«Perché mi piace marinare la scuola dell’attualità»

L’intervista è finita quando mi accorgo che Claudio Magris ha compiuto 81 anni venerdì santo, l’altro ieri per chi legge.

Come ha festeggiato, professore?

«Anche se non sono praticante non ho ceduto a libagioni. Quando, da giovane, comunicai a mio padre che non avrei più frequentato la Chiesa, lui, nemmeno praticante, mi rispose che si trattava di una scelta da ponderare bene. Perciò, sobrietà. Ho fatto un brindisi la sera prima con i miei figli che sono venuti a trovarmi. Venerdì, invece, ho allungato un po’ la passeggiata sul lungomare, quella sì. Ma non mi hanno arrestato». Le parole di Magris sono venate di ironia, di memorie visive e di un certo spirito asburgico fatto di austerità e rispetto. Sentimenti che attraversano la sua letteratura. Compreso l’ultimo libro, Tempo curvo a Krems (Garzanti), composto di cinque brevi racconti con protagonisti diversi, tutti un po’ avanti negli anni e inclini a un’esistenza riservata. Al telefono trattiamo le condizioni della nostra chiacchierata – «parliamo della Pasqua, non di politica» – e ci diamo appuntamento. Triestino molto affezionato a Torino dove si è laureato e ha a lungo insegnato letteratura tedesca, collaboratore da cinquant’anni del Corriere della Sera, in possesso di una cultura sterminata che, senza riuscirci, fa di tutto per dissimulare – «sono un tipo da birreria» – Magris è per Mario Vargas Llosa «uno dei più grandi scrittori del nostro tempo».

Come trascorre la clausura?

«Paradossalmente incalzato. Sto finendo un lavoro che devo consegnare alla Mondadori. Dovrebbe intitolarsi Vere e improbabili, come le tre storie che racconto. Una delle quali, protagonista una missionaria salesiana, richiedeva molte verifiche. Poi rispondo alle lettere, sto con mia moglie… Vivo quello che Giuseppe Ungaretti ha chiamato “il deserto di chi sopravvive”. Ho perso molte persone care e amici. Egoisticamente, mi dispiace più per me che per loro. Ci vorrebbe un tuffo in mare…».

Già in questa stagione?

«Quest’anno il clima è particolarmente mite. Da metà aprile a ottobre, quando il tempo lo consente mi immergo ogni giorno per una mezz’ora».

È un nuotatore?

«No, non è un’abitudine sportiva. Non m’interessano prestazione e velocità, ma l’abbandono. Nuoto a lungo, lentamente».

Le manca molto?

«Non credo ci sarebbero controindicazioni se uno nuota da solo… Capisco che non si possa perché poi lo imiterebbero altri. E io sono ligio alle regole. Però, senza il mare per me anche l’amore è impensabile… Vederlo, ascoltarlo, ma soprattutto essere dentro. È una confidenza che ho ereditato da mia mamma. Avrò avuto 4 anni, poco più, quando imparai a nuotare. Ero appeso alle sue spalle mentre s’inoltrava nell’acqua. Deve aver percepito che non avevo paura e mi lasciò scivolare dentro, tranquillamente…».

C’è qualcos’altro che le manca in questi strani giorni?

«Certi aiuti pratici che risolvono la mia disabilità digitale. Non un vezzo, una vera incapacità. Registro su cassette, un paio di persone ascoltano e trascrivono. Ci vediamo sotto casa per scambiarci il materiale come fosse una refurtiva. Mi aiutano anche i miei figli, ma non voglio pesare troppo su di loro».

Che cosa fanno i suoi figli?

«Il maggiore è nato qualche ora prima che morisse mio padre. La notte tra il 29 e il 30 maggio 1966 andavo da un reparto all’altro dell’ospedale… Ha studiato all’estero, insegnato in Belgio, in Francia, ora è tornato. Il secondo si è laureato in legge, si occupa di appalti, ma ama girare e produrre corti cinematografici. Lui ha sempre vissuto a Trieste. Il paradosso è che, mentre del primo, giramondo, sapevo tutto, del secondo, stanziale, non so niente. È un’omertà che serve a proteggerlo e proteggermi, sono un padre ansioso».

Siete molto complici?

«Un triumvirato. Viviamo in ganga, come si dice a Trieste».

Oltre al mare e agli aiutanti che cosa le manca ancora?

«Le passeggiate, la città, il caffè. Lo so, in interiore homine habitat veritas (nell’intimo dell’uomo risiede la verità ndr), però a me piace uscire, fermarmi anche per poco con un amico. Amo una certa coralità perché appartengo a una generazione fortunata. Sono nato nel 1939 e la guerra l’ho vissuta attraverso i racconti dei miei genitori e dei nonni. Dopo la laurea a Torino ho trovato facilmente lavoro, in un’epoca in cui le cose che so fare erano più apprezzate».

Il lavoro intellettuale e la conoscenza della letteratura.

«Sì, non ho mai temuto di restare disoccupato come accade ai ragazzi di adesso. Oggi, dopo che un docente e uno studente si sono incontrati in studio, al pomeriggio si scambiano email per precisare i contenuti. Al mio corso erano iscritti 500 studenti, Claudio Gorlier di letteratura anglosassone ne aveva duemila: pensi se dopo averli incontrati fosse stato necessario precisare il colloquio per iscritto. Siamo stati fortunati, nel rapporto con il tempo…».

In che senso?

