologismo politicamente corretto?

«Specialmente con questo pontefice, la Chiesa pare desiderare i facili applausi di chi è sempre allineato. Così, però, si finisce per avallare il peggior luogocomunismo. Lo s’è visto durante la pandemia e lo si vede ora che ci stanno predisponendo un’altra emergenza, quella climatica».

Invece, non le sembra che qualche segnale di ravvedimento stia giungendo dallo svolgimento più problematico dei lavori della Cop28, dove si sta iniziando a considerare il ruolo dell’energia nucleare?

«Queste kermesse prefigurano una sorta di “governance” globale sulla base di assunti pericolosi: dirigisti e statalisti. Fortunatamente gli interessi degli uomini di potere talora sono divergenti e quindi c’è la speranza che il progressismo occidentale non vinca la resistenza di quanti, specie in quello che era il Terzo mondo, sono indisposti a sacrificare le prospettive di vita dei loro concittadini. Purtroppo, difficilmente avremo in tempi ragionevoli un vero mercato dell’energia».

In Europa una possibile novità potrebbe venire dal mancato successo della cosiddetta maggioranza Ursula alle prossime elezioni europee a vantaggio di coalizioni alternative? Si sente di fare delle previsioni?

«Le politiche elitarie e liberticide dell’Unione europea e della Bce suscitano reazioni, interpretate soprattutto dalle forze di destra. Senza una seria svolta culturale, però, non succederà proprio nulla».

 

La Verità, 9 dicembre 2023

 

 

 

 

 

Camon, lo straniero della globalizzazione

L’estate scorsa, quando andai a salutare Ferdinando Camon in un paesino della Val Zoldana dove ha una casa che guarda il Pelmo, lo trovai contrariato. Era il primo anno che non se la sentiva di guidare e, per andare a comprare i giornali, ricorreva all’autostop. Si metteva sul ciglio della strada e agitava la mano, gesto che i più scambiavano per un saluto, ma prima o poi qualcuno si fermava. Solo dopo qualche giorno di questa trafila si era rassegnato ai tempi della corriera. In questo buttarsi di slancio, quasi con la semplicità di un bambino anche a 87 anni, si origina molta della sua produzione letteraria. Per Camon il rapporto con la realtà è corpo a corpo, confronto senza mediazioni, non di rado conflittuale. Sempre, comunque, significativo. In quella casa di montagna l’autore padovano ritrova le condizioni propizie alla scrittura di cui il caldo della sua città lo priva. Poi c’è la sagoma del Pelmo: «Lei adesso mi vede vecchio e malandato», raccontò, «ma ho fatto il militare da ufficiale degli alpini su quella montagna. Per salire in vetta bisogna superare una cengia larga 35 centimetri, esposta su uno strapiombo. Si deve strisciare sulla pancia, perciò si chiama Passo del gatto. Si guarda la roccia che, fino a un paio d’anni fa, era tempestata di foto di ragazzini che non guardavano la parete ma l’abisso, e sono caduti. Passavi la cengia con il naso su quei volti…».

Da questo sguardo ravvicinato scaturisce il realismo di Camon, la sua tempra. Sia che si esprima in prosa, nella saggistica, sui giornali o in poesia. Come nell’ultimo Son tornate le volpi. Come muore la nostra civiltà, pubblicato dalla Apogeo di Paolo Spinello e Sandro Marchioro. È una raccolta di una cinquantina di liriche, altrettante visioni scabrose, spigoli della quotidianità, lacerazioni del vivere al tempo della globalizzazione. Lontano dalla poesia ombelicale, tuffata nelle grotte della psiche, come pure da quella civile che si auto-investe della riparazione del mondo, i versi di Camon guardano fuori, si misurano con le pareti scoscese senza risparmiarsi il rovello del dubbio. Anzi, accettando tutta la complessità di questa verifica, foriera di moti di ribellione all’indifferenza, alla rassegnazione… Autore pasoliniano, quale si definisce – Pasolini scrisse la prefazione a La vita eterna, il suo primo romanzo, scritto per vendicare il destino dei partigiani contadini delle sue terre, fatti uccidere dal capo delle SS, scoperto in Germania proprio grazie a quel libro, appena tradotto in tedesco – Camon ama intervenire sui fatti di cronaca, soprattutto là dove si palesa la contraddizione. Sempre con quel marchio dell’incontro-scontro, impresso nel carattere fin da bambino: «Sono figlio di contadini poveri. In casa, io e i miei tre fratelli, mio padre e mia madre camminavamo a piedi nudi sulla nuda terra». Questo universo di povertà e carne viva, di asperità e attriti, Camon l’ha raccontato in Un altare per la madre, la sua opera più famosa (premio Strega 1978), tradotta in venticinque Paesi. Era, quello stesso libro, un monumento alla famiglia, alla madre e al padre che, lottando contro la morte, le eresse quell’altare. Invece, per causa di quel racconto, suo padre decise di diseredarlo. Si presentò con suo fratello, il notaio e due testimoni. E Camon firmò l’atto: «Li ho capiti, li capisco. Per loro, scrivendo della nostra povertà ho disonorato la famiglia, il nostro sangue. C’è la famiglia e c’è il resto del mondo. La famiglia è più importante di un libro».

Oggi che cambia tutto, il capitalismo, il cristianesimo, la società, come si fa a non essere tormentati? Camon è orfano della civiltà contadina, la cui scomparsa, per Charles Péguy, «è il più grande avvenimento della storia dopo la nascita di Cristo». L’altro lutto che si porta dentro è la morte del vecchio cattolicesimo. Perciò, come osserva Emilio Manco nella prefazione di Son tornate le volpi, «qualunque cosa giudichi… sotto-sotto si vendica sempre del suo lutto», di questa doppia condizione di orfano, facendola pagare ai lettori. «Prima di tutti la pago io», ribatte. «Sono stato formato da piccolo per vivere tutta la vita dentro una verità, ma così non è. Patisco molto la metamorfosi del sacro». In quel sistema di giornate e stagioni scandite dalla fede si componeva anche la povertà: sublimata, trasfigurata. Per uno così sarebbe finzione credere alle chimere del pensiero corrente. Dunque, svelarne vuoti e tradimenti non è vendicarsi di una doppia privazione, ma un desiderare schietto, senza infingimenti. «Sono un narratore della crisi», dice di sé. «Racconto il prezzo del progresso». Del capitalismo darwiniano, della globalizzazione selettiva, del mercatismo finanziario. Che vagheggiano integrazioni, sempre incompiute. Sostenibilità inseguite, quasi sempre a vantaggio delle élite. Democrazie digitali stratificate. Il risultato sono scarti, frange di sconfitti, escrescenze criminali, metastasi di scorie…

In Son tornate le volpi le stazioni ferroviarie diventano ricoveri di un’umanità perduta. Fuori da Roma Termini o da Torino Porta Nuova ci s’imbatte nei barboni a terra. Camon se li porta nei pensieri. «Di sera i barboni/ s’addormentano di botto/ tra due cartoni,/ uno sopra e uno sotto./ Li leccano i cani/ con la lingua rosetta,/ li scansano i cristiani/ che vanno di fretta…». I drogati finiscono la giornata dentro vagoni-ospedale. «Di notte sui binari/ morti vanno i treni fuori servizio:/ senza il permesso dei funzionari/ vi salgono giovani perduti nel vizio:/ Bevono intrugli/ di lattine,/ birra,/ coca,/ rimasugli/ lasciati dai viaggiatori…».

È poesia sociale e dell’irrisolto, del non sentirsi a posto. Solcando i margini della globalizzazione e scontornandone le contraddizioni, più che proporli, Camon allerta modi differenti di guardarle. E ci mostra scafisti albanesi che solcano il Mediterraneo con motori da 6.000 di cilindrata, suore arrestate per favoreggiamento della prostituzione, immigrate che spengono la cicca sul piede di un bimbo per farlo piangere quando si avvicina «un borghese dalla faccia cortese» che «ci casca e mette la mano in tasca». Accettare il cinismo, le derive e i soprusi per la sopravvivenza vuol dire razionalizzarli e perpetrarli? Ammettere la resa dei poveri e l’assenza di soluzioni dei ricchi vuol dire arrendersi alla sconfitta? Ci si dibatte tra pietà e giudizio, tra consolazione e accusa. Su tutto domina la paura: dell’estraneo, del diverso, dell’ignoto. Perché, finora, tra i bersagli mancati dal progresso c’è l’integrazione. La «città multietnica» di giorno «è italiana,/ operai, impiegati, studenti, donne./ Di sera diventa nigeriana,/ presidiata dai racket della prostituzione./ A mezzanotte si fa marocchina…». Alla lunga, osserva lo scrittore padovano, «questa integrazione sarà obbligata dal contatto e dalla convivenza». Ma non si dà pace che avvenga penalizzando la cultura di chi ospita: «Ormai negli ospedali/ ci son più mussulmani che cristiani,/ e l’associazione dei diritti umani/ alza la voce:/ via dalle stanze la croce». Così il paziente arabo s’inginocchia rivolto alla Mecca e invoca il suo Allah, mentre il paziente cristiano si volge alla parete vuota e vede la vernice più bianca dove manca il crocifisso: «Questo lo rende muto:/ è la prova che il suo Dio ha perduto».