«Il presente si allargava nelle memorie degli adulti. La guerra e il dopoguerra… tutto era vissuto in una specie di fraternità. Non voglio fare il vecchio che deplora, ma oggi subiamo la dittatura dell’attualità. Presente uguale attualità».

Invece?

«Non parlo della Prima guerra d’indipendenza e di Carlo Alberto. Ma la Prima guerra mondiale, quella sì apparteneva alla mia formazione grazie ai racconti degli adulti. Era un presente dilatato. Oggi se non hai letto Il Codice Da Vinci devi giustificarti. Innanzitutto, ci vuole una motivazione per fare, prima che per non fare una cosa. Secondariamente: posso avere la libertà di preferire un’opera di Fëdor Dostoevskij che ancora non ho letto? Si può non stare in fila con la marcia del progresso?».

Rivendica il diritto di non accodarsi…

«Credo che Robinson Crusoe possa darmi più di tante riflessioni sul coronavirus. Non c’è nulla di reattivo in questo. Come non c’è nel fatto che preferisco la musica leggera di qualche decennio fa all’hip hop. Credo si possa marinare la scuola dell’attualità. Anche se poi il politically correct vorrebbe riportarci all’ordine».

Come, per esempio?

«Gliene faccio due. Il primo: Leggere Lolita a Teheran, titolo di un libro molto coccolato. Premesso che Lolita è un grande romanzo, che nessun libro va bandito e che la condizione della donna in Iran grida vendetta, come titolo avrei preferito Leggere Madame Bovary a Teheran, per dire. Invece, bisogna sempre indossare il distintivo. Il timore di non essere à la page finisce per guastare anche la causa più giusta».

Il secondo esempio?

«Lo rubo a mio figlio. Avrei voluto vedere i contestatori di Benedetto XVI quando disapprovò il matrimonio omosessuale scagliare almeno qualche pomodoro contro le ambasciate dei paesi dove venivano decapitati gli omosessuali adulti e consenzienti».

Che cosa pensa dei balconi canterini e di slogan come andrà tutto bene?

«Distinguerei. Certi slogan dovrebbero essere rivisti. Anch’io tendo a essere ottimista con la volontà ma pessimista con la ragione. Tutto bene per chi sopravvive. I balconi invece li sento più vicini. Sono un segno di quella coralità che amo. Nell’atrio del mio palazzo c’è un cesto dove gli inquilini mettono i propri libri a disposizione di tutti. Sono contento. Certo, sarebbe ingenuo sopravvalutare questi gesti, ma riterrei sbagliato arricciare il naso. Qualche giorno fa mi è arrivato un testo di Bergoglio quand’era cardinale, un commento agli esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Tra i motti nelle prime pagine citava Il capitano della compagnia, un vecchio canto degli alpini. Non possiamo fare gli aristocratici».

Le piace papa Francesco?

«Ha un’idea avventurosa e coinvolgente di Dio e del cristianesimo. Trovo ingiusto accusarlo di non pronunciarsi in difesa della vita, perché quando ha detto che l’aborto equivale ad <assoldare un sicario>, ha usato una delle espressioni antiabortiste più forti».

Che impressione le ha fatto la preghiera nella piazza san Pietro deserta?

«Ha avuto la forza di una poesia. Ho pensato che il cristiano non può essere solo anche quando sembra che lo sia. La piazza vuota mi ha ricordato anche il “non praevalebunt” citato da Benedetto XVI in uno dei suoi libri. E di cui parlammo…».

Cosa le disse?

«Ero andato a presentare il secondo volume della sua trilogia su Gesù. In un colloquio mi disse che potrà accadere che anche per mille anni il cristianesimo sia testimoniato da sparuti gruppi di fedeli, nascosti in qualche paesino di montagna, per poi rinascere. Ecco, una Chiesa lontana dai trionfalismi… Benedetto XVI mi citò la frase di Gesù: “La vita eterna è che conoscano Te e Colui che hai mandato”».

Il tempo va messo in relazione alla verità più che allo scorrere di ore e giorni?

«Da qui deriva il senso della storia della Chiesa. Questa drammaticità ce l’aveva anche Woytjla, il Papa polacco nato e formatosi in Polonia, nel regime comunista. Che, a un certo punto, capì che il comunismo tramontava, mentre il dio mercato era deciso a eliminare il cristianesimo».

Che cosa pensa della Pasqua con le chiese chiuse?

«Penso sia una grande privazione anche l’impossibilità di accedere ai sacramenti. Il cristianesimo non è una religione. Oggi il primo dietologo che passa spaccia i suoi consigli per un credo, una religione, una verità. Ma l’opinione è il contrario della verità. Per fortuna non mi ha chiamato opinionista».

Sta parlando della testata per cui scrivo?

«Sì, un po’ ambiziosa. Ma anche del cristianesimo, Gilbert Keith Chesterton parla del materialismo del cristianesimo, di Cristo sudato nel Getsemani. È tutto nell’anagramma di sant’Agostino della domanda di Ponzio Pilato a Gesù “Quid est veritas?” (Cos’è la verità?) “Est vir qui adest” (È l’uomo qui presente). Lo citò anche Carlo I d’Inghilterra prima di essere decapitato».

L’intervista è finita. Ma stavolta è Magris a richiamare: «Volevo dirle che c’è qualcosa di manzonianamente provvidenziale nel fatto che Matteo Salvini quest’estate abbia fatto cadere il governo. Altrimenti ci sarebbe stato lui adesso…», butta lì, ironico. Ma non si era detto che non si parlava di politica?

 

La Verità, 12 aprile 2020