Questa terza raccolta poetica, dopo Liberare l’animale (Premio Viareggio) e Dal silenzio delle campagne, entrambi con Garzanti, è stata presentata senza troppe illusioni alla prima edizione del Premio Strega Poesia. «Sono sempre andato allo sbaraglio, per di più non sono romano», dice. «E poi lo Strega l’ho già vinto. Quella volta con me c’era Piero Gelli, il direttore editoriale della Garzanti dell’epoca. Sapevo che Livio, che per me era quasi un fratello, era a Roma… Terminato lo spoglio, Gelli sparì cinque minuti e tornò con lui che se n’era rimasto nascosto in un bar poco distante. A mia moglie mostrò la prenotazione di due posti per una crociera ai Caraibi. Era il suo modo di compensare la probabile sconfitta. Invece… Indovini che cosa disse mia moglie, ridendo».

 

Poesia nuova serie n. 19, maggio/giugno 2023

«Perché mi piace marinare la scuola dell’attualità»

L’intervista è finita quando mi accorgo che Claudio Magris ha compiuto 81 anni venerdì santo, l’altro ieri per chi legge.

Come ha festeggiato, professore?

«Anche se non sono praticante non ho ceduto a libagioni. Quando, da giovane, comunicai a mio padre che non avrei più frequentato la Chiesa, lui, nemmeno praticante, mi rispose che si trattava di una scelta da ponderare bene. Perciò, sobrietà. Ho fatto un brindisi la sera prima con i miei figli che sono venuti a trovarmi. Venerdì, invece, ho allungato un po’ la passeggiata sul lungomare, quella sì. Ma non mi hanno arrestato». Le parole di Magris sono venate di ironia, di memorie visive e di un certo spirito asburgico fatto di austerità e rispetto. Sentimenti che attraversano la sua letteratura. Compreso l’ultimo libro, Tempo curvo a Krems (Garzanti), composto di cinque brevi racconti con protagonisti diversi, tutti un po’ avanti negli anni e inclini a un’esistenza riservata. Al telefono trattiamo le condizioni della nostra chiacchierata – «parliamo della Pasqua, non di politica» – e ci diamo appuntamento. Triestino molto affezionato a Torino dove si è laureato e ha a lungo insegnato letteratura tedesca, collaboratore da cinquant’anni del Corriere della Sera, in possesso di una cultura sterminata che, senza riuscirci, fa di tutto per dissimulare – «sono un tipo da birreria» – Magris è per Mario Vargas Llosa «uno dei più grandi scrittori del nostro tempo».

Come trascorre la clausura?

«Paradossalmente incalzato. Sto finendo un lavoro che devo consegnare alla Mondadori. Dovrebbe intitolarsi Vere e improbabili, come le tre storie che racconto. Una delle quali, protagonista una missionaria salesiana, richiedeva molte verifiche. Poi rispondo alle lettere, sto con mia moglie… Vivo quello che Giuseppe Ungaretti ha chiamato “il deserto di chi sopravvive”. Ho perso molte persone care e amici. Egoisticamente, mi dispiace più per me che per loro. Ci vorrebbe un tuffo in mare…».

Già in questa stagione?

«Quest’anno il clima è particolarmente mite. Da metà aprile a ottobre, quando il tempo lo consente mi immergo ogni giorno per una mezz’ora».

È un nuotatore?

«No, non è un’abitudine sportiva. Non m’interessano prestazione e velocità, ma l’abbandono. Nuoto a lungo, lentamente».

Le manca molto?

«Non credo ci sarebbero controindicazioni se uno nuota da solo… Capisco che non si possa perché poi lo imiterebbero altri. E io sono ligio alle regole. Però, senza il mare per me anche l’amore è impensabile… Vederlo, ascoltarlo, ma soprattutto essere dentro. È una confidenza che ho ereditato da mia mamma. Avrò avuto 4 anni, poco più, quando imparai a nuotare. Ero appeso alle sue spalle mentre s’inoltrava nell’acqua. Deve aver percepito che non avevo paura e mi lasciò scivolare dentro, tranquillamente…».

C’è qualcos’altro che le manca in questi strani giorni?

«Certi aiuti pratici che risolvono la mia disabilità digitale. Non un vezzo, una vera incapacità. Registro su cassette, un paio di persone ascoltano e trascrivono. Ci vediamo sotto casa per scambiarci il materiale come fosse una refurtiva. Mi aiutano anche i miei figli, ma non voglio pesare troppo su di loro».

Che cosa fanno i suoi figli?

«Il maggiore è nato qualche ora prima che morisse mio padre. La notte tra il 29 e il 30 maggio 1966 andavo da un reparto all’altro dell’ospedale… Ha studiato all’estero, insegnato in Belgio, in Francia, ora è tornato. Il secondo si è laureato in legge, si occupa di appalti, ma ama girare e produrre corti cinematografici. Lui ha sempre vissuto a Trieste. Il paradosso è che, mentre del primo, giramondo, sapevo tutto, del secondo, stanziale, non so niente. È un’omertà che serve a proteggerlo e proteggermi, sono un padre ansioso».

Siete molto complici?

«Un triumvirato. Viviamo in ganga, come si dice a Trieste».

Oltre al mare e agli aiutanti che cosa le manca ancora?

«Le passeggiate, la città, il caffè. Lo so, in interiore homine habitat veritas (nell’intimo dell’uomo risiede la verità ndr), però a me piace uscire, fermarmi anche per poco con un amico. Amo una certa coralità perché appartengo a una generazione fortunata. Sono nato nel 1939 e la guerra l’ho vissuta attraverso i racconti dei miei genitori e dei nonni. Dopo la laurea a Torino ho trovato facilmente lavoro, in un’epoca in cui le cose che so fare erano più apprezzate».

Il lavoro intellettuale e la conoscenza della letteratura.

«Sì, non ho mai temuto di restare disoccupato come accade ai ragazzi di adesso. Oggi, dopo che un docente e uno studente si sono incontrati in studio, al pomeriggio si scambiano email per precisare i contenuti. Al mio corso erano iscritti 500 studenti, Claudio Gorlier di letteratura anglosassone ne aveva duemila: pensi se dopo averli incontrati fosse stato necessario precisare il colloquio per iscritto. Siamo stati fortunati, nel rapporto con il tempo…».

In che senso?

«Il presente si allargava nelle memorie degli adulti. La guerra e il dopoguerra… tutto era vissuto in una specie di fraternità. Non voglio fare il vecchio che deplora, ma oggi subiamo la dittatura dell’attualità. Presente uguale attualità».

Invece?

«Non parlo della Prima guerra d’indipendenza e di Carlo Alberto. Ma la Prima guerra mondiale, quella sì apparteneva alla mia formazione grazie ai racconti degli adulti. Era un presente dilatato. Oggi se non hai letto Il Codice Da Vinci devi giustificarti. Innanzitutto, ci vuole una motivazione per fare, prima che per non fare una cosa. Secondariamente: posso avere la libertà di preferire un’opera di Fëdor Dostoevskij che ancora non ho letto? Si può non stare in fila con la marcia del progresso?».

Rivendica il diritto di non accodarsi…

«Credo che Robinson Crusoe possa darmi più di tante riflessioni sul coronavirus. Non c’è nulla di reattivo in questo. Come non c’è nel fatto che preferisco la musica leggera di qualche decennio fa all’hip hop. Credo si possa marinare la scuola dell’attualità. Anche se poi il politically correct vorrebbe riportarci all’ordine».

Come, per esempio?

«Gliene faccio due. Il primo: Leggere Lolita a Teheran, titolo di un libro molto coccolato. Premesso che Lolita è un grande romanzo, che nessun libro va bandito e che la condizione della donna in Iran grida vendetta, come titolo avrei preferito Leggere Madame Bovary a Teheran, per dire. Invece, bisogna sempre indossare il distintivo. Il timore di non essere à la page finisce per guastare anche la causa più giusta».

Il secondo esempio?

«Lo rubo a mio figlio. Avrei voluto vedere i contestatori di Benedetto XVI quando disapprovò il matrimonio omosessuale scagliare almeno qualche pomodoro contro le ambasciate dei paesi dove venivano decapitati gli omosessuali adulti e consenzienti».

Che cosa pensa dei balconi canterini e di slogan come andrà tutto bene?

«Distinguerei. Certi slogan dovrebbero essere rivisti. Anch’io tendo a essere ottimista con la volontà ma pessimista con la ragione. Tutto bene per chi sopravvive. I balconi invece li sento più vicini. Sono un segno di quella coralità che amo. Nell’atrio del mio palazzo c’è un cesto dove gli inquilini mettono i propri libri a disposizione di tutti. Sono contento. Certo, sarebbe ingenuo sopravvalutare questi gesti, ma riterrei sbagliato arricciare il naso. Qualche giorno fa mi è arrivato un testo di Bergoglio quand’era cardinale, un commento agli esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Tra i motti nelle prime pagine citava Il capitano della compagnia, un vecchio canto degli alpini. Non possiamo fare gli aristocratici».

Le piace papa Francesco?

«Ha un’idea avventurosa e coinvolgente di Dio e del cristianesimo. Trovo ingiusto accusarlo di non pronunciarsi in difesa della vita, perché quando ha detto che l’aborto equivale ad <assoldare un sicario>, ha usato una delle espressioni antiabortiste più forti».

Che impressione le ha fatto la preghiera nella piazza san Pietro deserta?

«Ha avuto la forza di una poesia. Ho pensato che il cristiano non può essere solo anche quando sembra che lo sia. La piazza vuota mi ha ricordato anche il “non praevalebunt” citato da Benedetto XVI in uno dei suoi libri. E di cui parlammo…».

Cosa le disse?

«Ero andato a presentare il secondo volume della sua trilogia su Gesù. In un colloquio mi disse che potrà accadere che anche per mille anni il cristianesimo sia testimoniato da sparuti gruppi di fedeli, nascosti in qualche paesino di montagna, per poi rinascere. Ecco, una Chiesa lontana dai trionfalismi… Benedetto XVI mi citò la frase di Gesù: “La vita eterna è che conoscano Te e Colui che hai mandato”».

Il tempo va messo in relazione alla verità più che allo scorrere di ore e giorni?

«Da qui deriva il senso della storia della Chiesa. Questa drammaticità ce l’aveva anche Woytjla, il Papa polacco nato e formatosi in Polonia, nel regime comunista. Che, a un certo punto, capì che il comunismo tramontava, mentre il dio mercato era deciso a eliminare il cristianesimo».

Che cosa pensa della Pasqua con le chiese chiuse?

«Penso sia una grande privazione anche l’impossibilità di accedere ai sacramenti. Il cristianesimo non è una religione. Oggi il primo dietologo che passa spaccia i suoi consigli per un credo, una religione, una verità. Ma l’opinione è il contrario della verità. Per fortuna non mi ha chiamato opinionista».

Sta parlando della testata per cui scrivo?

«Sì, un po’ ambiziosa. Ma anche del cristianesimo, Gilbert Keith Chesterton parla del materialismo del cristianesimo, di Cristo sudato nel Getsemani. È tutto nell’anagramma di sant’Agostino della domanda di Ponzio Pilato a Gesù “Quid est veritas?” (Cos’è la verità?) “Est vir qui adest” (È l’uomo qui presente). Lo citò anche Carlo I d’Inghilterra prima di essere decapitato».

L’intervista è finita. Ma stavolta è Magris a richiamare: «Volevo dirle che c’è qualcosa di manzonianamente provvidenziale nel fatto che Matteo Salvini quest’estate abbia fatto cadere il governo. Altrimenti ci sarebbe stato lui adesso…», butta lì, ironico. Ma non si era detto che non si parlava di politica?

 

La Verità, 12 aprile 2020